Carlo De Benedetti, 82 anni il prossimo novembre: ha passato da tempo l’impero ai figli

I viceré di Torino

Michele Masneri
Da Carlo a Rodolfo De Benedetti, una dinastia nata inseguendo Sua Maestà Agnelli. Gli anni in Fiat, gli affari, i giornali. Ora, più libero, l’Ing. si scopre guru e immobiliarista. Il primogenenito ha negoziato con Elkann la fusione Stampa-Rep. Gli altri due figli dell'Ingegnere: Edoardo, medico a Ginevra, e Marco che come il padre "sa fare i soldi e li ha pure fatti".

"L’occidente è a una svolta storica: è in gioco la sopravvivenza della democrazia, anche a causa della situazione economica e finanziaria”. Lo ha detto Carlo De Benedetti ad Aldo Cazzullo sul Corriere qualche tempo fa. A quasi ottantadue anni – li compie a novembre – CDB, già grande editore, imprenditore, scalatore, si manifesta dunque nella sua nuova, ultima incarnazione, il profeta alla Nouriel Roubini o Warren Buffett. La nuova versione “global” di CDB si palesa anche in un pensatoio globale che si chiamerà “MacroGeo”, un think tank presieduto dall’Ingegnere che servirà presto i mercati di profezie (non necessariamente di sventura), insieme al direttore di Limes Lucio Caracciolo; pensatoio che non sarà a scopo di lucro. Ma non che l’Ing., diventato “l’oracolo di Ivrea”, abbia perso il gusto degli affari.

 

Nell’isola di Marbella, dove risiede sempre più spesso, ha messo su infatti un proficuo business immobiliare, con la “Favorita H24”, società di real estate che come ha scritto Franco Bechis su Libero ha acquistato immobili per almeno una ventina di milioni. Pensatore “macro”, investitore “micro”, mente globale e portafogli locale, l’Ing. è dunque vivo, vivissimo, probabilmente felice e alleggerito dell’impero che ha passato da tempo ai figli: tre anni fa donò infatti ai suoi il 100 per cento della scatola di controllo, la Carlo De Benedetti & Figli (oggi Fratelli De Benedetti Spa).

 

Così se gli eredi di CDB siedono su un conglomerato composto da media, componentistica, sanità, l’Ingegnere può dedicarsi a passioni e scorribande più light, e regna da presidente solo sul gruppo Espresso. Il regno De Benedetti, pura autobiografia del Novecento, origina da qualcosa di più hard, però, nello specifico da tubature. Il vecchio ingegner Rodolfo De Benedetti, padre di Carlo, aveva fondato infatti la Compagnia italiana tubi flessibili metallici che poi diventerà Gilardini; con una storia umana avventurosa, nel ’43 fuggì in Svizzera per le persecuzioni razziali (i De Benedetti sono ebrei, o almeno tendenzialmente ebrei, perché hanno sempre mamme cattoliche), ritornò, riaprì la fabbrica. Come supremo status aveva affittato un appartamento dalla casa viceregnante torinese: si trasferì nella palazzina Agnelli di corso Matteotti, all’epoca corso Oporto, quella di “Vestivamo alla marinara”, nel palazzotto che Truman Capote nel 1969 su Vogue descriveva come “splendore italiano”, tra “il servizio giornaliero di lavanderia, i tasti da premere per convocare all’istante il personale in livrea e le stanze invernali rivestite di velluto ma accese di fioriture estive”.

 


Carlo de Benedetti (foto LaPresse)


 

Un signore esperto di quel condominio racconta di Umberto Agnelli ragazzo che scendeva le scale e andava dal vecchio ingegner De Benedetti esperto di tubi e ingranaggi a chiedergli consiglio su una moto da comprare, indeciso tra due modelli, e lì discussioni di ore dell’anziano guru: “Questa ha i cilindri orizzontali e il raffreddamento ad aria, quest’altra ha una ripresa migliore, e consuma meno”, e dopo ore di discussioni il piccolo Umberto usciva e se le comprava entrambe, le moto.

 

E in questa duplicità di opzioni motoristiche stava un mondo, mondo di mezzo tra le ricchezze dei De Benedetti e la regalità agnelliana. Molti anni dopo, Umberto, compagno di scuola di Carlo De Benedetti, fu colui che portò il compagno, nel frattempo diventato grande imprenditore – aveva portato la Gilardini da 50 a 1.000 dipendenti – alla Fiat. E lì ci fu un altro climax di questa relazione complicata, coi famosi cento giorni in cui CDB divenne amministratore delegato, coi pieni poteri e soprattutto una quota dell’azienda, il 60 per cento della sua Gilardini in cambio del 5 per cento del Lingotto; il concambio fu considerato scandalosamente favorevole (a lui), ma è anche vero che Gianni Agnelli, “abituato al calciomercato, ragionava più con criteri estetico-passionali che non razionali, insomma prendere un amministratore delegato per la Fiat era come comprare un calciatore della Juve, si fidava del suo istinto”, dice un manager torinese.

 


De Benedetti con Agnelli: nel 1976 i cento giorni alla Fiat da amministratore delegato


 

“A quei tempi Agnelli era affascinato dall’intraprendenza, dal dinamismo, ma soprattutto dall’immagine di successo del giovane imprenditore”, scrive Giorgio Garuzzo, grande manager, a proposito dell’Ingegnere, nelle sue memorie “Fiat, i segreti di un’epoca” (Fazi editore). De Benedetti aveva allora solo quarantuno anni. Fu talmente efficiente che il suo governo durò appunto da marzo ad agosto, interrotto assai bruscamente. “Ci accorgemmo che stava succedendo qualcosa perché l’Avvocato non era al vernissage della Juventus a Villar Perosa, come ogni anno”, raccontò all’epoca un giovane Ezio Mauro sulla Gazzetta del Popolo di Torino.

 

All’epoca gli addetti ai livori – guidati da Cesare Romiti – dissero che CDB si era talmente innamorato dell’azienda da volerla tutta per sé, preparando in realtà una scalata. Seguì la cacciata. Fu la prima delle non poche ombre sulla storia debenedettiana, storia di grandi successi e di grandi incompiute. Guido Roberto Vitale, storico banchiere di sistema, ricordava come Romiti e CDB fossero fatti per non piacersi, “l’animo imprenditoriale di Carlo e quello funzionariale di Cesare” (poi prevalse quello funzionariale), e la storica contrapposizione si risolse una decina d’anni fa, quando, a un pranzo a due su una terrazza romana, si spiegarono e riappacificarono, “e convennero che la storia della scalata era tutta una bufala”, racconta un manager.

 

“Avrei voluto studiare Economia, e mio padre, sfidandomi, disse che non c’era problema, del resto non sarei stato in grado di fare Ingegneria”, raccontò CDB alla Bocconi; e fu così che nacque l’Ingegnere con la I maiuscola. CDB se ne andò dalla Fiat esattamente quarant’anni fa, era il 1976, anno di nascita della Cir, Compagnie industriali riunite, holding di famiglia, ma i rapporti con la Casa regnante continuarono, da distanze diverse, con l’Ingegnere all’inseguimento dell’Avvocato; inseguimento femminile e nautico, dall’Itaska rompighiaccio (da anni in vendita), al più recente veliero Adesso, che troneggia in effigie nello studio di CDB a Roma. Adesso, si chiama il veliero, sembra un claim renziano, ma si tratta di un 35 metri disegnato da German Freres, e interni di Gae Aulenti, una delle architette preferite da Gianni (fece gli interni di una casa milanese, in cui troneggiava un branco di pecore, o agnelli, a grandezza naturale, sculture di Claude e Xavier Lalanne vicino a un tavolo da fabbrica originale Fiat).

 


L'Ingegnere con Gianni e Umberto Agnelli, il compagno di scuola che lo portò alla Fiat


 

Rispetto al mondo dell’Avvocato però CDB era un innovatore, un “visionario”, secondo Corrado Passera, ex assistente e poi a capo di Olivetti e del gruppo Espresso. “Rappresentava il simbolo della nuova imprenditoria di mercato, in contrapposizione ai grandi gruppi e alle famiglie potenti del nostro paese, Fiat in testa”, scrive il manager ed ex ministro nelle sue memorie intitolate “Ricomincio da cinque” (Rizzoli). Pure passi falsi, forse per übris: come nel 1988 quando tentò, senza riuscire, l’assalto alla Société Générale de Belgique, primo gruppo belga: “Era talmente entusiasta dell’operazione che la annunciò prima che fosse conclusa”, dice un manager al Foglio. Poi la svolta con Olivetti: azienda decotta ma che CDB seppe rilanciare, inventandosi prima i computer made in Ivrea e poi la telefonia cellulare in Italia, con la più grande start-up italiana novecentesca. “Non guardi i bilanci perché altrimenti non accetterà mai, ma sono convinto che uno come lei può far girare l’azienda, può riuscirci”, gli aveva detto Bruno Visentini, gentiluomo del Partito d’azione, ministro delle Finanze.

 

“L’epilogo della vicenda Fiat e le maldicenze che ne seguirono avevano lasciato dentro di me un forte senso di rivalsa”, dirà poi CDB agli studenti della Bocconi. E poi da Olivetti nasce Omnitel, “a New York conobbi un imprenditore che stava lanciando la telefonia cellulare a Porto Rico, scelto perché lì la gente amava parlare molto, e dunque c’erano delle evidenti similitudini con il nostro paese”, dirà CDB. Dopo che Omnitel era nata e trionfava sui mercati, inventandosi tra l’altro la carta prepagata, il trionfo lasciò il posto a una strana uscita di scena. “L’Ingegnere si fece prendere dal panico e svendette l’azienda a Roberto Colaninno”, scrive sempre Passera. “Con quel tesoro – parliamo di circa venti miliardi di euro attuali – Colaninno si comprò Telecom”. Non è mai stato chiarito il motivo dell’uscita di scena; (i suoi detrattori più incalliti hanno spesso alluso al fatto che l’Ing. abbia addirittura speculato al ribasso sul titolo Olivetti, ma senza mai dimostrarlo)”.

 

CDB disse d’essere stato costretto a vendere dalle banche. Di Olivetti rimane un nome mitologico, simbolo dell’imprenditoria illuminata; il negozio di Venezia disegnato da Carlo Scarpa ospita registratori di cassa di Ettore Sottsass come opere d’arte contemporanea. Apple cita il suo design. Rimane anche una scia dolorosa e fastidiosa, con la condanna per la questione dell’amianto nello stabilimento di Ivrea (cinque anni sia a Carlo che a Franco De o Debenedetti, sono uscite da pochi giorni le motivazioni della sentenza). C’è anche stata una curiosa querelle, su questo giornale, tra l’ingegnere e Augusta Iannini, magistrato e moglie di Bruno Vespa, che vent’anni fa spiccò un mandato di cattura per l’Ingegnere per una vicenda di telescriventi vendute alle Poste (nel 2003 dopo un lunghissimo processo è stato assolto da alcune accuse e prescritto per altre).

 

“Quella mattina dovevano essere arrestate tre persone: io, Gianni Letta e Adriano Galliani”, ha detto CDB a Salvatore Merlo qui sul Foglio. “Ma la dottoressa Iannini disse che non poteva firmare gli arresti di Letta e Galliani, perché li conosceva ed era influenzata dalle frequentazioni del marito. Il mio arresto invece lo firmò. Forse quello che valeva per Letta e Galliani poteva valere anche per me. Viaggiai da Milano a Roma su un’auto civetta dei carabinieri che mi depositarono a Regina Coeli. Fui spogliato, sottoposto a perquisizione, anche quella più intima”. Segue amara riflessione sul carcere (CDB fu rilasciato solo a tarda sera). Segue rettifica, il 7 giugno scorso, della dottoressa Iannini, che al Foglio scrive più o meno d’essersi pentita solo d’averlo così prontamente scarcerato.

 

L’ufficio di De Benedetti: nel torrione dell’Espresso sulla via Cristoforo Colombo, a Roma, un enorme attico in cui un giornalista freelance racconta un’esperienza vagamente fantozziana: convocato da una assistente – “l’Ingegnere avrebbe piacere di conoscerla” – superava ascensori dirigenziali con le piante di ficus che aumentavano al salire, e portieri gallonati, e in lontananza tra pavimenti e boiserie di legno chiaro, c’era lui, l’Ingegnere, cravatta a righe rosa, bretelle, abbronzatura e dietro le foto della moglie Silvia e del famoso veliero. Si era scritto qualcosa che gli era forse piaciuto, e lui – si capì poi – faceva un gioco, leggendo giornalisti “nuovi” e convocandoli; fece tanti complimenti, con un inquietante curriculum del malcapitato stampato sulla scrivania, e assicurò che poi avrebbe richiamato il giorno dopo. E il giorno dopo, addirittura richiamò in persona, assicurando che ormai si era “a bordo”, proseguendo la metafora nautica, poi non successe più niente, mai più, e invece poi parlando della disavventura con colleghi, si fece pure la figura degli ingenui, “ma come, lui fa così con tutti, non lo sai”, “a me mi ha convocato l’anno scorso”, “a me nel ’98”, “poi non assumono mai nessuno, assolutamente”, e “c’è ancora la foto del veliero, dietro?”.

 

Il gusto dei giornali, come passione di una vita, o almeno di una seconda vita: prima di arrivare all’Espresso, CDB fu imprenditore della componentistica, delle banche (nel 1982 entrò nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, uscendone velocemente con ampio margine), dell’alimentare, con il blitz sulla Sme, panettoni e patatine di stato, con cui voleva creare il primo polo alimentare d’Italia, avendo già comprato la Buitoni. Romano Prodi all’Iri metteva in vendita a un prezzo forse vantaggioso le pubbliche merendine.

 

E la leggenda vuole che non fosse stato informato Craxi presidente del Consiglio, che questi impose una cordata alternativa (Berlusconi più Barilla più Ferrero), che arrivarono diverse offerte, e che poi la Sme non venne più venduta per anni. L’Ingegnere disse poi che l’operazione non riuscì perché “ci sono state interferenze politiche e perché non ho pagato mazzette” (seguì defatigante vicenda giudiziaria, CDB fece causa all’Iri, la perse, accusò il Cav. di aver pagato i giudici, Berlusconi ne uscì assolto, Previti condannato per corruzione semplice).

 


Carlo De Benedetti con la moglie Silvia


 

 All’Espresso invece CDB arrivò nel 1991 a seguito di un’altra micidiale vicenda giudiziaria, la famosa guerra di Segrate. CDB, azionista di minoranza, strinse un patto con l’erede Mondadori, Luca Formenton, mentre il Cav. si mise a corteggiare il medesimo erede a modo suo. Vinsero entrambi, uno con la maggioranza delle azioni normali e l’altro con quelle privilegiate, tipo bicameralismo perfetto, con conseguente inagibilità. Subentrò il famigerato Lodo, che stabiliva le ragioni di De Benedetti; Berlusconi impugnò, e il tribunale ribaltò il verdetto; alla fine dovette intervenire Giulio Andreotti mandando Giuseppe Ciarrapico a mediare: Repubblica, L’Espresso e i quotidiani e periodici locali della Finegil sarebbero tornati alla Cir, mentre Panorama, Epoca e tutto il resto della Mondadori restavano alla Fininvest, che riceveva 365 miliardi di lire come conguaglio per la cessione delle testate all’azienda di Carlo De Benedetti. Poi, la lunga vicenda legale: Nel 1995 Stefania Ariosto, già testimone al processo Sme, accusò Cesare Previti di aver pagato un componente del collegio arbitrale, il giudice Vittorio Metta. Nel 2007 Previti è riconosciuto colpevole di corruzione in atti giudiziari. Più pesante la sentenza civile: nel 2013 la Cassazione stabilisce un risarcimento mostruoso in favore di CDB: 494 milioni di euro.

 

I giornali poi col tempo diventano la “cup of tea” di CDB. L’ultima parola sul cambio di direttore a Repubblica dopo l’èra Ezio Mauro è stata naturalmente sua (parola che ha fatto infuriare il fondatore Eugenio Scalfari, non avvertito che la scelta sarebbe caduta sull’ex direttore della Stampa Mario Calabresi), a seguito della decisione di Mauro di lasciare, dopo vent’anni, la direzione. Era stato sondato Giovanni Di Lorenzo, direttore della Zeit, che per due volte rifiutò. Si racconta un aneddoto: “Non conosco abbastanza bene l’Italia”, dice il giornalista; risposta agnellesca dell’Ingegnere: “Potrebbe essere un ottimo motivo per accettare”).

 

Mauro aveva poi preparato una lista di dodici nomi, tra cui lo stesso Calabresi, l’ex direttore di Affari e Finanza Massimo Giannini, il direttore del Tg1 (ed ex cronista di Rep.) Mario Orfeo. Ma alla fine a decidere è stato CDB. “Tanto Scalfari si sarebbe infuriato comunque, ma non potevamo certo farci suggerire da lui, pur con tutta la riconoscenza possibile, la scelta di un direttore 2.0 per Rep.”, dice al Foglio un giornalista di largo Fochetti. Seguono sbrocco scalfariano, con minaccia di andarsene per sempre e sciopero ad libitum della lenzuolata domenicale; visita penitenziale di CDB a casa Scalfari in missione-Canossa, entusiastico endorsement di Calabresi da parte di Scalfari da Lilli Gruber (“come previsto”, dice la perfida fonte).

 

Ma la passione è passione; ancora oggi l’Ingegnere, quando non è nella nuova casa a Marbella o a Dogliani, nell’amato Piemonte, presenzia a Roma nel quartier generale dell’Espresso, dal mercoledì al venerdì. Anche se ormai il timone dell’impero è nelle mani di Rodolfo, il figlio primogenito. L’uomo che (forse) odiava i giornali è diventato così il più grande editore italiano, a seguito della fusione Stampa-Repubblica e dopo la decisione di CDB di abdicare cedendo ai suoi il 100 per cento della scatola di controllo. Fu Rodolfo a riportarlo “a scuola”, nel 2006, trascinandolo a un seminario sulle successioni all’Università di Harvard.

 

Mentre a fine luglio sono stati firmati gli accordi definitivi tra Exor, la finanziaria della famiglia Elkann, e Cir, per cui alla fine i De Benedetti avranno il 43 per cento del maggior polo giornalistico italiano, con la Stampa e la Repubblica, l’Espresso, il Secolo XIX, e un’infinità di giornali locali che Rep. porta in dote. Un polo su cui oggi regna Rodolfo. E bisognerà forse scomodare la solita nemesi per narrare di Rodolfo, anni cinquantacinque, non-giovane presidente della Cir. Non si sa se li odi proprio, i giornali, RDB, e il tema è dei più discussi, però di certo non li ama dell’ardore paterno. E’ un carattere proprio diverso: primogenito dell’Ingegnere, appunto (Torino, 1961), ma con passioni diverse: il ciclismo e la riservatezza, soprattutto.

 

Un tempo faceva addirittura 5.000 chilometri l’anno, ora ha un po’ ridotto, ma ama soffrire sulla maratona delle Alpi, con gli amici Vittorio Colao, numero uno di Vodafone, e Mario Greco, capo delle Generali. Di sicuro preferisce pedalare sotto sforzo allo sfarzo dell’apparizione pubblica. “Non ho il gusto dell’esibizione, diciamo così”, ha detto a Dario Cresto-Dina, amico e giornalista del gruppo, su Repubblica, qualche anno fa. Non frequenta, non appare. Così anche la leggenda di RDB odiatore dei giornali forse è appunto leggenda, perché come dice al Foglio una penna raffinatissima di Repubblica, “dicono così di lui perché non lo conoscono. In realtà non odia affatto i giornali, altrimenti non avrebbe avuto un ruolo di primo piano nel negoziato con gli Elkann per portare Stampa e Secolo XIX a largo Fochetti”.

 

Forse la leggenda della riluttanza verso la rotativa si deve anche a un uso diverso della stessa, o sua concezione: “Rifletti, ribalta il punto di vista”, ci dice sempre il giornalista di Rep: “Lui ha grande considerazione dei giornali ma non li utilizzerebbe mai per fare lobbying politico”, sottotitolo: ha una visione diversa rispetto a quella del padre. Insomma, RDB e questi giovani “hanno il potere ma non amano esibirlo come si usava nella generazione precedente”, ancora Lerner, che condivide con RDB vacanze nella Langa, paesaggio dell’anima, paesaggio da torinesi, da poderi Einaudi. “Sono italiani con una buona parte della loro esperienza di vita e alcune relazioni esistenziali fondamentali radicate altrove”, scrive Lerner, e RDB, nato a Torino quasi incidentalmente, è figlio di un capitalismo cosmopolita dato non solo dall’appartenenza ebraica ma anche (nel suo caso) dal clima di quegli anni, dal problema dei rapimenti: RDB viene mandato infatti a studiare a Ginevra, si laurea in Economia politica e poi in Legge, va a lavorare a Lombard Odier, finanza, poi un anno a New York, sempre grandi banche.

 

Poi, dopo la über-gavetta internazionale, la chiamata paterna, come direttore generale della Cir; e si dice che RDB avesse opposto un cauto rifiuto al padre, motivando la giovane età, e che l’ex ministro Bruno Visentini, amico e consigliere di famiglia, abbia risolto la situazione con una frase: “Non si preoccupi, la giovinezza è una cosa che passa col tempo”. Quello del rapporto col padre naturalmente è il fulcro dell’esperienza debenedettiana, con differenze spesso sfociate in conflitti, sublimati nel rapporto con la carta stampata. Ma la diversità è anche politica, di stile. Da una parte barche e yacht e il vivere inimitabile, le scalate internazionali, un senso “rampante”, come dicevano al “Drive In”, dell’esistenza. Dall’altra la sobrietà sparagnina e l’allergia ai salotti. “E’ un uomo di potere ma non di establishment”, dice di RDB al Foglio un conoscitore della materia. “Non va a Cernobbio, non va alle assemblee di Confindustria. La politica romana gli interessa molto relativamente”. “Ha una formazione liberal, come tutti in famiglia”, dice un amico, “ma non militante”, ha un côté liberista pro privatizzazioni e pro mercato che lo avvicina allo zio Franco Debenedetti.

 

Digressione: FDB lo si è incontrato in estate sul treno Roma-Bolzano: un signore alto, pantaloni neri attillati, una camicia verde Prada stampata con figure di marinai che si accoppiano con signorine (”secondo me è ispirata a Lucio Dalla, ‘ma come fanno i marinai’…”). Potrebbe essere un designer olandese. Franco Debenedetti, a partire dalla celebre questione del cognome, rappresenta un’ulteriore alterità rispetto al fratello. “Mio padre ha sempre scritto il suo cognome tutto attaccato”, ha detto a Sergio Rizzo sul Corriere. “Mio fratello e io siamo registrati all’anagrafe così. Io mantengo la versione filologicamente corretta. Mio fratello è più pragmatico”.

 

Franco, collaboratore del Foglio, liberismo in purezza, è l’inglese della famiglia. I suoi abiti eccentrici sono una manifestazione di indipendenza rispetto alla sartorialità di CDB. Doppiopetti sempre neri con cravatte gialle fiammeggianti come il ciuffo candido alla Andy Warhol. Attenzione al fisico (si pesa due volte al giorno). Ha una casa bellissima, affacciata sul teatro di Marcello, a Roma, una casa che pare più New York che Roma, opere d’arte contemporanea, dove tiene volentieri salotto, tra economisti, intellettuali, giornalisti. Una casa orgogliosamente senza terrazza (a Roma è una presa di posizione estetica e politica).

 

E’ l’altro ingegnere: ingegnere elettronico, specializzato nel nucleare, sarà però un manager, in una specie di carriera simbiotico-parallela a quella del fratello: vice presidente della Gilardini, segue Carlo alla Fiat (e rimane anche dopo la sua repentina fuoriuscita), nel 1978 entra a Olivetti come amministratore delegato. Alla carriera di manager affianca quella di saggista (il suo ultimo libro è una riflessione sulla politica industriale, “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, Marsilio) e di commentatore. Oltre che “civil servant” (già senatore tra le file del centrosinistra).

 

FDB d’estate va a Dobbiaco, dove fa molte scarpinate, insieme ai suoi sodali Jas Gawronski e Francesco Giavazzi, e al direttore dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi, “che avendo quarant’anni di meno va su come un treno, ma in discesa lo batto di brutto”, dice. Franco, ma come definiresti il tuo rapporto con tuo fratello? “molto affettuoso”. E poi: apre l’iPhone, ecco una foto con Giorgio Napolitano, a casa Debenedetti a Dobbiaco, e dietro un cartello, “in questa casa si vota sì”, e il sì è naturalmente il referendum di dicembre (“mentre mio fratello vota no”). CDB infatti ha dichiarato che se non cambia la legge elettorale voterà contro la riforma (ragionamento politico). Mentre il figlio Rodolfo qualche giorno fa al Financial Times ha annunciato che sta col sì, e però in maniera precipuamente rodolfiana (ragionamento pragmatico): il referendum è opportunità “di cambiamento”, ma se non passa “non sarà la fine del mondo”, e “il paese andrà avanti coi suoi problemi e le sue potenzialità”.

 

Restando a Franco, a Dobbiaco ancora si ricordano la festa “1880” di qualche anno fa, che celebrava insieme i diciotto anni di sua figlia Domenica e gli ottant’anni suoi. Oltre a lei ha altri due figli; è sposato con Barbara Ghella, fondatrice e amministratore delegato di Interaction Design Lab, società milanese che realizza progetti di telecomunicazioni. E’ fichissimo. Torniamo a Rodolfo. Tra i suoi amici c’è Gad Lerner, c’è Giovanna Zucconi, giornalista culturale e moglie di Michele Serra. Anche i luoghi non sono casuali, niente Capri, niente Sardegna, Serra e Zucconi hanno aperto una coltivazione di lavanda nella campagna piacentina, un posto che pare piaccia a RDB, e questi luoghi minori sembrano intonarsi all’aria dimessa, il contrario dello show-off, di RDB. Poi, proprio volendo sforzarsi, giù dalla Langa a Capalbio, nel compound-bene dei casali della Sacra, Società azionaria Capalbio redenta agricola, detentrice di 1.500 ettari riflessivi nella “piccola Atene” che fanno capo all’amico Carlo Puri, super manager milanese, mondanissimo, imparentato con la dinastia Pirelli, ex marito di Clio Goldsmith, grande Gatsby di Capalbio. Casali molto chic, mondanità attufate e nascoste. Intanto però RDB non si vede né all’Ultima spiaggia né a Macchiatonda, a fare il bagno, nessuno l’ha mai visto in giro, in nessuno dei due stabilimenti, qualcuno l’ha accostato però in bici, a soffrire sotto il sole macinando chilometri.

 


Carlo De Benedetti qui con Rodolfo, il primogenito, attuale presidente di Cofide e del gruppo Cir


 

Chilometri ne fa tanti anche in macchina, che guida (mai ’na gioia) senza autista, un tempo era un’Audi comprata usata, ora non si sa; da Milano dove abita sempre più raramente soprattutto verso Ginevra, perché in fondo è lì, tra tobleroni e conti ex cifrati che ha il cuore, pare; lì ha studiato fin dal liceo, lì vive un altro fratello, ancora più schivo. Edoardo (Torino, 1964) è medico specializzato in medicina interna e in cardiologia e lavora all’Hôpital de La Tour di Meyrin, Ginevra. Sembra il figlio ribelle del principe di Salina nel “Gattopardo”, che abbandona il milieu paterno di agi e legami e va a Londra a fare “una vita modesta di commesso in una ditta di carboni”. Ora, Edoardo non fa proprio il commesso, e non sta a Londra, è invece un super cardiologo, su Internet ci sono pure gli orari del suo studio privato a Ginevra, dalle 9 alle 12 e dalle 14 alle 17, ci si può arrivare col tram 18 o col bus 57. Un buon borghese, con sensibilità umanitaria, ha compiuto diverse missioni in ospedali di guerra. Siede nel cda della Cir e di Cofide, altra finanziaria della galassia debenedettiana. E’ sposato due volte, la seconda con la signora franco-turca Ilgi Sunaerel, e ha due figlie, Charlotte (1993) che frequenta la celebre école hotelliere di Losanna, e Valentine (1997) che studia cinema in Inghilterra. Tra le poche passioni, la Harley Davidson, con la quale scorrazza sul lago di Ginevra vestito completamente da centauro.

 

Sempre a Ginevra invece il delfino Rodolfo ha messo su da poco una società di gestione di patrimoni, insieme al suo grande amico e compagno d’università Alfredo Piacentini, la società si chiama Decalia Asset Management, e “la nostra priorità è proteggere il capitale”, è il motto di questa Decalia il cui nome sembrerebbe di pianta antica che potrebbe stare nel giardino profumato di Serra e Zucconi. A Ginevra, all’università, Rodolfo ha incontrato anche la futura moglie, Emmanuelle de Villepin, cugina dell’ex primo ministro francese, generando tre figliole, Neige, Alix e Mita, che sono la passione di RDB, e che pare riescano a produrre tenerezza e trasporto in un uomo non esattamente a sangue caldo (lui “dedito all’umor nero, sarcastico, se ti deve fare una battuta che t’ammazza, te la fa”, dice un amico). Storia ventennale, senza pettegolezzi, quella con la moglie, rara in queste società alte.

 

E le donne sono importanti nel mondo di RDB, c’è la madre Mita e c’è la moglie araldica, “molto semplice e tranquilla sotto un’apparenza snob”, dice un amico, e con lei sono vacanze low cost in Scozia, con macchina a noleggio, e ménage dei più tranquilli, al limite dell’indigente (“lei fa la spesa da sola, profilo più basso di così si muore. A volte le ho detto: era meglio se ti sposavi un marito ricco”, dice un’amica di famiglia). Emmanuelle si batte per la sua associazione, Together To Go, per la riabilitazione di bambini colpiti da patologie neurologiche complesse, per la quale si può vedere in strada a vendere ad appositi mercatini. Va in metropolitana e scrive libri intimi e intimisti, e scrive anche la figlia Neige, fotografa e giornalista rarefatta come spesso accade nelle borghesie altissime; e hanno fatto anche un libro di fiabe insieme, madre e figlia, e questo nucleo di calore domestico ginevrino fa da contraltare e controcanto alle ruvidezze del mondo, dev’essere la fonte di giubilo di RDB.

 

Però magari si divertono anche, più di quanto si creda. E qualche mese fa c’è stata perfino una cena allegra con Alba Parietti e il fidanzato Cristophe Lambert, che sono tutti amici soprattutto di Emmanuelle; perché l’attore francese era in classe al liceo svizzero insieme a Emmanuelle e Rodolfo De Benedetti;  c’è dunque un lato bling-ring che incrocia i De Benedetti di nuova generazione; il secondogenito, Marco (Torino, 1962) ha infatti sposato la giornalista tv Paola Ferrari. E’ forse il più simile al padre. Appassionato, secondo una retorica certamente sessista, di donne e motori. E’ l’unico figlio dell’Ingegnere che vive stabilmente in Italia, addirittura a Roma. Sull’Appia Antica, già “Appia dei popoli” secondo la leggenda socialista. Sposato dal ’97 con Ferrari, conduttrice della “Domenica sportiva”, nel 2008 candidata alle elezioni con La Destra dell’amica Santanchè, l’ha conosciuta a una cena in casa della cognata Emmanuelle.

 

Ha amici del tipo di Remo Ruffini, numero uno dei piumini Moncler, di cui ha promosso il rilancio; Marco è infatti numero uno del fondo di private equity Carlyle, e con l’operazione Moncler “ha fatto un sacco di soldi”, rivendendo poi la quota. “E’ l’unico dei figli dell’Ingegnere che sa fare i soldi, e li ha fatti”, dice un esperto della materia. Ha un passato di gavetta finanziaria a New York, spedito a farsi le ossa, e poi in Olivetti: quando la società di Ivrea passa nelle mani di Roberto Colaninno, diventerà uno dei suoi migliori alleati (e verrà ricompensato con la guida della Tim, dove rimane sei anni). Ha due figli: Alessandro (1998) e Virginia (1999). Il primo, scuola inglese all’aspirazionale istituto romano St. Stephens, è l’unico nipote maschio di CDB. E’ educatissimo, molto belloccio, assai amato dalla madre e dalle giovani fanciulle in fiore romane, che porta in barca tra Ibiza e Formentera e Ponza, anche se lui è appassionato soprattutto di calcio, per ora.

 

In totale, l’Ingegnere di nipoti ne hasette (tre da Rodolfo, due da Marco, due da Edoardo). CDB ha poi una famiglia acquisita che sono i figli della moglie Silvia, già coniugata Donà dalle Rose, dei feudatari della Costa Smeralda. Facendo i conti un po’ della serva, CDB ha lasciato l’azienda ai figli: la Cir, pur coi valori di Borsa depressi attuali, vale poco meno di 1 miliardo di euro, dunque i figli, che ne posseggono circa il 50 per cento in quote paritarie, possono contare su un tesoretto intorno ai 170 milioni di euro cadauno. In più, c’è la cassaforte privata dell’Ingegnere, la Romed, valutata (a spanne) un altro miliardo di euro. In teoria a Silvia De Benedetti e ai di lei eredi spetterà un giorno almeno la metà di questa cifra, mentre il resto dovrebbe di nuovo distribuirsi tra i rampolli dell’Ingegnere.

 

E del resto le donne sono il segreto di casa De Benedetti: tengono unita la famiglia, che nonostante gli scossoni rimane compatta. Ma non c’è solo la famiglia, c’è la “rezdora” dell’impero, Monica Mondardini, amministratore delegato di Cir e dell’Espresso; ed è stato proprio Rodolfo a scovarla, Mondardini, in Spagna, dove la manager era responsabile delle assicurazioni Generali, e a portarla all’Espresso (forse addirittura femminista, RDB ha imposto le quote rosa nei cda di casa prima che diventassero obbligatori).

 

Insieme a Mondardini, Rodolfo ha negoziato la fusione Rep-Stampa, e qui si sarebbe tentati di arrivare a una lettura un po’ romanzesca, come se i tentativi di emancipazione dalla passione paterna per la rotativa abbiano visto la solita nemesi famigliare. RDB aveva infatti dirazzato mettendo su Sorgenia (energia), RDB ha creato il polo delle cliniche Kos, RDB voleva soprattutto disfarsi dei giornali, e adesso cosa si ritrova in eredità? Un impero inchiostrato su cui non tramonta mai il sole.

 

Soluzione a tempo o eterogenesi dei fini, la Cir nel suo quarantesimo anniversario va bene, fa utili e dividendi, e forse il delfino è ormai rassegnato o contento d’essere tornato a casa: del resto la sua diversificazione ha prodotto luci e ombre, come si dice: se Kos vale 850 milioni ed è il quarto gruppo della sanità privata in Italia, Sorgenia “è stata un vero insuccesso”, come ha ammesso lui stesso con chiarezza inusitata per il capitalismo di relazione italiano. E pazienza se ora regnerà su un impero soprattutto di giornali, in un conglomerato di due quotidiani nazionali, uno regionale, un’infinità di locali. Pare il finale delle “Illusioni perdute” balzachiane, con il vecchio stampatore di giornali che si ritira costringendo il figlio talentuoso a ereditarne controvoglia la tipografia. Ma lì, nel romanzo, c’erano molti meno soldi in ballo.

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