E poi ci sono mariti inetti per i quali il “noi” corrisponde al proprio ego. Leonardo DiCaprio e Kate Winslet in “Revolutionary Road”, dal romanzo di Richard Yates

Evviva le mogli

Simonetta Sciandivasci
Donare, accudire. Riscoprire, come Cinzia Sasso Pisapia, “l’intimità profonda del ‘noi’ tra due uguali”. Sente di essere al suo posto, viva e accesa. “La sera ciò che voglio fare è aprire la porta a mio marito”, scrive nel suo libro.

Giugno 2015, Michelle Obama è in visita a Milano per l’Expo, riceve i suoi ospiti uno alla volta. Il primo è il prefetto. Il secondo dovrebbe essere Giuliano Pisapia, allora sindaco della città, ma impegni improrogabili lo hanno trattenuto a Roma. Al suo posto c’è “Cinzia Sasso, la moglie del sindaco”: è così che viene annunciata. E subito, all’unisono, lei e Michelle scoppiano in una fragorosa risata. “Sono anche una giornalista, ma da quando mio marito fa questo lavoro sono sempre solo la moglie del sindaco”, aggiunge, ancora divertita. Dopotutto, chi può capirla meglio della moglie del presidente degli Stati Uniti d’America? Tuttavia, non è grazie alla complicità femminile che Cinzia Sasso sorride e tollera d’essere considerata appendice, complemento e, occasionalmente, vece mondana di suo marito: è grazie al fatto di essere diventata sua moglie, aver desiderato e scelto il matrimonio quando sembrava ormai superfluo (il figlio era adulto, la vita condivisa, le carriere avviate, la casa comprata, il mondo girato, l’amore consolidato). Pensavano le femministe che “donne non si nasce, si diventa”, quando era necessario debellare gli assiomi (donna è sposa, moglie, madre, vedova), dirli arbitrari, cuciti, artificiali (poiché lo erano), affinché nascere donna non significasse avere un destino già scritto, ma essere gente e agente. L’amare, l’accudire, lo sposarsi vennero relegati a mansioni: fu grossolano, ma sulle sfumature si sarebbe tornate più tardi, a libertà conquistata. Gli assiomi non furono propriamente debellati, bensì rivoltati e, così, bisbigliati ma insistenti “la casalinga è serva” e “la moglie non è donna”, almeno non secondo la nuova accezione di donna, la cui mansione principale è l’autonomia, presero a tormentare le coscienze femminili. Di riconoscere, in quel bisbiglio, un fastidio – e un anti-canone diventato canone, l’ennesima strettoia e, soprattutto, il focolaio di una discriminazione tra donne – sembra sia arrivato, finalmente, il momento. Alla Casa Bianca, per otto anni, c’è stata una first lady che è sembrata a tutti quasi una vicepresidente e a nessuno una casalinga, pur essendolo (la casalinga più privilegiata d’occidente, certo, ma comunque una casalinga).

 

“Non sono più io. Per più di trent’anni mi svegliavo al mattino e andavo in ufficio. A casa rientravo solo tardi la sera. Adesso quando mi sveglio mi giro dall’altra parte: aspetto che a svegliarsi per primo sia lui”, scrive Cinzia Sasso nel suo “Moglie”, appena pubblicato da Utet, con la prefazione, affettuosa, ammirata, ma pure un po’ insospettita, di Natalia Aspesi. La signora Sasso e il signor Pisapia si sono sposati nell’aprile del 2011, lei cinquantacinquenne, lui sessantaduenne. Lei con un bouquet di ranuncoli bianchi e fresie in mano, lui con un completo che aveva già nell’armadio, da tempo. Pochi mesi più tardi, lui diventa sindaco di Milano, restituisce la città alla sinistra dopo 18 anni di centrodestra. Lei, giornalista appassionata (del primo ragazzo di cui si innamorò, da piccina, era il padre, più di ogni altra cosa, a incantarla: faceva il giornalista), lascia il lavoro. Aveva cominciato, ancora minorenne e assertiva (la sua generazione è quella dei baby boomer), per un quindicinale veneziano, fino ad arrivare alla Repubblica, dove, per anni, ha scoperto e raccontato “attenuando i lamenti sul famoso tetto di cristallo che impediva e sempre meno impedisce, alle donne, di salire tutti i gradini della carriera, quelle che in silenzio li stavano salendo con successo” (così scrive Natalia Aspesi nell’introduzione al libro). Quando lascia, la prima a rimproverarla è proprio Natalia, l’inarrivabile. Lei, però, non retrocede neanche per un istante. Il suo lavoro le manca? Certo. Le mancano i capodanni, le pasque, i natali trascorsi, da sola, a Londra (“mi vergogno a dirlo, sono stati i più incantevoli della mia vita”), quando i colleghi inviati tornavano a casa per le vacanze e bisognava sostituirli e lei mollava consorte e figlio (nato, peraltro, la notte di Natale: in un colpo, la mamma era assente due volte, che sciagurata ma chissenefrega), libera di poter pensare solo al lavoro. Le manca l’adrenalina delle notizie. Le mancano la letteratura e il cinema, la prima ha dovuto sostituirla con la saggistica per aiutare il marito negli incontri istituzionali, all’estero, nelle ambasciate, nella stesura dei discorsi, mentre, per l’altro, non c’è mai una sera libera. Le pesano i vestiti formali. Pensa, ogni tanto, a tutte queste caselle che si sono svuotate, ma ha un contrappeso: la gioia piena che la riscalda quando il suo Giuliano suona il campanello, lei gli apre, lo accoglie e corre a preparargli un Negroni, il suo cocktail preferito. E sente di essere al suo posto, viva e accesa. “La sera ciò che voglio fare è aprire la porta a mio marito”, scrive. E racconta anche di quando gli prepara i vestiti e specifica che, se mai qualcuno dovesse trovarli inopportuni, dovrebbe prendersela con lei e sa bene di doverlo spiegare, tutto questo, se non vuole rischiare di passare per pazza: l’ha saputo quando suo figlio le ha detto che non la riconosceva più, che non ritrovava più la sua mamma che aveva sempre fatto tutto quello che le pareva e che ora, invece, non muove un dito senza prima aver chiesto il permesso a Giuliano. Lei che entrava in redazione e ai suoi colleghi maschi ricordava di aver già fatto, prima di arrivare, tutto quello che, in quel momento, a casa loro, stavano facendo le loro mogli. Non esattamente uno zuccherino.

 

“Sono diventata servizievole con lui perché lui è a servizio degli altri”: chiunque veda della sottomissione, in questo, non è capace di comprendere quanta libertà, morale e di spirito, esiste nella capacità di assolvere al compito che sta dietro a ogni carica, pure se la firma su quella carica non è la propria (la sua massima soddisfazione la riceve quando il marito dice “senza di te non ce l’avrei fatta” e lei sa che in quel modo lui le riconosce non solo di essere una compagna, una consorte, una spalla, un tesoro, ma pure parte attiva di una missione che con lei condivide e che è volta a tutti gli altri, a coloro che si aspettano di essere accuditi perché “il sindaco è la mamma dei propri cittadini”). La storia e la competizione “di genere”, in qualche strano modo forse pure incidentale, hanno scomposto il noi in “io” e “te”, hanno voluto che, per entrambi, esistessero un microfono e un cronometro, che lui fosse il compagno e lei la compagna. Quando non ha voluto più essere una compagna o una fidanzata (erano parole incomplete, inadatte), Cinzia Sasso si è sposata e ha capito “l’intimità profonda del noi tra due uguali, un noi che ti fa pensare a cosa puoi fare tu perché l’altro pezzo sia più felice”. Accudire lui per accudire, anche, in fondo, sé stessa.

 

“Pulire è anche l’unico modo che conosco di amare, so accudire le persone rendendo il loro ambiente splendente, i loro abiti profumati di fresco, le stoviglie sempre sgrassate”, dice Vincenza Caruso, napoletana poco più che trentenne, emigrata a Milano da più piccina, col sogno – coronato – di fare la donna delle pulizie: “Non vedevo l’ora di scoprire se in quella città ci fosse davvero tutta quella polvere di cui avevo sentito parlare”. Abita nel romanzo “Donnissima” (Rizzoli) che Daniela Farnese, pimpante e amatissima blogger, ha pubblicato poche settimane fa. Enza, ottanta chili di femmina (ma due bicchieri di vino la stendono come se ne pesasse cinquanta), coniugata a un povero diavolo che ha lo stesso fiuto per gli affari e le furberie di Woody Allen in “Criminali da strapazzo”, è decisa a divorziare e tenuta coi piedi per terra dalla casalinghitudine che oppone all’altrimenti inevitabile colonizzazione di vizi “da milanese” (l’analista; l’autonomia; la maledizione del maschio; la palestra; l’insalata senza olio al massimo uno spruzzo di limone; le sbronze con le amiche – “appena torno a casa, con ’sto vestito da mignotta ci faccio stracci per la polvere”). Rallentata ma fattiva, romantica e realista, libera e sciolta, disgraziata ma più salda, compatta e felice come difficilmente sono i personaggi femminili dei nostri romanzi recenti, tornei permanenti dove sembra tanto importante che “le personagge” (così usa dire negli studi di genere) arrivino all’ultima pagina almeno con un trofeo a testa. A Enza, invece, interessa solo restare impermeabile agli stronzi, ai goffi, al divorzio, alle finanze modeste. Pulita, meridionale e custode della casa, sua e degli altri. “Mi piace la coppia, soprattutto se dentro posso comandare io”, dice.
Poiché, però, “Pomodori verdi fritti” (il film con Kathy Bates che ci ha insegnato la regola d’oro: se il marito non obbedisce con le buone, cioè quando vi fate trovare nude e avvolte nel cellophane nell’ingresso, passate alle cattive e buttate giù a picconate il muro del salottino dove il signore si rintana a guardare la tv – il piccone lo trovate facilmente in qualsiasi ferramenta) e otto stagioni di “Casalinghe disperate” non sembrano aver convinto che gli unici posti in cui il potere femminile si paga con il contrappasso più sopportabile sono la coppia e la casa, in America è arrivata Ali Wong (in Italia il suo spettacolo, “Baby Cobra” è disponibile su Netflix: un’ora di catarsi).

 

”Quando esco con le mie amiche e vediamo una di quelle splendide e toniche casalinghe uscire dall’estetista, rilassate e pacate, e le mie amiche le guardano con disprezzo accusandole di non fare nulla dalla mattina alla sera e di sprecare la loro vita, io penso: sono dei geni!”. Signore e signori, la ragazza è sul palco, al settimo mese, con un vestitino orribile e le ciabattine rosse di plastica. E rivuole indietro il suo tempo. Il suo bagno, perché “in quello dell’ufficio non posso neanche scoreggiare: se un collega mi sentisse, perderei ogni credibilità”. Il vuoto delle non responsabilità. Il vuoto di casa sua vuota. La maschera della finta ebete con cui sua madre – dice – è stata molto più felice di lei, risparmiandosi traffico, lavoro, un marito che a letto dice cose come “ti rispetto, lo sai, vero?”, perché il senso comune la riteneva, in quanto donna, incapace di fare cose diverse dal conversare, partorire, badare alla casa e sacrificare il riconoscimento universale del suo multiforme ingegno alla pace. Anche la pace, Ali Wong, rivuole indietro. E l’America impazzisce per lei, nessuno (nessuna) si offende perché è chiaro a tutti che sta togliendo la museruola alle donne che sono pronte ad ammettere che l’emancipazione sta diventando un dress code, sta impoverendo i colori e i giochi, sta indebolendo il linguaggio, offuscando la verità, imponendo una scelta sola: la realizzazione individuale, possibilmente da single. Attenzione, dice Ali Wang: avete anche il diritto di non dimostrare quanto valete o di non valere niente. L’America non si scandalizza, non urla “regressione!”, non pensa alla propaganda sessista, perché è chiaro, senza bisogno di esplicitarlo, che la sua provocazione è in debito con i milioni di donne che sono rimaste assiepate dietro i caminetti, angeli della casa senza ali per scappare, condannate a sorbirsi mariti inetti per i quali il “noi” corrispondeva al loro ego, anche quando erano partiti con le migliori intenzioni, innamorati abbastanza da sentirsi affini alle proprie donne senza bisogno che l’affinità e l’uguaglianza gliele inculcasse la cultura. In “Revolutionary Road”, romanzo di Richard Yates pochi anni fa tornato alla ribalta grazie alla trasposizione cinematografica con Kate Winslet e Leonardo DiCaprio, quando April Wheeler capisce che il marito Frank ha finto di accettare la sua proposta (trasferirsi a Parigi e lasciare che sia lei a lavorare, di modo che lui possa perseguire i suoi sogni estetizzanti, depositati nel cassetto per mandare avanti la baracca e non abbassare di mezzo millimetro i loro standard di borghesi newyorchesi degli anni Cinquanta) e che userà la sua gravidanza per nascondere che non riuscirebbe mai a consentirle di fare da traino, si pratica un aborto, da sola. Naturalmente, muore dissanguata.

 

Alle casalinghe che non hanno avuto scelta, che sono state amate per procura, tradite per gregarismo, abbandonate tra i soprammobili, destinate ai pettegolezzi, non si deve compassione: non erano mica delle pappemolli. A loro si deve la nuova casalinghitudine che riconosce alle donne il diritto di riagganciarsi alla capacità di donare, accudire, credere nel matrimonio al punto da voler stare dalla parte trasparente del “noi”, soprattutto ora che esistono un considerevole numero di uomini più che disponibili a dividere gli oneri del lato trasparente. Dopotutto, Cinzia Sasso è diventata moglie di Pisapia perché sapeva di andare sul sicuro: diversi anni prima che si sposassero, fu lui a proporre, primo in Parlamento, una legge che consentisse alle donne di dare il proprio cognome ai figli.

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