Tommaso Buscetta, primo pentito “patentato” di Cosa nostra, all’arrivo in Italia dal Brasile, nel 1984. Due anni dopo Enzo Biagi gli fece raccontare chi davvero fosse stato nel libro “Il boss è solo”

Pentiti da fotoromanzo

Riccardo Lo Verso
"Mi so guardare pure la pelle, ci sono andato con i piedi di piombo…  mi sembra che i tempi sono cambiati…  perché io leggo, seguo la politica, seguo tutto”. Francesco Di Carlo segue tutto, legge e – è il caso di aggiungere – scrive. Lui come tanti altri collaboratori di giustizia.

"Mi so guardare pure la pelle, ci sono andato con i piedi di piombo…  mi sembra che i tempi sono cambiati…  perché io leggo, seguo la politica, seguo tutto”. Francesco Di Carlo segue tutto, legge e – è il caso di aggiungere – scrive. Lui come tanti altri collaboratori di giustizia. Gli scaffali delle librerie sono pieni di testi scritti dai pentiti o da giornalisti che intervistano i pentiti. Esaurita, o quasi, la stagione dell’utilizzabilità processuale, i loro resoconti hanno trovato sbocco in quella che è divenuta una letteratura di genere. Trame oscure, patti scellerati, traditori, uomini neri, massoni e sistemi criminali hanno dato vita a un ricco filone letterario.

 

In principio fu “Il boss è solo” di Enzo Biagi. La solitudine era quella di Tommaso Buscetta. Correva l’anno 1986 e Biagi faceva raccontare al primo pentito “patentato” di Cosa nostra chi davvero fosse stato fino al momento di saltare il fosso. Una sorta di presa diretta in cui era lo stesso boss dei due mondi a raccontarsi. Ne venne fuori un’autobiografia tutt’altro che edificante. Il pentimento non cancellava l’orrore.

 

Anche attraverso quel libro si cominciava a conoscere meglio la mafia. Era un mondo inesplorato per i magistrati figuriamoci per i cittadini-lettori. Stessa cosa quando arrivò alle stampe, nel 1992, “Gli uomini del disonore”. Il sociologo e politico Pino Arlacchi, che contribuì alla legislazione antimafia degli anni Ottanta, incontrò in un luogo segreto scelto dalla polizia il pentito Antonino Calderone. Altro che onore: il lettore scopriva la Cosa nostra delle faide intestine e dei tradimenti.

 

Quella mafia non c’è più – i boss di allora sono tutti morti, oppure detenuti al carcere duro – ma sopravvive la stagione degli intrighi. C’è una parentesi della nostra storia che non conosciamo fino in fondo. E’ rimasta buia per demerito di tutti, anche dei pentiti e delle mezze verità che hanno raccontato, invocando l’attenuante della paura. Nel frattempo, però, scrivono libri. Bene, si dirà. Il passato serve da lezione, specie se la storia giudiziaria insegna che il passato è ancora una terra straniera. Ci sono troppi buchi neri, si aggiungerà, nella ricostruzione delle stragi del ’92-’93 e della trattativa fra lo Stato e la mafia. E a ricordarcelo sono molti pentiti-scrittori che affidano alle pagine di un libro la giustificazione del loro omissivo silenzio. Dicono che i tempi non erano e non sono ancora maturi. Si dovrà aspettare la prossima pubblicazione per saperne di più? Le loro parole suonano come uno sberleffo.

 

Di Carlo, boss di Altofonte, paesino della provincia palermitana, ammise con candore: “Sono tante le cose che non ho detto perché nessuno me le ha chieste. Credo non fosse il caso visto come vanno le cose”. Un’altra volta fu ancora più esplicito: “Non ho detto ancora tutto? In ballo ci sono trent’anni di storia di mafia, se poi uno dice quello che ho detto io, bisogna procedere per gradi. La verità non tutti vogliono conoscerla. A domanda rispondo, ma so anche che il sacco vuoto non si regge in piedi”.

 

E’ meglio dire le cose a poco a poco. Senza fretta. In questi anni Di Carlo – che partecipa al libro “Sbirri e padreterni” scritto dal giornalista Enrico Bellavia – ha centellinato alcuni nuovi ricordi sacrificando tutta la verità, ancora una volta, sull’altare della paura. Gli sono tornati in mente misteriosi episodi, come il golpe romano che alcuni mafiosi e politici, tutti morti, organizzarono alla presenza di un tale, “…  forse un ministro, di cui non ricordo il nome”. Un’altra volta Di Carlo raccontò in udienza, al processo Trattativa, della misteriosa visita di tre uomini dei servizi segreti. Arnaldo La Barbera (morto pure lui, ndr), “un certo Giovanni, forse dell’esercito, e una persona inglese” lo andarono a trovare in carcere, alla fine degli anni Ottanta, a Londra, dove era detenuto per droga. Volevano un contatto con i boss palermitani.

 

Un paio di mesi fa il collaboratore rispolverò la storia di Bernardo Mattarella, padre del capo dello Stato Sergio, dipinto come uomo d’onore della vecchia Cosa nostra di Castellammare del Golfo, in provincia di Trapani. Di fatto ha ripetuto storie già dette due decenni fa, aggiungendovi ricordi che “vengono a galla”. “Fandonie di un uomo che non sa nulla”, ha tuonato il legale dei Mattarella, snocciolando una raffica di esempi.

 

Per conoscere tutta la verità, nient’altro che la verità, si dovrà aspettare che Di Carlo e gli altri collaboratori finalmente trovino qualcuno di cui fidarsi e si affranchino dell’eterna paura del sacco vuoto che non sta in piedi? Nel frattempo ci si accontenti dei libri. Forse non è il caso di irrigidirsi di fronte a peccatucci. La memoria che si riaccende nella pagina di un libro piuttosto che davanti alla polizia giudiziaria: che sarà mai. Mica vi spingerete fino a sostenere che potrebbero violare l’obbligo previsto dal patto, questo sì realmente avvenuto e certificato, con cui lo Stato gli ha concesso dei benefici, ha chiuso un occhio su terribili nefandezze in cambio della loro collaborazione, piena e definitiva.

 

Basta confezionare per bene una piccola novità, anche solo suggestiva, metterla dentro un libro dal titolo azzeccato per guadagnarsi le prime pagine dei giornali. La ribalta mediatica serve ai pentiti per dire “siamo qua, esistiamo ancora”. Come fanno di tanto in tanto davanti alla telecamera delle comparsate tivvù. Si fanno intervistare con il volto travisato, oppure nella penombra che fa scena ed evoca l’indicibilità di certi racconti. Ragioni di sicurezza impongono l’irriconoscibilità. Te li immagini obbligati a vivere sotto falsa identità, in chissà quale sperduto paesino dell’anonima provincia italiana.

 

Non va sempre così. Qualche anno fa fui stuzzicato dal racconto processuale di un pentito. E così cercai di contattarlo. Fu molto più facile del previsto. Giusto il tempo di un paio di telefonate. Si presentò un uomo di mezza età. Occhiali Ray-Ban a goccia, cappellino di quelli che usano i giocatori di baseball e un bel sorriso stampato sul volto. Non pretese accorgimenti particolari. Per giungere all’appuntamento aveva attraversato le strade del centro città. Non mostrava l’aria di chi teme la vendetta. Le impressioni, però, possono essere ingannevoli. Per non sapere né leggere né scrivere, meglio evitare ogni riferimento che possa renderlo identificabile. Si parlò della guerra di mafia fra i corleonesi e i palermitani, e il pentito, affabile nei toni e convincente nei modi, mi regalò una traccia, naturalmente inedita, per il pezzo. Drin, drin, il mio telefono squillò un paio d’ore dopo la pubblicazione. Apparve un numero sul display, non era una chiamata anonima. Era lui, il pentito. Mi chiese come mai, e con toni stavolta meno affabili, non avessi parlato del suo libro in uscita. La mancata, e forse sopravvalutata nelle potenzialità, campagna promozionale della sua ultima fatica letteraria lo aveva infastidito. Il libro, c’è da giuraci e senza invidia alcuna, avrà avuto la fetta di successo che meritava. Perché le storie di mafia piacciono, la gente si interessa anche spinta da meritevole voglia di conoscenza. Dietro non c’è sempre la reazione involontaria al bombardamento mediatico delle fiction sulla mafia che popolano le prime serate degli italiani. Conoscenza, anche se non si sa se ciò che leggeranno li aiuterà a intravedere la verità. Un libro, del resto, non ha la necessità di rispondere al rigore di un processo. Si può restare vaghi, evocare misteri, pronunciare mezze frasi e apparire al contempo credibili. Anzi, la credibilità è direttamente proporzionale alla potenza dei sussurri.

 

Un altro pentito che ha dimostrato dimestichezza con la scrittura è Gaspare Mutolo, fedelissimo di Totò Riina e primo a saltare il fosso fra i corleonesi che l’avevano salvato dalla mattanza. Di libri ne ha scritti un paio, biografie di morte e orrore. Anche lui si è autodefinito vittima del vorrei ma non posso: “Io dico che certuni, quando parlano di Falcone e Borsellino, dovrebbero fare gli sciacqui con l’aceto. Senza di loro non ho parlato più. Crede che non avrei potuto dire altre cose sul misterioso attentato dell’Addaura contro Falcone? Loro hanno sacrificato la vita per l’Italia. Altri hanno fatto carriera”. Tre anni fa, raccontando la sua vita nel libro “La mafia non lascia tempo”, scritto dalla giornalista Anna Vinci, annunciava tempi nefasti: “Ho paura che ci sarà una stagione più violenta di quella del ’92-’93”. I temi erano quelli di sempre. I tanto cari rapporti fra mafia e politica. Quei fili mai toccati, perché se li tocchi muori. Partiva da lontano Mutolo, dall’inizio degli anni Sessanta, quando era normale che un mafioso avesse contatti con un magistrato “perché si portava l’olio, i formaggi”. Partiva da lontano e giungeva fino ai giorni nostri. Fino a Massimo Ciancimino “che si è fatto fregare…  come mai aveva 50 candelotti di dinamite? Ha buttato a mare le sue rivelazioni. Che interesse aveva? Non ci vedo chiaro”. E che interesse aveva, boh! Secondo i giudici d’appello che lo hanno condannato a tre anni, Ciancimino aveva “preordinato un finto attentato ai suoi danni al quale affidare le sorti della ricostruzione della propria credibilità fortemente compromessa”. A proposito, pure Ciancimino jr ha scritto un libro. Si intitola “Don Vito” e nel 2014 raccontava a Francesco La Licata ciò che il super testimone avrebbe poi ripetuto al processo sulla Trattativa nel quale veste i panni di imputato e super testimone. Non può essere inserito, però, nella letteratura di genere perché l’appellativo “pentito” a Massimo non piace. Si definisce dichiarante.

 

Pentito lo è sicuramente Giovanni Brusca, il boia di tanti massacri, compreso quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, che in un libro di Saverio Lodato ha spiegato come “Ho ucciso Giovanni Falcone”. Ricordava ogni truce particolare. Smemorato, invece, era stato quando si trattò di ricordare che disponeva ancora di un bel gruzzolo. In epoca recente ha tentato di “salvare” un tesoretto da un milione di euro sfuggito per decenni alla mannaia della confisca. Tanto valevano alcuni immobili fra Palermo e San Giuseppe Jato e gli affitti che avrebbe incassato negli anni. Non era la prima volta che il boss pentito di San Giuseppe Jato veniva “pizzicato” dagli investigatori mentre si occupava di affari e soldi. Tra i beni c’era pure un magazzino a Brancaccio, un tempo utilizzato come covo da Leoluca Bagarella. Nel luglio del 1979 i poliziotti vi trovarono armi, munizioni e un grosso quantitativo di eroina. Fu una delle ultime operazioni condotte da Boris Giuliano, prima che il capo della Squadra mobile di Palermo venisse crivellato di colpi. Le dimenticanze di Brusca e i suoi contatti con il mondo esterno sono stati sempre perdonati e così ha goduto di permessi premio per trascorrere il Natale in famiglia.

 

Alla tentazione del libro-intervista “La verità del pentito” non ha resistito neppure Gaspare Spatuzza, il collaboratore di Brancaccio che ha messo spalle al muro lo Stato, “colpevole” di avere creduto alle balle di altri collaboratori e di avere costruito una verità fasulla, e forse anche in malafede, sulle stragi di mafia. Almeno Spatuzza, così ha detto l’autrice Giovanna Montanaro, “non ha chiesto alcun contributo economico, ha voluto si precisasse che rilasciava l’intervista per ‘motivi sociali’ e ha chiesto di dedicarla ‘ai ragazzi di Brancaccio, dei tanti Brancaccio d’Italia che si perdono come me’”.