Steve McCurry, “Afghanistan, 1979” © Steve McCurry. La foto fa parte della mostra “Il mondo di Steve McCurry” in corso fino al 25 settembre presso la Reggia di Venaria Reale (Torino) - Citroniera dell

Scatto con ritocco

Eugenio Cau
Da Steve McCurry agli scandali del World Press Photo, nella fotografia ci siamo ormai assuefatti al mondo edulcorato dello “storytelling”

Per una volta sono stati gli italiani ad abbattere il mostro sacro. Da circa due mesi il fotografo americano Steve McCurry si sta giocando una carriera ultradecennale e piena di onori perché pizzicato nell’ultimo scandalo di fotoritocco che ha investito il mondo della fotografia. Il primo ad accorgersene è stato il fotografo Paolo Viglione, che visitando una mostra di McCurry alla Venaria Reale di Torino ha notato che un particolare non quadrava in una foto scattata a Cuba: dalla gamba di un personaggio minuscolo sullo sfondo, appena visibile, spuntava un palo giallo. Si è avvicinato alla fotografia e il trucco è stato chiaro: il palo, che nella foto era vicino all’uomo, probabilmente nell’originale era dietro o davanti a lui, e qualcuno ha usato Photoshop per separare le due figure: la regola numero uno quando si fotografa un soggetto è non fargli uscire un palo da sopra la testa. Peccato che in questo caso il tecnico del laboratorio di McCurry abbia pasticciato lasciando indietro parte della modifica. Tornato dalla mostra, Viglione, più elettrizzato che deluso, scrive sul suo blog della scoperta e posta online la foto del particolare incriminato. La ritiene una cosa spassosa più che preoccupante, e commenta: “Davvero, è una figata! :)”. Leggendo i suoi post successivi si capisce che non aveva la più pallida idea della valanga che stava per generare. Prima centinaia e poi migliaia di appassionati hanno letto il post di Viglione e hanno notato, anzitutto, che nel particolare della foto cubana il palo non era l’unico elemento che non quadrava. Altre parti della foto, come per esempio i mattoni dei muri, sembravano riprodotti con il “timbro clone”, il famigerato strumento di Photoshop che permette in pratica di spostare oggetti da una parte all’altra dell’immagine ricostruendo digitalmente il buco (quando una foto è photoshoppata, il timbro clone c’è sempre).

 

“All’inizio queste goffissime lavorazioni in Photoshop riguardavano dettagli microscopici, poi è iniziata tra gli utenti di internet una caccia all’errore da settimana enigmistica, e ha iniziato a saltare fuori ben altro. Moltissime foto sono terribilmente manipolate, con elementi cancellati, cose e persone spostate da una parte all’altra”, dice al Foglio Maurizio Garofalo, photoeditor e giornalista, ex photoeditor della rivista Diario. In una foto in cui un uomo spinge un carro con sopra alcuni passeggeri sono state eliminate due persone e diversi elementi sullo sfondo sono spariti. In un’altra, alcuni ragazzini sono ritratti mentre inseguono una palla da calcio sotto la pioggia e a uno di essi viene aggiunto un braccio che era rimasto fuori dall’inquadratura originale. Insomma, foto notevolmente ricostruite, che man mano che andava avanti la caccia all’errore diventavano sempre più numerose (per chi se lo starà sicuramente chiedendo: la foto della ragazza afghana sulla copertina di National Geographic, forse una delle più iconiche del secolo, non è tra le modificate). Lo scandaluccio blogghettaro si è trasformato in una sensazione prima italiana e poi mondiale. E McCurry, che inizialmente aveva incolpato un addetto di laboratorio per quello che sembrava un inciampo occasionale (“quella persona non lavora più con me”), è stato costretto a rispondere delle sue photoshoppate sistematiche. Prima in due interviste italiane (a Paolo Mastrolilli della Stampa e a Michele Smargiassi di Repubblica) poi con un commento al sito specializzato PetaPixel, infine con un’intervista al mensile Time, alla fine di maggio, McCurry ha promesso di ridurre l’uso di Photoshop nelle sue produzioni, ma poi ha dato una giustificazione fondamentale agli arti spostati, agli oggetti scomparsi e ai paesaggi clonati: vedete, ha detto, io non sono un giornalista, sono uno storyteller.

 

Il termine usato nel titolo dell’intervista a Time è “storyteller visuale”. “Gli anni in cui mi occupavo dei teatri di guerra sono ormai lontani”, dice McCurry alla rivista americana. “Con l’eccezione di un breve periodo trascorso in un giornale locale della Pennsylvania, non ho mai lavorato per un giornale o un magazine o per un mezzo di comunicazione. Sono sempre stato un freelance”. E con il passare del tempo, “il mio lavoro è migrato nel campo della arti visive”. A Repubblica, McCurry dice che il suo “non è più un lavoro di news, non cerco di dare informazioni su un luogo, non pretendo di farvi capire com’è oggi Cuba, come vive la gente in quella società, non ho questi vincoli. Ma credo ancora che le mie fotografie rispettino la verità dei luoghi che incontro”. Insomma, secondo uno dei più celebrati fotografi del nostro secolo staccare e riattaccare arti a piacimento, far sparire e riapparire le persone dalle fotografie rientra ancora nella categoria del “rispettare la verità”: fintanto che non si usa l’etichetta di reportage, ma quella di storytelling, anche questo è accettabile. “La giustificazione di McCurry non è accettabile”, ci dice Garofalo. “Il termine storytelling è ambiguo e oggi va molto di moda, ma forse bisognerebbe distinguere tra storytelling e storywriting: una cosa è raccontare storie e una cosa è inventarle. Quando manipoli un’immagine hai creato un’altra immagine. Non è più il racconto di una storia, è la scrittura della tua storia. Inoltre, McCurry viene dall’agenzia Magnum, che della verità del documento fotografico ha sempre fatto manifesto e bandiera; dunque l’impressione è quasi che si sia inventato questa giustificazione solo dopo essere stato beccato”.

 

La giustificazione di McCurry ricorda da vicino, anche se le parole non sono state le stesse, quella di un altro celebrato maestro beccato a bazzicare ben al di fuori delle regole dell’etichetta giornalistica, Roberto Saviano. Nel settembre dell’anno scorso, il magazine americano Daily Beast individuò “diversi casi di apparente plagio” nell’ultimo libro dell’autore italiano, “ZeroZeroZero”: reportage di giornalisti americani e messicani (il libro si occupa del traffico della droga) riportati senza citazione, similitudini sospette, almeno un personaggio che sembra all’apparenza inventato. Al tempo, Saviano disse che gli eventuali sgarri, che pure lui ha negato, erano il frutto di un fraintendimento: come McCurry, lui scrive “nonfiction novel”, un genere ibrido che sembra giornalismo ma può concedersi qualche libertà in più. Non disse storytelling, ma poco ci mancò. Di quella pratica ambigua che è diventato lo “storytelling” nel mondo del giornalismo scritto si è già detto molto. Luca Sofri, in un post dell’anno scorso sul suo blog personale, scrisse che nella scala di grigi tra il raccontare una storia e costruirla una parte importante del giornalismo italiano era molto sbilanciata sul grigio scuro. Il post si concludeva con una citazione di Vincenzo Latronico: “C’è un senso in cui ‘storytelling’ è un’espressione appropriata per tutto questo. E’ il senso in cui si dice che uno ‘racconta storie’ per dire che sta mentendo”.

 

E’ stato meno notato che anche il mondo della fotografia documentaria si sta spostando dal grigio neutro al grigio scuro. “La definizione di storytelling data da McCurry non consente tutta la libertà di movimento che lui si è preso”, spiega Garofalo. “McCurry ha preso il linguaggio del fotogiornalismo ma vi ha applicato artifici che a questo linguaggio non appartengono. Il problema è che il risultato di questo lavoro è interpretato da tutti come un documento giornalistico. Ma un reportage da Cuba non è la trasposizione fotografica di una fiaba per bambini”. Non c’entra solo Photoshop: “Ci sono per esempio casi di fotografi che hanno costruito le loro storie fotografiche non con il fotoritocco, ma piuttosto sceneggiando delle situazioni veritiere. Hanno ricreato le loro immagini e reinventandole hanno potuto dare le luci che volevano, scegliere il momento senza essere vittima della situazione”. Negli ultimi anni questi due peccati capitali dello storytelling visuale, da un lato l’“eccesso di postproduzione” e dall’altro la sceneggiatura delle fotografie documentarie, hanno martoriato i più importanti premi internazionali di fotogiornalismo. Dal World Press Photo al Pulitzer, ci sono stati casi di premi ritirati, truffe svelate, giurie sputtanate. La credibilità di questi premi è stata messa in discussione, e l’organizzazione è stata costretta a ricorrere a misure straordinarie, come costringere i concorrenti a consegnare i negativi digitali per verificare la presenza di manomissioni. Le giustificazioni addotte dai fotografi spesso si rifanno alla retorica dello storytelling: è vero, ho modificato questo e quello, ho oscurato indebitamente una scena, ho chiesto ai miei soggetti di mettersi in posa con le luci giuste. Ma sono stato fedele alla verità di quello che ho visto, che male c’è? Ecco, il problema è che un po’ ci stiamo abituando a chiederci: che male c’è?

 

Uno degli elementi forse più interessanti delle giustificazioni del grande McCurry è che in tutte le interviste e i comunicati rilasciati, lui parla della sua conversione dal fotogiornalismo allo storytelling come di una “evoluzione”: ho ampliato i miei orizzonti, non mi faccio più limitare dalla verità, preferisco la verosimiglianza e così posso portare al pubblico un racconto più bello, rifinito, aggraziato. Lo storytelling sembra un’evoluzione, appunto, un nuovo stadio della professione fotografica. Di queste immagini e di questi racconti, di queste narrazioni verosimili ma non vere abbiamo pieni gli occhi e le orecchie. Per due ragioni: la prima è che lo storytelling è più facile dal punto di vista di chi lo realizza: “Se parli con un fotografo anche soltanto della generazione di McCurry, la prima cosa che ti dirà è che lui durante i reportage partiva dall’albergo alle tre del mattino per arrivare in cima alla collina a una data ora e fotografare esattamente la luce di quell’ora”, dice Garofalo. McCurry per primo ha un ampio repertorio di racconti di questo tipo. “Oggi ti è concesso svegliarti a mezzogiorno, scattare la foto e poi cambiare la luce in Photoshop. Alcuni, poi, non fanno nemmeno più la fatica di raggiungere la collina”. La seconda ragione è che le immagini dello storytelling sono sempre perfette, patinate, studiate per rientrare meravigliosamente nella proporzione aurea; sono immediate, spesso migliori dal punto di vista della fruizione da parte del grande pubblico delle fotografie propriamente documentarie. Il risultato, in questo modo, è che ci abituiamo alla non autenticità. Una delle ragioni, dice Garofalo, è che il linguaggio della fotografia si sta avvicinando a quello del cinema. Ci sono altri esempi. Si prenda per esempio Snapchat, la app che incoraggia i suoi giovani utilizzatori a creare una loro “storia” (storytelling!) che spesso è una narrazione per immagini edulcorata da filtri e manipolazioni surreali. La nostra cultura visuale, in un certo senso, si sta piegando alle logiche dello storytelling. E questa tendenza si sta espandendo anche ai livelli più alti. Soprattutto, a forza di manipolare si diffonde quella che Garofalo definisce una “atmosfera di sfiducia nei confronti del documento fotografico” (e non solo, aggiungiamo noi), in cui si crea la convinzione che entro certe gradazioni tutte le fotografie siano “finte”. Se i premi sono truccati, se perfino le giurie più prestigiose e le grandi redazioni internazionali si lasciano ingannare, se ormai il commento standard a una bella foto è: “sarà photoshoppata”, significa che ci stiamo abituando a questo tipo di storytelling, e il problema è se davvero ci importa.
Dal punto di vista della pratica fotografica, Garofalo dice che nel mondo della fotografia professionistica queste manipolazioni sono adottate da un numero ancora relativamente ridotto di casi: “Vedo migliaia di professionisti che continuano a muoversi nel linguaggio del reportage senza contaminazioni e senza trucchi”, dice. Ma l’accoglienza che il pubblico riserva a questo storytelling, invece, è sempre più assuefatta.

 

Nelle stesse settimane in cui si diffondeva lo scandalo Photoshop, sul Magazine del New York Times Teju Cole, critico fotografico del giornale, scrittore e fotografo lui stesso, pubblicava un articolo (“A too perfect picture”) in cui demoliva McCurry dal punto di vista estetico, senza citare il fotoritocco. Le foto del maestro sono perfette, patinate, meravigliose cartoline. Ma sono “eccezionalmente noiose”. Forse è questo il peccato mortale dello storytelling.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.