Sacerdoti del tempio nel “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini

Piero secondo Pier Paolo

Marco Bona Castellotti
Tarkovskij e Zurlini hanno portato nei loro film la “Madonna del parto”, ma è stato Pasolini a creare la più intensa simbiosi tra il cinema e l’arte di Piero della Francesca.

In un film di Valerio Zurlini, “La prima notte di quiete” (1972), il protagonista Daniele Dominci (Alain Delon), supplente di Lettere al liceo di Rimini con una libera docenza in Storia dell’arte, si prende una cotta per una studentessa, l’impassibile Vanina (Sonia Petrova), la cui mancanza di espressività dovrebbe essere sintomo di tristezza. Quando Dominici accompagna l’avvenente allieva al delfinario, osservando i delfini che giocano nella piscina, sul marmoreo viso di lei affiora un pallido sorriso. Poi i due vanno a Monterchi e al cospetto della “Madonna del parto” di Piero della Francesca il docente esclama: “Ecco il miracolo di questa dolce contadina adolescente, altera come la figlia di un re. Finora si è divertita a confidarsi con le sue bestie e le chiama per nome, poi a un tratto tutto è finito, poiché attraverso i secoli il destino ha scelto proprio la sua purezza”. Chiude con l’inno di Dante “Vergine, Madre, figlia del tuo Figlio”.

 

Anche “Nostalghia” di Tarkovskij racconta il viaggio, nel centro Italia, di un poeta russo, Andrei, insieme a Eugenia. Visitano siti bellissimi e in un oscuro anfratto della cripta romanica di San Pietro a Tuscania, in Etruria, emerge l’affresco di Piero della Francesca, che non si capisce come possa essere finito lì. Mentre Andrei disdegna di entrare nel sacro sacello per timore di non reggere al fascino di quel dipinto su muro, Eugenia vi accede e assiste a una processione di donne velate di nero, propiziatoria della maternità. Oltre alla “Madonna del parto”, ciò che accomuna i due lungometraggi sono le atmosfere dense di malinconia invernale, sì che viene da domandarsi per quali ragioni Rimini, sede estiva del più colossale convegno di tanga d’Europa, debba affidare cinematograficamente il suo appeal alla malinconia dell’inverno. Questi film e altri sono menzionati in un interessante capitolo sul rapporto tra cinema e immaginario figurativo pierfrancescano, scritto da Marco A. Bazzocchi nel catalogo della mostra dedicata alla fortuna di Piero della Francesca (Forlì, musei di San Domenico, fino al 26 giugno).  

 

Nell’ampio e sfaccettato tema delle interazioni cinema-pittura, Pier Paolo Pasolini occupa un posto eminente, dovuto anche al fatto di aver seguito all’Università di Bologna i corsi di storia dell’arte di Roberto Longhi, con il quale avrebbe voluto laurearsi, ma avendo smarrito la tesi durante la guerra, aveva ripiegato sulla letteratura italiana. Le lezioni di Longhi si impressero nello sguardo pasoliniano, lasciando innumerevoli ricordi figurativi che rispuntano nei film degli anni Sessanta, ricordi che talvolta si appoggiano a un supporto teorico, talvolta sono semplici depositi della memoria. Descrivendo la figura di Maria Vergine nel prologo della sceneggiatura del “Vangelo secondo Matteo” (1963-’64), Pasolini afferma che è “una giovinetta ebrea, bruna, naturalmente ‘proprio del popolo’, come si dice; come se ne vedono a migliaia con le loro vesti scolorite, il loro destino a non essere altro che umiltà vivente. Tuttavia c’è in esse qualcosa di regale, e per questo penso alla ’Madonna incinta’ di Piero della Francesca a Sansepolcro: la Madre bambina”, vale a dire la “Madonna del parto”di Monterchi.

 

Se si osservano attentamente le inquadrature iniziali del film, la giovinetta calabrese che impersona Maria, di pierfrancescano conserva giusto la forma del viso, al cui confronto è più pierfrancescana la ragazzina che, nell’episodio della decollazione del Battista, interpreta Salomè, una Salomè candida e meno smaliziata della bieca figlia di Erodiade che ordinò di tagliare la testa al precursore. Maria non possiede gran che di regale, inoltre il bianco e nero vanifica la limpidezza cromatica dell’abito di quella di Monterchi, che è un elemento esteticamente  essenziale. L’umiltà è sì celebrata, ma come racchiusa nel carattere somatico peculiare delle donne di Piero: lo sguardo abbassato. Evidentemente Pasolini legge il modello pierfrancescano in una chiave che diverge dall’astrazione “metafisica” del pittore di Sansepolcro, sottoponendo la Madonna a un filtro poetico-ideologico in cui a prevalere non è tanto l’idealizzazione del sacro, bensì un “riferimento realistico, semplice, idealizzato come quello dell’eroe di un romanzo popolare nel senso in cui lo intendeva Gramsci”. Le sagome cristalline dei volumi di Piero della Francesca non sono connaturate al realismo dello scrittore-regista, il cui pittore preferito era Masaccio, non Piero della Francesca, né Caravaggio, né tanto meno Pontormo e Rosso Fiorentino.

 



 

A proposito del “Vangelo secondo Matteo”, che divise la critica e il pubblico, a PPP fu rimarcato di aver ecceduto nelle citazioni figurative della pittura. In un’intervista Jon Alliday gli chiede come mai da non credente abbia potuto mettere in scena un Vangelo, e Pasolini risponde che per un italiano “la pittura ha avuto un’enorme importanza i questi duemila anni, e anzi è il maggior elemento della tradizione cristologica”. Nel “Vangelo secondo Matteo” Piero della Francesca torna alla ribalta nelle inquadrature con Caifa, il sinedrio e i sacerdoti. Tale richiamo è suggerito dalla citazione di un efficace particolare, che potremmo definire d’arredo, i copricapi geometrici, identici a quelli indossati dagli uomini dell’affresco pierfrancescano della “Leggenda della vera croce” di Arezzo, copricapi la cui funzione sarebbe errato ridurre a puro ornamento, essendo veicolo di trasmissione del senso di astrazione che le figure di Piero della Francesca effondono. La palese ripresa pasoliniana di questo particolare è motivata dalla premura di ricostruire un ambiente che ottemperi alla verosimiglianza, come del resto lo sono i luoghi in cui si svolge il racconto evangelico, per esempio i tre castelli di Gioia del Colle, del Monte e Lagopesole. Si tratta di tre edifici difensivi fatti erigere da Federico II, dettaglio sfuggito ai critici cinematografici. L’architettura federiciana rappresenta quanto di più astratto esista nel Duecento, pur nello scabro vigore delle murature e nella forza degli impianti monumentali.

 

L’idealizzazione astrattiva e l’asperità muraria convivono, benché concettualmente in conflitto fra loro. Presi come cornici adatte al “Vangelo”, i castelli di Federico confermano come questo film sia stato indubbiamente nuovo sul piano dell’ambientazione e della caratterizzazione somatica del Cristo, nero di capelli, affilato e camuso, somigliante a un “Crocifisso” di El Greco, in antitesi con il tipo americano del Gesù biondo e dagli occhi azzurri. Elementi azzeccati e appariscenti, ma irrilevanti rispetto alla discutibile concezione pasoliniana del Salvatore iracondo e poco misericordioso, che non risultò gradita a tutti.

 

Durante un dibattito sul cinema, a un intervistatore che riportava il parere di Mario Soldati circa una possibile componente cattolica in Pasolini, ma di un cattolicesimo non disgiunto dall’“interpretazione negativa della storia”, PPP replicò che “se il cattolicesimo è l’idea che tutto finirà, cioè se è un elemento di tragedia nell’uomo, sono d’accordissimo con lui [Soldati], ma il cristianesimo non dice che tutto finisce, dice che questo mondo finisce ma poi c’è n’è un altro. C’è dentro di me l’idea tragica che contraddice sempre tutto, l’idea della morte. L’unica cosa che dà una vera grandezza all’uomo è il fatto che muoia, l’unica grandezza dell’uomo è la sua tragedia. C’è soltanto la morte non l’aldilà”. Accattone muore cadendo da una motocicletta rubata e le sue ultime parole sono “mo’ sto bene”. Ettore, la “povera creatura” di “Mamma Roma”, muore in carcere. Stracci, il ladrone buono e famelico della “Ricotta”, crepa di infarto da indigestione in croce. Data la connotazione tragica della poetica pasoliniana, è lecito sospettare che la risurrezione di Cristo nel “Vangelo secondo Matteo” sia lì per rispetto del copione? Anche se lo fosse, Pasolini sarebbe stato comunque cattolico, visto che numerosi preti e prelati della chiesa si spingono sì a credere nella storicità della morte, ma respingono la storicità della risurrezione di Cristo.

 

Per il film intitolato “La ricotta” (1962-’63) Pasolini subì un processo di vilipendio e la condanna a quattro mesi di reclusione con la condizionale. A illuminare la corte non fu sufficiente nemmeno la dichiarazione che scorre nei titoli di testa del film, dove l’autore afferma: “La storia della Passione – che indirettamente la Ricotta rievoca – per me è la più grande che sia mai accaduta, e i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”. L’episodio narrato nella “Ricotta” vede protagonista un poveraccio soprannominato Stracci, che per sfamarsi fa la comparsa interpretando il buon ladrone in un film su Gesù, confezionato da un regista americano (Orson Welles) a Cinecittà. Pur durando all’incirca trenta minuti, il film è gremito di riferimenti alla pittura, che ruotano intorno a due tableaux vivants, riproduzioni della “Deposizione dalla croce” di Rosso Fiorentino a Volterra e del “Cristo deposto” di Pontormo a Firenze. Le citazioni sono quasi fotografiche, segnatamente nei colori squillanti, antinaturalistici e irreali, tipici della pittura manierista.

 



 

La presenza di questi due inserti a colori nel contesto del bianco e nero è da intendersi un contrappunto “ironico” allo stato d’animo del regista (Welles), che nutre un senso scenografico della passione di Cristo da “Hollywood del Tevere”, opposto a quello realistico del “Vangelo secondo Matteo”. Nel corredo delle immagini di contorno si possono rilevare un paio di fugaci flash caravaggeschi: il giovanotto inghirlandato che regge una composizione di frutta nel tableau tratto da Pontormo, che richiama vagamente il “Fruttaiolo” della galleria Borghese; i giovanotti seduti sull’erba visti da tergo, simili ai neofiti del “Martirio di san Matteo” in San Luigi dei Francesi. Il nome di Caravaggio, nel cinema di elezione realista, viene speso, anzi inflazionato continuamente. Secondo alcuni critici del cinema pasoliniano sarebbe caravaggesco anche Ettore, il figlio di “Mamma Roma” che fa il cameriere e volteggia fra i tavoli di una trattoria con un cestino di frutta in mano. Di caravaggesco non vi è alcunché, tranne il fatto che sia i frequentatori di bettole di Caravaggio, sia Ettore o gli sbandati di “Accattone” sono ragazzi di vita e appartengono a strati sociali e a una umanità da cui tanto Caravaggio che Pasolini attinsero.

 

Intorno al Caravaggio, PPP scrisse una pagina volante rimasta a lungo inedita. Il giudizio non è molto chiaro, ma, in sostanza, egli in Caravaggio rileva tre invenzioni: “Tipi nuovi di persone, nel senso sociale e caratteriologico, tipi nuovi di oggetti, tipi nuovi di personaggi”, vedi i “negletti garzoni di fruttivendolo”; una nuova luce “quotidiana e drammatica”; “un diaframma che divide sia lui, l’autore, sia noi, gli spettatori”, ed è questa l’invenzione che più lo affascina, il diaframma luminoso “che fa delle sue figure delle figure separate, artificiali, come riflesse in uno specchio cosmico”. Quindi riconosce che la visione del Caravaggio è realistica, ma intuisce che la realtà in lui è vista come in uno specchio, sì che i “tratti popolari e realistici dei volti si levigano in una caratteriologia mortuaria”, e i personaggi “sono malati, essi che dovrebbero essere per definizione vitali e sani, hanno invece la pelle macerata da un bruno pallore di morte”. Tale asserzione è indizio di un contatto fra lo scrittore e il pittore.

 

Viceversa, considerare la pittura caravaggesca fonte primaria per Pasolini sarebbe artificioso, così come lo sarebbe ridurre il loro rapporto ai contrasti chiaroscurali. Quanto ad “Accattone”, PPP sostiene di aver “pensato spesso a Masaccio”. Rifiuta l’opinione della critica che ritroverebbe, nella scena di Ettore, steso di scorcio sulla tavola del carcere in “Mamma Roma”, una citazione del “Cristo morto” di Mantegna, al cui proposito invoca Longhi: “Intervenga lei, spieghi lei come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca”. “Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che bianco e nero così essenziali e chiaroscurati richiamano pittori vissuti molti decenni prima di Mantegna?”.

 

“Mamma Roma”, la cui sceneggiatura Pasolini dedicò a Roberto Longhi, non fu accolto con unanime consenso. Il film, nella sua struttura e nel suo andamento, è lento e ripetitivo, però si riscatta grazie agli ultimi dieci minuti, sorgendo a uno stile altamente tragico che, nella serrata sequenza dei fotogrammi, nel ritmo concitato che getta la Magnani in una corsa memore di quella di “Roma città aperta”, lascia lo spettatore attonito. Potrebbe apparire melodrammatica la sequenza di lei che si butta sul lettuccio di Ettore morto, “tira fuori i suoi vestiti e li stringe”, ma non lo è. Il finale è il vertice cinematografico pasoliniano. Vi si nasconde un ricordo figurativo nel fotogramma di Mamma Roma la quale, saputo della morte di Ettore, corre a casa, seguita da un codazzo di quattro donne del popolo. Ritengo che vi sia custodita la memoria della famosa stampa di Marcantonio Raimondi del 1512, desunta dalla “Strage degli innocenti”, quadro perduto di Raffaello. Qui una donna tiene fra le braccia il suo bambino innocente e cerca di metterlo in salvo correndo all’impazzata in mezzo alla folla. Mamma Roma è da sola come una cagna di borgata. Entrambe vorrebbero proteggere il figlio. Né l’una né l’altra ce la fa. Il nesso concettuale che le imparenta è pieno di sofferta verità. L’immagine di chiusura è un’inquadratura con cinque ritratti di persone inchiodate alla finestra. Davanti ai loro occhi la “distesa di Roma, palazzoni e prati fumiganti, si apre immensa e indifferente sotto il sole”. Nessuno parla, ma è come se dicessero “tutto è perduto”.

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