Luciano Spalletti, da metà gennaio di nuovo sulla panchina della Roma, che aveva già allenato dal 2005 al 2009

Luciano Spalletti, l'allenatore scientifico

Beppe Di Corrado
La gavetta e la retorica della provincia per cominciare. Poi metodo, tattica e iperdisciplina hanno fatto il vero Spalletti. Che è anche il tecnico dell’eterno ritorno (non solo alla Roma). “Dante mi avrebbe messo nel girone degli orgogliosi”. In Russia, dopo aver vinto, il giro di campo a torso nudo, con la neve intorno.

D’aspetto è cambiato, Luciano Spalletti. E’ il tempo, niente più del tempo. Erano quasi sette anni che non si vedeva, da quando lasciò Roma per un ciclo che era finito. La Russia non è esattamente l’Inghilterra, la Spagna, la Germania. Neanche la Francia. Si esce dai radar, pure quelli dei ricordi. Dunque il volto, la barbetta, le parole. E’ un po’ come ricostruire un percorso che comincia da una domanda: ma era già così, prima? Perché quasi sette anni nel pallone sono un’era geologica e rimettere insieme la memoria di ciò che era, di ciò che diceva, di come arrivava alla gente prima che ai calciatori richiede un po’ di tempo. Un po’ ci si dimentica, è inevitabile. Spalletti a Roma è legato a un’idea, perché il risultato vero non c’è mai stato. Ha lasciato la sensazione di una traccia, di un gioco, di una identità. Ma manca la foto, quella che fissa la storia di un allenatore in una squadra e in una città a prescindere da tutto. La rivedi e sai, senza scavare troppo nei file archiviati del passato.

 

Bisogna prendersi un po’ di tempo, per ricollegare i fili, stendere i cavi, far fluire le informazioni che ripeschi dalla memoria. Il caso Totti ha agevolato il lavoro perché ha obbligato a farsi un’altra domanda: ma c’era qualcosa di non risolto? In un mondo in cui non ci possono essere certezze, c’è però qualche indizio, trovato. Una frase, per esempio, detta neanche troppo tempo fa, a freddo, dallo stesso Spalletti. Aveva vinto con lo Zenit di San Pietroburgo, il campionato e la coppa di Russia, gli portarono i complimenti di Francesco Totti: “Magari se mi diceva una parola in più quando sono andato via era meglio. Comunque va bene così”. C’era qualcosa. Il che non risolve la questione, ma aiuta a rispondere alla domanda iniziale: è sempre stato così? Tendenzialmente sì, e un’altra sua frase s’aggiunge alla riflessione: “Dante mi avrebbe messo nel girone degli orgogliosi”. E’ una cosa che ripete spesso. La trovi nelle interviste e nei ritratti di chi l’ha raccontato in questi anni. Prima che sparisse dai radar del calcio italiano, dunque anche dai ricordi limpidi, chiari, certi. Guardare la Roma adesso è come spannare con le mani un vetro che s’è appannato: per un bel po’ intravedi e basta. Come giocava e come gioca, per esempio. Come allenava e come allena. Come trattava i calciatori e come li tratta. E’ un’operazione di ricostruzione continua che riparte dal passato, inevitabilmente. Quello abbiamo, infondo. A ritroso, Zenit, Roma, Udinese, Ancona, Venezia, Sampdoria, Empoli.

 

Della Russia, però, le cose che vengono fuori sono essenzialmente tre. La prima è il suo torso nudo, con la neve a bordo campo, dopo aver vinto il campionato. Una scena inconsueta per un allenatore. Gliel’avevano chiesto: togliersi tuta e maglietta e farsi un giro di campo mezzo nudo come gli altri, giocatori e collaboratori dello staff. Poi c’è l’intervista con incazzatura in diretta, in un post partita agitato per un recupero troppo lungo dato da un arbitro. Poi ancora la scena di un altro litigio, stavolta con un calciatore, il brasiliano Hulk. Il giocatore si rifiutò di stringergli la mano dopo una sostituzione. Nelle immagini, si vede Spalletti fare un gesto tipicamente da padre, come a redarguirlo. Spalletti sembra dire: “Dopo ce la vediamo io e te in privato”. Alla fine della partita dichiarazione: “E’ vero: non era contento per la sostituzione. Come si fa? Se ricapita lo si risostituisce”. L’immagine, il contesto, la storia lo riavvicina al presente con Totti e al passato con Cassano. Con il quale ebbe un celebre diverbio, che il calciatore ha raccontato così: “Mica stai allenando quelle schiappe che avevi all’Udinese. Questa è mica casa tua, è casa mia”. Queste le parole di Cassano, con risposta di Spalletti arrivata dopo la cessione del calciatore: “Che sensazioni ho per aver perso Cassano? Le stesse di quando se ne sono andati Bovo o Corvia”.

 

Ci sono due Spalletti nella sua carriera da allenatore. C’è quello prima di Roma e quello dopo Roma. O forse, per dirla tutta, lui era lo stesso, ma ciò che percepivano gli altri era diverso. Fino a Udine lo raccontavano come quello che s’era fatto la gavetta in provincia e che ai valori di quella provincia si ispirava. La conseguenza era un racconto fatto di aneddoti piccoli, ma chiaramente frugali. Quello del furgone del mobilificio Trio passava di mattina: Luciano Spalletti montava su e andava tra Sovigliana e Vinci, in compagnia del fratello. Proprietari al 50 per cento. Scaricavano e assemblavano divani: struttura, sostegni, schienale, cuscini. All’epoca lui aveva i baffi sottili e qualche capello. Era la sua vita normale, da ex giocatore di provincia e allenatore di straforo. Il pomeriggio gli allievi. Aveva lasciato il calcio giocato da poco: Club sportivo fiorentino, Volterrana, Montecatini, Castelfiorentino, Chiavari, Cuoiopelli, Entella, Spezia, Viareggio, Empoli. Mai oltre la serie C. “Ero un centrocampista di resistenza e poca qualità, anche se per modello prendevo Antognoni”.

 

Fabrizio Corsi, il presidente dell’Empoli, lo chiamò e gli disse di prendere la squadra, senza patentino. Giocatore-allenatore: “Mancavano sei giornate alla fine. La prima volta che entrai nello spogliatoio da mister, i miei compagni di squadra si nascosero dietro gli accappatoi per non ridermi in faccia. Giocammo i play-out per salvarci. Ci riuscimmo”. Non ci credeva neppure lui. Le storie degli allenatori sono simili: giocatori che fanno da leader e quando smettono si mettono in panchina a comandare. Luciano avrebbe potuto essere una meteora: salvezza e via, a cucire divani e vendere salotti. L’anno dopo fu quello degli allievi, del lavoro diviso a metà: la mattina tra Vinci e Sovigliana, un giro anche a Certaldo, dove Spalletti è nato qualche secolo dopo Giovanni Boccaccio. Il pomeriggio a Empoli. Il pallone, i ragazzi, niente lavagna, il campo, undici contro undici. Fabrizio Corsi è un presidente strano anche oggi che sono passati più di dieci anni: è giovane, è ricco, è moderno. Nel 1995 era peggio: chiamò Luciano, lo invitò a casa sua a Viareggio d’estate e gli propose di nuovo la panchina. Stavolta dall’inizio, da settembre a giugno. Stavolta dagli stessi punti degli altri e con una squadra decente. Spalletti accettò: Empoli promosso. L’anno dopo serie B: promosso. Ecco, Luciano in serie A. Sempre con la storia del provinciale che sembra un altro pianeta. Raccontato così, puntato sempre con aneddoti piccoli che potessero confermare il clichè. Come la frase “non mi sento in grado di allenare in A. Ho paura. Non conosco nemmeno i giocatori avversari”. E la relativa risposta del presidente Corsi: “Ti si compra l’album delle figurine, così impari tutti i nomi”. Si scoprirà solo dopo come lavorava già allora Spalletti, si scoprirà che la retorica della provincia era fuffa: c’era lavoro, metodo, idee, modernità. Due mesi dopo aveva già battuto Lazio e Fiorentina. Il 5 ottobre doveva giocare con il Milan, in casa: Empoli 6 punti, Milan 2. Quell’Empoli fece un campionato da favola. Cominciarono le telefonate di alcuni presidenti, mentre i tifosi toscani già sapevano. L’anno dopo Luciano era l’allenatore della Sampdoria.

 

Allora è cominciata una storia nuova, sono spariti definitivamente i baffi e il capello cortissimo è diventato pelata. Da quel momento la vita di Luciano Spalletti è diventata una coincidenza, s’è trasformata in una serie di casi unici, di incroci del destino, di corsi e ricorsi. Il vincente di Empoli era lontano, nonostante Montella “il Marziano”, come lo chiamava Luciano. Tre mesi: il 13 dicembre del 1998, Spalletti era già l’ex allenatore della Sampdoria. Lo cacciarono in un pullman, mentre la squadra andava da Roma a Firenze. Esonerato per una sconfitta contro la Lazio, la stessa Lazio che era stata la prima squadra incontrata e sconfitta con l’Empoli, l’anno prima. Lui fece la valigia e tornò a Genova solo per salutare la squadra e la dirigenza: “Mi auguro con tutto il cuore che vi riusciate a salvare, ma avrei potuto salvarvi io”. Al suo posto venne chiamato David Platt. Durò poco. Il 3 febbraio 1999 Luciano era di nuovo a Bogliasco, con il vice Domenichini e tutto lo staff, con le cassette, gli appunti, gli studi.

 

Ritorno. Il primo. Coincidenza. Qualche mese prima un’altra: al posto suo Fabrizio Corsi aveva chiamato a Empoli Luigi Del Neri. Un altro come Luciano: giocatore modesto e allenatore rampante. Silurato dopo quattro settimane perché era diverso da Spalletti, mentre lì volevano uno simile. Un clone. Bisogna capire: è difficile che tifosi e società si dimentichino di un allenatore che ti salva dalla C2 e dopo tre anni ti porta in A. A Empoli Luciano era un’icona intoccabile, uno trasformato in una serie di manifesti appesi nelle strade di Sovigliana, non in una strada qualunque, ma in via Palmiro Togliatti: “Sacchi + Zeman = Spalletti”. Del Neri lo capì subito. Del Neri che è stato il predecessore di Luciano alla Roma e che è stato anche sulla panchina del Palermo di Zamparini, un altro che con Spalletti c’entra. Quell’anno la salvezza della Samp non arrivò, mentre il caso volle che la Figc aprisse un’inchiesta su un tentativo di corruzione durante la partita Sampdoria-Empoli del 25 ottobre 1998. Il sospetto era che il presidente Corsi avesse cercato di ottenere un favore dall’arbitro dell’incontro Farina. L’indagine finì con l’archiviazione. In quel momento la Sampdoria era in serie B e per l’allenatore era esonero definitivo. Luciano non rimase fermo. Il 3 giugno firmò un nuovo contratto, col Venezia. Sostituiva Walter Novellino, che oggi allena la Sampdoria.

 

Coincidenza. A prenderlo sulla laguna, fu il presidente di allora del Venezia: Maurizio Zamparini. Destino. Otto giornate di campionato: Spalletti esonerato. Era il 2 novembre 1999, al suo posto Giuseppe Materazzi. Altre due giornate: Materazzi cacciato, Spalletti richiamato. Non era mai successo nella storia del pallone italiano. Due volte di seguito la stessa cosa, due volte sollevato dall’incarico e poi rimesso al suo posto. Non è stato un bel record, quello di Luciano. Comunque, prima partita da allenatore bis del Venezia e vittoria. Contro l’Udinese. Coincidenza. Perché dopo l’esperienza con Zamparini la destinazione è stata proprio Udine. Spalletti è arrivato nel 2001, quando il campionato era cominciato. E’ subentrato perché dopo Venezia aveva deciso di restare un po’ fermo. C’erano state storie brutte con il presidente che l’aveva definito “uno che porta sfiga” in diretta tv. Pozzo lo chiamò a marzo per sostituire Luigi De Canio. Luciano lavorò per sei mesi, poi andò ad Ancona. A giugno 2002 il ritorno a Udine per un contratto serio. Serio come il campionato dell’Udinese arrivata in Uefa: “Tutti guardano al Chievo come modello per le provinciali, ma alla fine noi abbiamo fatto meglio. E’ l’Udinese il modello”. E’ solo un caso che l’allenatore del Chievo fosse Del Neri. Un caso.

 

A Udine Luciano è cambiato. Anzi, per rimanere nei binari di come è andata davvero questa storia, la sua, è lì che ha cominciato a essere raccontato diversamente. Sono venuti fuori i metodi. A Roma l’operazione è finalmente diventata completa. Spalletti ha smesso di essere il provinciale ed è diventato globale. Non lui, di nuovo. Ma il modo con cui è stato raccontato. Le modalità di allenamento erano le stesse di Empoli, però è come se fossero nuove: “Io preferisco ripetere le situazioni di gioco in campo, undici contro undici come la domenica. Un pilota di Formula Uno mica sta in poltrona con solo il volante in mano, mette a punto la macchina girando in pista come nei gran premi”. Finalmente qualcuno ha riparlato della preparazione.

 

Ciò che oggi è il ricordo che appare per primo dal vetro appannato è proprio l’ossessione per la ripetizione dei movimenti. Al suo ritorno a Roma, Dario Saltari ha ricordato alcune dichiarazioni di suoi ex calciatori. Come Giuly: “Quando arrivai a Roma non ne sapevo molto di tattica, lui me l’ha fatta studiare a fondo per tre mesi. All’inizio rimasi scioccato perché tutti facevano la stessa cosa e io mi sentivo quasi incapace di giocare a calcio, mi sembrava di vivere in un videogioco che si ripeteva identico ogni mattina”.

 

Da quel momento e dall’introduzione – un po’ casuale, per sua stessa ammissione – di Totti come falso (o verissimo) centravanti, Luciano è stato considerato definitivamente un allenatore scienziato. Tanto che spesso si ricorda che è uno dei pochi a comparire nel libro “La piramide rovesciata” di Jonathan Wilson, considerato un libro fondamentale per la tattica. Questo ha nascosto per molto tempo il carattere. Perché è come se con lui ci debba essere sempre una cosa sola. Eppure ciò che oggi emerge, ovvero la rigidità, l’iperdisciplina, c’erano già prima. Come c’era quell’atteggiamento di catechizzare i calciatori quando escono per una sostituzione. Come un maestro-professore. E’ successo con Florenzi, quest’anno. E tutti si sono stupiti. Invece succedeva sempre e succede da sempre. Come le sue battute. Tipo: “Io non alleno la storia”. Ricorda molto da vicino un’altra dichiarazione: “Mi regalassero un fantasista, di quelli che una volta ti fanno vincere e tre perdere, non lo vorrei”. Non è cambiato, quindi, Spalletti. E’ cambiata piuttosto la vita, è cambiata Roma. Bisogna capire se fa per lui fino in fondo. E forse fino in fondo bisogna capire anche il contrario.

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