Profughi siriani nei pressi del confine turco. “Che arrivi in Europa o affoghi in mare, la mia tristezza comunque finirà”

Frantumi siriani

Tatiana Boutourline
In fuga dalla guerra e da Damasco per approdare in una cittadina svedese, in Germania o finire in Brasile. Geografia di una diaspora. Più della metà dei siriani ha abbandonato la propria casa. E sono oltre quattro milioni coloro che hanno varcato i confini.

C’era un tempo in cui per non pensare all’orrore i siriani in fuga dalla guerra parlavano di calcio, di donne e di musica, ma mentre di anno in anno le speranze di tornare a casa si affievoliscono e l’esilio diventa una nuova disperata normalità, le conversazioni sono dominate da un unico argomento: andarsene, come farlo e quando. “Non chiedermi perché me ne vado. Ti chiedo io, piuttosto: perché dovrei rimanere?”, ha detto al Wall Street Journal il ventiquattrenne Raad Ahmed, studente di Scienze politiche. Raad è iracheno (incoraggiati dall’esempio siriano sono massicciamente in fuga anche gli iracheni, sottolinea il WSJ, rimarcando che il numero di arrivi in Italia e in Grecia nell’ultimo anno è quintuplicato), ma la stessa frase avrebbe potuto pronunciarla un siriano o un afgano tanto che nella regione si nota con triste ironia che ormai esistono solo due categorie di persone: “quelli che se ne vanno” e “i nuovi patrioti”, che restano solo perché non possono fare altrimenti.

 

Dodici milioni di siriani, su una popolazione totale di venti milioni, hanno abbandonato le loro case: 7,6 milioni sono attualmente “rifugiati interni” e 4,1 milioni hanno cercato la salvezza in Turchia (un milione e 558 mila), Libano (un milione e 147 mila), Giordania (623 mila), Iraq (234 mila) ed Egitto (138 mila), ma la mappa della diaspora siriana è molto più ampia: tocca l’America del sud – Brasile in primis e poi Argentina, Venezuela e Cile – il Canada, gli Stati Uniti e soprattutto l’Europa. “Che arrivi in Europa o affoghi in mare, la mia tristezza finirà in entrambi i casi”, ha raccontato al Middle East Eye un venditore di dolciumi di Aleppo, dopo essersi disfatto dei suoi averi per mettersi nelle mani di trafficanti e scafisti.

 

A Södertälje, l’“Aleppo sul Baltico”, 30 chilometri a sud-ovest di Stoccolma, è l’ora della ricreazione: i bambini si rincorrono, mangiano toast al formaggio e cantano in arabo e in assiro. “Da noi possono parlare la loro lingua e imparare velocemente lo svedese”, spiega a Sky Helmut Lavicka, preside di Elafskolan, una scuola aperta un anno fa per andare incontro alle esigenze della diaspora assira e siriana. “Il nostro obiettivo è quello di offrire la migliore istruzione possibile a questi ragazzi: se sai chi sei, l’integrazione sarà più facile. Se disconosci le tue origini vivrai ostaggio di un perenne conflitto culturale”, dice Lavicka, che ha ascendenze austriache (“sono anch’io un immigrato” precisa) e critica “lo spirito della fortezza” che soffia su parte del continente europeo. “Il paradosso è che gli europei hanno perso la consapevolezza del progetto europeo: dopo la Seconda guerra mondiale milioni di rifugiati sono stati ospitati da società in macerie. Ora questo continente è ricco e potremmo gestire la situazione meglio se solo ci fosse la volontà politica necessaria”.

 

Annidata nella baia del lago Malaren, circondata da colline di pini e betulle, Södertälje, 84 mila abitanti, è un hub mediorientale nel freddo nord. Secondo le statistiche comunali, circa 10 mila residenti hanno origini irachene, quasi 8 mila siriane, 5 mila turche e 2.500 libanesi. Nell’aprile del 2008, l’allora sindaco, Anders Lago, fu invitato al Congresso e lodato dal candidato alla presidenza Barack Obama perché la sua amministrazione aveva accolta in un anno più iracheni degli Stati Uniti e del Canada messi insieme.

 

Dieci anni fa a Södertälje arrivavano soprattutto iracheni, andavano in nuovi quartieri come Ronna e Hovsjo e abitavano in condomini-alveare ribattezzati Little Baghdad o Mesopotalje, ma da quando, nel 2013, la Svezia ha annunciato che avrebbe offerto permessi di soggiorno permanenti ai richiedenti asilo siriani, i funzionari che assistono i nuovi arrivati incontrano prevalentemente siriani.

 

Nell’ultimo anno a Södertälje sono giunti 1.200 profughi, di cui il 90 per cento siriani. La Svezia, un paese che conta meno di 10 milioni di abitanti, ha ricevuto nel 2014 circa 80.000 richieste d’asilo, il numero più alto pro capite nell’Unione europea e a Södertälje il 48 per cento della popolazione è ormai composta da immigrati. La prima ondata siriana ha messo radici in questo angolo di Svezia negli anni Sessanta, attratta tanto dalle opportunità di lavoro offerte dalla Scania Ab, un’azienda svedese produttrice di veicoli industriali, quanto dalla voglia di assaporare libertà e giustizia sociale negli anni in cui in Siria si affermava il partito Baath. Oggi quel primo nucleo di esuli, composto prevelentemente da assiri e da cristiani siriani (greco-ortodossi, melchiti e caldei), fa parte integrante della borghesia locale e la conquista del benessere è testimoniata da eleganti villette, dal sapore vagamente mediorientale, che si trovano all’ingresso della cittadina. La comunità originaria ha creato associazioni culturali e società immobiliari, ha aperto negozi, caffè e ristoranti e Södertälje ha persino due squadre di calcio “immigrate”: l’Assyriska e la Syrianska (in onore dei due gruppi etnici siriani presenti in città) che giocano nella prima divisione svedese.

 

La chiesa dove convergeva gran parte della comunità ai tempi in cui la Scania richiamava tecnici e operai siriani è anche il punto di riferimento principale dei nuovi arrivati che fanno sempre tappa qui, mentre a pochi passi dalla più recente cattedrale siriaco-ortodossa si trovano gli studi di Suroyo Tv, la prima televisione del mondo in lingua assira che trasmette programmi di intrattenimento, documentari e notizie.

 

Julius Shabo, arcivescovo della chiesa assiro-ortodossa sottolinea che dal suo arrivo in Svezia 25 anni fa il numero dei parrocchiani è quadruplicato. La legge svedese asseconda l’esodo verso Södertälje consentendo ai rifugiati di stabilirsi dovunque vogliano purché trovino un posto in cui stare. Il luogo è generalmente un letto o un divano a casa di parenti e amici anche quando questo significa trasferirsi in appartamenti che è eufemistico definire sovraffollati. Solo coloro che non riescono a garantirsi una sistemazione vengono suddivisi tra comuni che poi provveddono a trovare alloggi e ad assicurare il welfare. “La cosa più importante per un rifugiato – sottolinea il sindaco di Södertälje, Boel Godner – è che impari lo svedese, trovi una sistemazione stabile e un’occupazione, serve a poco muoversi da un parente all’altro”. Invece, in Svezia, i profughi vengono troppo spesso lasciati fare e, mentre a parole l’establishment continua a sostenere politiche migratorie liberali, nei fatti resta alla larga da Södertälje.

 

Altri amministratori toccati dall’emergenza concordano che le politiche attuali non sono sostenibili, gli immigrati sono troppi e nelle condizioni attuali è impossibili ospitarli tutti nelle grandi città. Ottomila persone sono in attesa di un alloggio e gli assistenti sociali sostengono che d’ora in poi i nuovi siriani dovranno esplorare i piccoli villaggi isolati del nord della Svezia dove si trova più facilmente casa, ma più difficilmente lavoro.

 

I problemi di Södertälje sono gli stessi che affliggono Malmö . Se Södertälje è la terra promessa dei cristiani siriani (e iracheni), Malmö è quella dei musulmani. Terza città della Svezia, Malmö è stata fino a trent’anni fa la capitale della working class svedese massicciamente impegnata nell’industria tessile e nel cantiere navale di Kockums, la roccaforte senza fronzoli del partito socialdemocratico svedese. Poi le logiche economiche sono cambiate, secondo l’Economist la working class portuale si è contratta, i concreti cittadini di Malmö sono migrati, chi verso loft di design, chi verso i palazzoni di Rosengard e mentre la gigantesca gru di Kockums, eletta simbolo della città nel 1974 veniva smantellata e mandata in Corea del sud, la città si riciclava come centro universitario e polo tecnologico.

 

L’80 per cento della popolazione di Rosengard (dove vivono 24.000 persone) oggi è composta da immigrati polacchi, somali, iracheni, afgani, turchi, iraniani e appunto siriani. Qui è cresciuto il calciatore di origine bosniaca Zlatan Ibrahimovic, che di Rosengard ha detto: “La vita è un po’ più dura rispetto al resto di Malmö, ma qui ci si aiuta tutti”. Gli uomini siedono in caffé chiamati Libano e Babilonia e molte donne sono velate. Per il quartiere girano le giacche rosse dell’“Accoglienza Rosengard”, spesso indossate da immigrati che hanno il compito di aiutare i nuovi residenti a districarsi nella burocrazia del welfare state.
“Il problema di Rosengard – ha sottolineato il ministro per l’Immigrazione Tobias Billstrom – è che avere un lavoro in Svezia è tutto” e a Rosengard solo il 38 per cento degli abitanti ne ha uno. La frustrazione giovanile esplode in periodiche rivolte in cui vengono lanciate molotov, bruciati cassonetti, biciclette e automobili. Visti con gli occhi di chi ha viaggiato da Damasco fino alla soglia del “sogno svedese” i problemi di Rosengard comunque sono poca cosa. “Se scrivi ‘Voglio asilo’ in arabo su Google, in automatico esce Svezia”, ha detto Alan, 24 anni, in una testimonianza raccolta dal Migration Policy Centre.

 

Secondo i vecchi esuli, i nuovi profughi ricevono molto più dalla Svezia di quanto non accadesse trent’anni fa. Un’agenzia governativa, ad esempio, analizza titoli di studio e competenze dei richiedenti asilo, organizza per loro piani di studio o un apprendistato e incrocia i loro profili con quelli di potenziali datori di lavoro. Negli ultimi 24 mesi solo il 30 per cento dei rifugiati passati attraverso il programma ha trovato lavoro, ma chi ha conquistato la sua America a Malmö insiste che, con una sufficiente dose di intraprendenza, da Rosengard si può comunque uscire. “Ho vissuto in Malaysia, a Dubai, in Germania, ma non c’è nessun posto come la Svezia” assicura il quarantaquattrenne Kamal Rifai, un passato da attivista politico e un presente da architetto di successo, che non lascerebbe la Svezia per niente al mondo.

 

La Germania era già la nazione delle aspirazioni siriane collettive quando Angela Merkel ha annunciato che avrebbe accolto 800 mila richiedenti asilo, quattro volte il numero di profughi accettati dalla Germania nel 2014. Nel bipolarismo europeo tra la Wilkommenskultur della cancelliera e il filo spinato di Viktor Orbán, la Germania rappresenta i buoni, “ l’unico stato che tratta i rifugiati come essere umani”, ha spiegato il giovane Hatem Ali Ahaj alla France Presse dopo 22 giorni di cammino attraverso Macedonia, Serbia, Ungheria e Austria. “Il primo poliziotto che ho incontrato mi ha detto ‘Welcome to Germany’ e poi ha sorriso”.

 

Ma la Germania non delude anche quando non è una scelta. Il Guardian ha raccontato la storia di Yahya, 60 anni, una moglie e tre figli adulti arrivati con lui in Germania un anno fa. Sognava di emigrare negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, con il programma di asilo gestito dell’Unhcr, ma solo la Germania ha risposto all’appello. “Hanno chiamato e hanno detto semplicemente: per favore, venite”. Mohammed, il figlio maggiore ha accolta la notizia con entusiasmo perché da bambino sognava di possedere una Bmw e associava alla Germania l’idea del lavoro di squadra. La prima sera “fuori era freddo, buio, pioveva – ha detto Yahya – mia moglie era nervosa e piangeva. Quando siamo entrati c’erano fiori, candele, latte e caffé, non dimenticherò mai il calore della loro accoglienza”.

 

[**Video_box_2**]Per Yahya e la sua famiglia è tutto nuovo: dalle lezioni di tedesco alla raccolta differenziata, ma in Germania i nuovi arrivati hanno già incontrato la solidarietà di altri siriani. La diaspora siriana, stimata in circa 33 mila persone quindici anni fa, è cresciuta: dall’inizio della guerra civile sono già stati accolti 140.000 profughi. Sui social network organizzazioni tedesche offrono consigli ai nuovi arrivati e una società ha ideato l’app “Welcome to Dresden” per aiutare i rifugiati a ottenere assistenza legale e sanitaria e iscrivere i bambini a scuola. Ma i suggerimenti più utili spesso arrivano da altri siriani. Quale è la migliore città tedesca per un siriano? Come posso trovare un dottore a Berlino che parli arabo? Chi mi aiuta a tradurre una lettera che devo mandare alle autorità? Il gruppo Facebook “Syrian home in Germany”, fondato da un fotoreporter scappato dalla Siria nel 2011, aiuta a trovare risposte a domande come queste grazie a un flusso continuo di informazioni prodotto dai suoi circa 80.000 membri. Najeec Jehad Shawi scrive dalla Sassonia e denuncia voci infondate secondo le quali una nave tedesca attraccherà a breve in Turchia per condurre profughi siriani in Germania. Altri utenti vogliono testimoniare la loro gratitudine pubblicando foto di rifugiati che puliscono le strade “come segno d’amore verso la Germania e a dimostrazione che abbiamo voglia di integrarci”.

 

Ma c’è anche chi, sognando la Germania o la Svezia, arriva in Brasile come Human Debas, già manager in ascesa nella città siriana di Hama: “Avrei potuto provare ad arrivare illegalmente in Europa, ma temevo fosse troppo pericoloso per la mia famiglia”, ha raccontato al Guardian. “Nessun altro paese ci dava il visto, il Brasile era l’unica scelta sicura”. Il Brasile è un paese accogliente dicono i siriani, nessuno fa domande sulla religione. “Ci trattano come brasiliani”, aggiunge Debas, anche se la vita è molto cara e non è semplice trovare lavoro. Dal 2013 il Brasile ha concesso asilo umanitario a più di duemila siriani. Una volta sbarcati, però, i profughi se la devono cavare da soli. La maggior parte si stabilisce San Paolo, prevalentemente nelle vicinanze delle più importanti moschee cittadine, nei distretti di Brás e Cambuci. E’ intorno alle moschee (ma anche alla Caritas) che gravita la vita di molti profughi aiutati a trovare un tetto e a destreggiarsi nella complessa macchina burocratica brasiliana.

 

Secondo la rivista online Jadaliyya, in Brasile vivono quasi 15 milioni di persone di origine araba, di cui circa tre milioni di discendenza siriana, arrivate in tre ondate migratorie tra la fine dell’Ottocentro e il 1980, le prime due legate principalmente a fattori economici, la terza politici. Debas c omunque non sente di avere molto in comune con loro. Nelle sue intenzioni la permanenza a San Paolo non doveva essere definitiva, poi le settimane sono diventate mesi, i mesi anni. Adesso insegna inglese per mantenersi. “La guerra ha degradato i nostri sogni. Prima sognavo una carriera luminosa. Poi la pace. Poi solo meno problemi. Adesso sogno solo di sopravvivere”.

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