Laura Boldrini è nata a Macerata nel 1961. Il 16 marzo del 2013 è stata eletta presidente della Camera

La madonnina del pianto

Mario Sechi
Non era così. Scuotono la testa, i compagni di un tempo che fu. No, non era così. Tradiscono uno sguardo liquido, proiettato verso un passato remoto, quello in cui Lei proprio non era così. Era cordiale, su un altro pianeta. Era simpatica, in un’altra galassia. Era Laura Boldrini.

Non era così. Scuotono la testa, i compagni di un tempo che fu. No, non era così. Tradiscono uno sguardo liquido, proiettato verso un passato remoto, quello in cui Lei proprio non era così. Era cordiale, su un altro pianeta. Era simpatica, in un’altra galassia. Era Laura Boldrini. E non era ancora Presidente della Camera. “Non era così, era cordiale, era simpatica”. Yes comrades, come vi capisco, mentre inchiostro qua e là le pagine del mio taccuino, in testa mi frulla un motivo di Franco Battiato: “Il tempo cambia molte cose nella vita / il senso le amicizie le opinioni / che voglia di cambiare che c’è in me / Si sente / il bisogno di una propria evoluzione / sganciata dalle regole comuni / da questa falsa personalità”. Corre l’anno 1981, Battiato compone il suo album capolavoro, “La voce del padrone”, e lei, Laura, ha appena vent’anni, da un anno frequenta la facoltà di Giurisprudenza della Sapienza e ha un saldo centro di gravità permanente che non le fa “cambiare idea sulle cose e sulla gente”. Quello accadrà, più tardi. Con l’ascesa al potere. Prima dello shocking day, la sua elezione alla presidenza della Camera, il 16 marzo del 2013, c’è la storia di un’altra Laura, quella che “oggi non c’è / è andata via”. Non tornerà mai più. L’altra Laura, quelle che ricordano i compagni dei bei tempi andati ha “le giacche fricchettone, i capelli non fatti, qualche chilo in più e… ride”.

 

Laura ottiene la laurea nel 1985, ha il sacro fuoco della scrittura che scorre nelle vene, collabora con la Rai e già lavora alla sceneggiatura della sua vita mondanissima e altermondista. Se sei nata a Macerata nel 1961 – troppo tardi per fare il Sessantotto e troppo presto per cantare “E’ qui la festa” di Jovanotti – se vivi nella campagna di Jesi, se sei la primogenita di cinque figli, se hai un padre avvocato, conservatore, religioso e amante della musica classica, se tua mamma è insegnante d’arte, se la tua vita è scandita dal metronomo della tradizione, è matematico che prima o poi scappi in Sudamerica a caccia della lontana libertà. Altro che Simon Bolivar, è così Laura, viaggiatrice dei due mondi, raccoglitrice di riso in Venezuela, un rosario di fango, pioggia, capanne, finca de arroz, campesinos e revoluciòn. Sono i primi passi di quella che poi diventerà la Nostra Signora degli Ultimi in Carrozza. Lei in carrozza, gli ultimi a piedi. Grande è il richiamo della foresta pluviale e del deserto, il lavoro per il prossimo reietto, la sua destinazione naturale è quella delle Nazioni Unite, il posto d’osservazione da dove parte la sua indignazione in servizio permanente effettivo. “Non era così come oggi”, sì ho capito, ma ora lasciatemi scrivere, idealisti. Perché la storia di Laura è una cascata, è un “voglio”, un “subito”, un “non domani”, un “tutto”, è l’ambizione travestita di gne gne, il cocktail dell’Italia dei piagnoni in carriera. Così Laura realizza il suo primo sogno, entra alla Fao, produce video e radio, è un tazebao viaggiante del pensiero debole che passa da una sigla all’altra dell’Onu con la disinvoltura di chi entra ed esce da un grand hotel con le porte girevoli e i valletti con le borse in mano, mi raccomando. C’è il programma alimentare mondiale e lei è il portavoce per l’Italia, fa e disfa le valigie in continuazione, poi approda nel 1998 all’Alto commissariato per i rifugiati e là comincia la fase da transformer, la rondinella diventa un’aquila con gli artigli di titanio, il suo percorso verso la stratosfera degli Eletti è senza ostacoli, il suo decollo verticale è da Space Shuttle. E’ una navicella che usa tutto il carburante del serbatoio e poi lo sgancia in mare perché da quel momento è solo un peso. Citofanare Sel per avere conferme. Quando i giornalisti chiesero lumi sulla crisi e gli abbandoni nel partito vendoliano, Laura rispose: “Io mi sono presentata alle elezioni come indipendente”. Vamos compañeros! E tanti saluti.

 

Il fatto è che nell’assenza di autori e attori, la Boldrini diventa subito icona de sinistra. Nel deserto radioattivo del progressismo non-renziano, lei si autoproduce e riproduce senza difficoltà. Tuona contro le destre, stronca la Bossi-Fini, alza e abbassa il pollice, promuove e boccia, così il discorso s’affina e la penna s’affila, i comunicati diventano una foresta di pugnali, si spalancano le porte dei salotti televisivi, lei trafigge la telecamera con gli occhi iniettati d’ambizione, decolla e atterra, Bosnia, Albania, Kosovo, Pakistan, Afghanistan, Sudan, Angola, Iran, Giordania, Tanzania, Burundi, Ruanda, Sri Lanka, Siria, Malawi, Yemen. Lo scenario è esotico con un sottotesto di tragedia. Sull’immigrazione e i rifugiati costruisce il personaggio, il character da mettere in scena, apre e chiude con un battito di ciglia questioni bibliche, passa dalla Locride alle primavere arabe con il balzo di una tigre asiatica, perché dove c’è la fame c’è anche la fama, dove c’è la guerra c’è il dolore e dove c’è il dolore c’è un flash, una telecamera, un comunicato e lei, Laura, testimone della contemporaneità, la nostra Rosa Luxemburg a quattro stelle. Ai tempi dell’Onu, ogni suo messaggio diventava un pezzo fondamentale dell’ingranaggio della sinistra in cerca d’autore, dall’Unità a Articolo 21, lei c’era. Perché Laura è una fascinazione, un patchwork dove la coreografia è più importante della sceneggiatura. Famiglia Cristiana nel 2009 la incorona “italiano dell’anno” e sul primo numero del 2010 il settimanale pubblica un’intervista in cui la parte importante non sono le sue risposte, ma la descrizione della casa: “La casa romana di Laura Boldrini è un riflesso chiaro, perfetto della sua vita: alle pareti del salotto i quadri del fratello Andrea, pittore di professione, un affresco realizzato da sua sorella Lucia, gli acquerelli dipinti dalla zia Dafne, ultraottantenne, che da giovane lavorò come modella, girò per il mondo e a quarant’anni prese a scrivere romanzi. ‘Si autocandidò pure al premio Nobel’, ricorda Laura”. Che sciccherìa, Vittorini direbbe “di gente bella e balda”. E’ il distillato del mondo di Laura, tutto sentimento e viaggio, non è Salgari, non troverete Sandokan e la Perla di Labuan, quella è letteratura popolare, qui sciaborda il voyage, materia che può essere sgrezzata al massimo dalla penna di Elena Ferrante, perdinci. Voi capite che, a quel punto, tutto è possibile e alla reginetta di Famiglia Cristiana si spalanca il cancello del politicamente indiscutibile, dell’intelligente a prescindere. Non è Time (per quello c’è tempo, abbiate fede), ma la benedizione del settimanale dei Paolini in Italia è il prestigio con l’ostia, l’upgrade in business class della sinistra che viaggiava in economy. Così, tra rotativa e pixel, taccuino e microfono, take d’agenzia e telegiornale, collegamento radio e… occhio, va via il satellite, si va scomponendo un tipo umano che fu core e megafono, abito etnico e sandalo con motivi tribali, e componendo una biografia in tailleur con il jet-lag incorporato e il jet-set introiettato. Il salvamento radical-chic diventa programma politico, abito da giorno sul podio da profeta la mattina, pronto a sbrilluccicare al tintinnio dei calici la sera. Il grande salto ormai è solo una questione di quando, non di come. Sì, c’è la vita passata ancora là, presente a se stessa, due giornalisti compagni di vita, in mezzo una figlia che studia in Inghilterra (e dove sennò?) ma la marcia del futuro s’ode lontano, sembrano gli stivali della fanteria napoleonica a Jena, solo che Nichi Vendola non è Immanuel Kant e la combina grossa. Proprio così, il primo contributo audio a questa storia psichedelica lo dà Nichi. Lasciamo che sia la prosa con la messa in piega di Laura a raccontarci il momento topico, la chiamata, il volta-pagina della Storia. E’ tutto scritto nella sua ultima opera (edita da Einaudi, casa editrice del Cavaliere, naturalmente) intitolata modestamente “Lo sguardo lontano”. Lei è in Grecia, è in piena fase Siryza, s’interroga come Amleto, si chiede “davvero conta soltanto il pareggio di bilancio?”, è profondamente “turbata da queste riflessioni”, il lettore già pensa al pianto e ai crisantemi e invece… oplà, eccolo, il trillo che imprime l’accelerazione in curva: “…squilla il cellulare. E’ Nichi Vendola a chiamarmi. Lo saluto, ma sono ancora talmente indignata che gli scarico addosso il racconto di quella giornata orribile”.

 

Ora, provate a immaginare la scena, una furia e Nichi che non spiccica parola, roba da American Comedy “Lui mi ascolta in silenzio. Dopo dieci minuti di sfogo, mi rendo conto di non averlo lasciato parlare: mi scuso e gli domando il motivo della telefonata”. Eh, già, il poveretto ha proprio fatto una telefonata, e certo, so’ dieci minuti de passione civile ma lei è “certa che nella sua regione ci siano delle questioni umanitarie su cui attivarsi”. Vendola fa la figura del babbeo vestito a festa, ma che volete, la prosa è letteraria e il cuore di Laura batte ancora più a sinistra, il racconto vibra tutto in sottosterzo e alla fine la traiettoria si raddrizza con un Vendola che balbetta qualcosa: “Come Sel vogliamo intensificare la battaglia sui diritti – mi dice – visto che la Grecia non è così lontana da noi… Tu ti sei battuta contro il razzismo, le discriminazioni, a sostegno di rifugiati e migranti, e per questo rappresenti un punto di riferimento. Perciò ti chiedo di candidarti con noi alle prossime elezioni”. Patatrac! La decisione è già presa e il libro apre scorci idilliaci da collezione Harmony: “Ero desiderosa di stupirmi, di guardare il Machu Picchu e restare senza fiato, di andare in Tibet a oltre seimila metri e avere la forza di respirare; di fermarmi a Bamiyan davanti ai Buddha e sentirmi fortunata di poter ammirare le meraviglie del pianeta, di potermi alimentare di tanta bellezza”. E’ un passaggio dove si rivela tutta la forza narrativa della Karen Blixen di Jesi, dalla mia Africa alla Nostra Laura del Pianto.

 

Quando la neve comincia a rotolare dal K2, la Boldrini diventa rapidamente una valanga. Non fa neppure in tempo a varcare la soglia del portone di Montecitorio e Pier Luigi Bersani – lasciata la pompa di benzina di Bettola e sotto l’effetto stroboscopico delle tovagliette a quadretti rossi dell’osteria – compie il tragico errore: Boldrini presidente della Camera. C’è da capirlo, Pier Luigi, non sa che pesci pigliare, è come Nino Benvenuti dopo aver incontrato Carlos Monzon, leggermente confuso: non ha vinto, non ha perso, ha Grillo che lo manda in tilt come un flipper preso a colpi da un lottatore di sumo, s’ingegna a trovare la società civile nei salotti del take away benpensante e così si convince che lei, Laura protettrice degli ultimi, è l’arma segreta per ammorbidire il comico genovese. Crac. Laura Boldrini fa coppia con Pietro Grasso, il principe del vuoto. Diventano in breve tempo i Sandra e Raimondo del vernissage istituzionale e per la Boldrini Montecitorio è il palcoscenico ideale, ha uno scranno bello alto e tutti gli altri sono sotto il controllo dei suoi occhi, arpioni di una baleniera atlantica. Il suo primo discorso alla Camera è la Polaroid di un mondo: “Arrivo a questo incarico dopo aver trascorso tanti anni a difendere e rappresentare i diritti degli ultimi in Italia e nel mondo”. Bello, ma da quel momento tutto è First Class e lei, Laura, non è più Laura, è un’altra. Sparisce la ragazza che sorride sulla copertina di Famiglia Cristiana. Compare l’austera e sofisticata lady sulla copertina di D, il settimanale femminile di Repubblica, dove posa con la malìa della femme de pouvoir: abito blu cobalto che si sposa con il lucido corvino della chioma non pettinata ma scolpita, gli orecchini che impreziosiscono i contorni del viso come gocce di pioggia dopo mezzanotte, il trucco che disegna le linee classiche del naso, il mascara che fa vibrare le pupille, il rossetto che accende le labbra. Signore e signori, è finito il freak, comincia lo chic. Ecco a voi la nuova Boldrini, titolata così: “Camera con Laura”, un calembour sul libro di E. M. Forster, l’allusione in celluloide, un personaggio che ha il tocco di James Ivory. Che eleganza, che splendore, che finezza. E voi dove siete, comuni mortali? Tutti ancora a cercarla sulle pagine dell’impegnato settimanale Left, mentre lei è già morbidamente atterrata nell’impaginato glam dei patinati femminili. Ella ha un altro palcoscenico, compagni.

 

[**Video_box_2**]Ad “Agorà” nell’aprile scorso Laura va in scena dopo la strage nel Canale di Sicilia. Sigla, partono i servizi, Gerry Greco conduce da par suo, Pablo Rojas dà numeri e cifre, e alle nove in punto, in collegamento, compare la presidente Boldrini, discorso dal maxischermo, un piedistallo in pixel. Qualche settimana dopo, il format cambia e gli ospiti di “Agorà Estate” traslocano, se levano proprio de torno va’, che non offuschino l’aurea persona, via le poltrone, resta lo sgabello, Serena Bortone la interroga sull’ultima fatica letteraria. E’ la terza carica dello stato, non può confondersi con altri soggetti, quella è roba da collettivo, una fissa da frikkettoni, meglio fuori dalla ggente. Il format ormai è collaudato e si ripete qualche giorno fa. Il palcoscenico è quello del “Martedì” di Giovanni Floris, comincia una nuova stagione, c’è Bersani, c’è il sindaco Marino, un pantheon anti-renziano, alè Giova e poi c’è lei, in piedi, che ride sulle battute del Crozza-Marino. Laura compare in studio, A-a-abbronzatissima! un’ambrata terza carica dello stato, dorée, scintillante per l’intervistona one to one, ha il passo pre-programmato, quando s’accomoda in poltrona è regina degli indivanados, giacca e pantalone grigio-ghiaccio lasciano che sia il volto a battere le ali, scocca il ventinovesimo minuto di trasmissione e tutto il problema dell’immigrazione, delle guerre, dell’accoglienza, dei profughi, diventa il galoppo di un’amazzone, spunta la questione escatologica del “problema europeo”, ormai si vola altissimo, si fanno grandi teorie orbitali e viene citato en passant “il pianeta terra”, e “questa è una realtà con cui dobbiamo fare i conti”, gli applausi scrosciano come l’acqua di un impianto di irrigazione a spruzzo (saranno in tutto dodici), e ci sono “diritti fondamentali” e “noi siamo bene in regola”, le labbra virano verso una declinazione di quasi-dolore, la narrazione sembra sciogliersi in pianto, siamo alla commozione (cerebrale), ma torna con forza l’onda d’urto della ragione cartesiana ed ecco affiorare come un sottomarino nucleare tra i ghiacci “il pacchetto”, la “logica”, e l’Ungheria del 1956, perché “oggi fa veramente male” e “non sono d’accordo Floris” perché qui la faccenda “non è tra buoni e cattivi”, ma bisogna “rispettare il diritto e la Costituzione”, evvài con il “bisogno del meglio” e no, eh, la politica da “studio televisivo” no. Floris prova a difendere la baracca catodica, ma niente da fare, Laura è un fiume in piena, fusione fredda di Podemos, quel che resta di Sel e Alexis Tsipras alla carbonara.

 

Per fortuna di Renzi non c’è lei alla presidenza del Senato. Perché se Grasso allude, Boldrini illude. A Montecitorio, sanno bene di cosa si tratta, un’ipnosi continua di discorsi, inaugurazioni, interviste, presenze calibrate, drink, foto e video archiviati nei server del Parlamento, i gigabyte della vanità, il big data della futilità. Mentre scrivo, Laura ha già superato il mio conteggio dell’opera omnia che era arrivato a quota 170 occasioni imperdibili, file cliccabili e indimenticabili. La realtà è inarrestabile, domani la Boldrini sarà alle 16 al concerto della banda dell’Esercito Italiano e un’ora dopo al concerto della pianista Luciana Canonico. Musica, maestro! Rulli di tamburo, trombe e melodie alle cinque della sera, mentre infuria la battaglia del Senato e là, a pochi metri da Montecitorio, c’è Palazzo Chigi e l’ombra del segretario fiorentino, Matteo Renzi e no, dai, l’ha detto anche Massimo D’Alema che “la scissione non ci sarà” e certo, vi capisco, Laura non era così, era diversa… e poi ha l’ambizione sfrenata di chi non ha partito, ma se l’avesse, il partito, una piccola armata… no, non succederà, lei, Laura, balla da sola. Ieri l’Onu, poi Sel, oggi la Presidenza e domani si vedrà. E’ l’ora del concerto, “le campane d’arsenico e il fumo / alle cinque della sera”. Laura prende il taxi, non bada al tassametro, scende a fine corsa e ne attende un altro. A non rivederci, boys. Senza una lacrima sul viso.

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