La regia di “Inside Out” è di Pete Docter, il genio che ha firmato anche “Monster & Co.” e “Up” e che qui lavora insieme a Ronnie Del Carmen

Cartoni con l'anima

Mariarosa Mancuso
Cinque emozioni (studiate da Darwin) si contendono il quadro comandi nella testa di una ragazzina (e di tutti noi). Ecco “Inside Out”, il nuovo film Pixar. Bellissimo.

E’ la Pixar, bellezza! La Pixar! E tu non ci puoi fare niente! Se non applaudire, e in casi estremi litigare: chi non va pazzo per un film come “Inside Out” – in sala dal 16 settembre – vuol dire che non ama il cinema. S’intende che la questione “Mi porti a vedere un film d’animazione? Senza neppure un bamboccino al seguito?” è già stata sbrigata in precedenza. Qualcuno lo faccia presente anche a Jovanotti, noi abbiamo fatto la nostra parte. Per tutta risposta ci siamo ritrovati a un concerto dove venivano proiettate sullo schermo le immagini di “Louisiana” di Roberto Minervini: un misto di ideologia e sgradevolezza (con uso di messaggio, beninteso) che si configura come l’esatto contrario del cinema.

 

Schiere di filosofi e scienziati (mettiamoci anche un certo numero di dilettanti allo sbaraglio) hanno cercato di capire come funziona la mente umana. Hanno cercato di scoprire cosa abbiamo dentro la testa, e perché – ma è solo un esempio – le malattie neurologiche sono tanto bizzarre da aver reso i casi clinici di Oliver Sacks (morto qualche giorno fa, sapere che non avremo altre di queste storie intristisce) molto più avvincenti dei romanzi sui brufoli e sulla prima fidanzatina che fatalmente cornifica. Hanno cercato di smontare i meccanismi preposti alla memoria, alle emozioni, alla personalità, ai sogni, alla concentrazione, alla distrazione, ai lapsus. Hanno cercato l’origine delle parole, delle emozioni, delle facce che facciamo quando siamo contenti o arrabbiati. Chi esaminava le bozze sul cranio, chi vantava le meraviglie della ghiandola pineale, chi immaginava omuncoli che correvano qua e là. Non è solo roba antica: un guida della psicoanalisi a fumetti mostrava un pilota nella testa di un uomo, e dentro la testa del pilota c’era un altro pilota, e l’altro pilota a sua volta aveva nella testa un altro pilota, in un regresso all’infinito (fu quello l’unico momento in cui afferrammo qualcosa di Jacques Lacan).

 

Che a svolgere il compito sia un film – targato appunto Pixar e diretto da Pete Docter, vale a dire il genio che aveva firmato “Monsters & Co” e “Up” (qui lavora insieme a Ronnie Del Carmen) – già sarebbe una notizia. Che sia riuscito benissimo nell’impresa, girando un film avvincente e movimentatissimo – azione nella testa di una ragazzina undicenne? Sicuro, e del resto anche “Interceptor” di Christopher Nolan metteva in scena i sogni come trame avventurose, non come immagini fuori fuoco con musica d’arpa per colona sonora – è una notizia ancora più interessante. Risultato: usciamo dal cinema e cominciamo a considerare in modo diverso quello che ci frulla in testa: umori, jingle, furori, brandelli di conversazione, idee fisse.

 

Possiamo considerare “Inside Out” il terzo radicale ribaltamento di prospettiva indotto dalla Pixar, che su queste giravolte costruisce i suoi film migliori (volendo tirarsela con gli studi, si potrebbe dire “cambiamento di paradigma”). “Toy Story” immaginava le crisi abbandoniche dei giocattoli terrorizzati dalle feste di Natale, dai compleanni, dai nuovi beniamini del padroncino che prima aveva occhi solo per loro. “Monsters & Co” raccontava i babau – da armadio o da sotto il letto – come creature fifone spaventate dai bambini. Pensare un mondo dove i dinosauri non si siano estinti, e uno di loro rimasto orfano faccia amicizia con un bambino sapiens, è una magnifica idea per un film – uscirà a novembre con il titolo “The Good Dinosaurus”, sempre Pixar. Ma certo non paragonabile, per audacia e fantasia, a un viaggio dentro la mente umana.

 

“Inside Out” racconta che nel cervello non abbiamo un meccanismo simile a un orologio. Neppure astratte circonvoluzioni o anonime sinapsi. Abbiamo personaggini – con spiccata personalità e abbigliamento adeguato – che stanno davanti a un quadro comandi, e se li contendono. Sono cinque: Gioia, Tristezza, Rabbia, Disgusto e Paura. Gioia ha dominato indisturbata le operazioni fin dalla nascita di Riley, ragazzina che gioca a hockey su ghiaccio e vive felice con i suoi genitori a Minneapolis. Lì la pizza è pizza, gustosa e grondante condimento. Non la pizza monogusto che vendono a San Francisco, dove Riley si è appena trasferita con i genitori: solo broccoli, prendere o lasciare. Disgusto, con il suo abitino verde acido, acchiappa i comandi rubandoli a Gioia, la serata è rovinata. Riley va a letto senza cena in un sacco a pelo buttato sul pavimento, il camion dei traslochi ha sbagliato città. Tristezza sgomita e conquista il suo momento.

 

Pare la versione sofisticata di “Viaggio allucinante”: il film di Richard Fleischer girato nel 1966 (dalla sceneggiatura Isaac Asimov ricavò un romanzo). I nostri eroi vengono miniaturizzati con il loro sottomarino e inviati nel sistema sanguigno di uno scienziato per rimuovere un embolo (devono riuscirci prima che le difese immunitarie aggrediscano il corpo estraneo). Con Charles Darwin a fare d’appoggio, grazie a uno studio intitolato “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (oltre che con le tartarughe delle Galapagos, il naturalista si dilettava con la psicologia sperimentale). Fotografie di gente arrabbiata, felice, disgustata, spaventata e triste, o anche colta di sorpresa: questa secondo Darwin era la sesta emozione primaria (a volerci ricamare sopra, lo spettatore la prova durante tutto il film). Per la cronaca: le emozioni prese in considerazione dalla Pixar erano all’inizio 27, le ultime a scomparire dal cast furono appunto Sorpresa, Fiducia, Orgoglio (manca Curiosità, che ci assale quando pensiamo alle riunioni di sceneggiatura, cosa non si farebbe per origliare almeno un po’).

 

Siccome alle fotografie di uomini e donne arrabbiati, tristi o felici, il teorico dell’origine della specie aggiunge foto di animali, possiamo considerarlo un padre nobile del fumetto Disney. A questo punto è anche difficile accusare il vecchio Walt di aver prestato a Bambi e ai coniglietti espressioni e sentimenti umani: tutto era già stato fatto, bastava andarlo a prendere là dove era, in un vecchio saggio. Risulta più originale, oltre che folle e superkitsch, il lavoro fatto con “Fantasia”: sovrapporre immagini alla musica (chi ha mai più sentito la Danza delle Ore di Ponchielli senza pensare alle ippopotame in tutù? chi ha mai più ascoltato “L’apprendista stregone” senza pensare al mago Topolino e alle sue scope portatrici d’acqua?).

 

“Inside Out” è un pozzo delle meraviglie anche quando ci allontaniamo dalla consolle dove le emozioni litigano. Ci sono le Isole della personalità, che restano salde – dovrebbero, almeno – e formano il carattere di Riley. Ci sono i ricordi della giornata, che la sera vengono selezionati: alcuni prenderanno posto nel magazzino della memoria a lungo termine, altri no. Ci sono i sogni e pensieri astratti, resi sullo schermo con rara genialità. Nei film Pixar si mostra tutto e non si spiega mai niente: rivedere per credere la sequenza di “Up” che racconta la vita di Ellie e Carl. Fidanzamento con picnic, due poltrone per leggere accanto al camino, il bambino tanto atteso che non arriva, la solita collinetta sempre più difficile da salire, il salvadanaio rotto non più per il viaggio esotico ma per la malattia, una poltrona che rimane vuota: commuove solo a rievocarla, figuriamoci a vederla.

 

“I lost my marbles” è un modo di dire che significa “essere fuori di testa” (“mancare di una rotella”, se vogliamo un’immagine più vivida). “Marbles”, di suo, starebbe per “biglie”. “Inside Out” illustra perfettamente la situazione: i ricordi giornalieri sono contenuti in biglie trasparenti, un po’ come le palle che se le rovesci nevica (dentro una palla con la neve stava il pinguino che in uno dei corti Pixar si innamora perdutamente della ballerina hawaiana, e cerca di spaccare il contenitore per raggiungerla). Vanno conservati stando bene attenti a che non li sfiori Tristezza: una grassona goffa, con il collo del maglione tirato su fin sotto gli occhi, occhialoni da miope. L’hanno disegnata a forma di lacrima rovesciata – non è gente che lascia nulla al caso – per questo ha la testa grande e i piedini minuscoli. Gioia, in particolare, sempre in movimento e agitata come certi animatori da villaggio turistico, la sgrida e le impone un cerchio da cui non uscire. Ovvio che Tristezza sia sempre più malinconica.

 

Dette le cose fondamentali – ce ne sarebbero altre, ma va preservato il piacere del film – osserviamo i progressi magnifici fatti dall’animazione al computer. Il primo film Pixar aveva per protagonista una lampada (la stessa che si ritrova al posto della “I” nel logo della ditta) e una palla: forme semplici, plasticose, senza riflessi. Poi sono arrivati i giocattoli, appena più complicati. Poi le pellicce dei mostri spaventa-bambini. Poi l’acqua trasperente con meduse in cui nuota il pesciolino Nemo (seguito in arrivo a giugno dell’anno prossimo, stavolta è “Alla ricerca di Dory”). Poi la spazzatura rugginosa. Poi la vecchiaia (sì, insomma, i capelli bianchi e gli occhiali non sono un gran progresso tecnico, ma provateci voi a raccontarla in un film che piace anche ai bambini, e che per eroi ha pensionato da panchina e uno scout modellato su Humpty-Dumpty, il personaggio a forma d’uovo di “Alice nel paese delle meraviglie”).

 

Rabbia è un signore squadrato, rosso, con la consistenza e la grana di una spugnetta. Come si fa a rendere palpabile una consistenza e una grana, avendo a disposizione uno schermo piatto? Si può, e va notato che per la nostra gioia “Inside Out” non è in 3D, diavoleria tecnica che stava diventando una iattura. Quando Rabbia si arrabbia e sbraita, la testolina della spugnetta si infiamma. Paura è un signore segaligno con il farfallino e il gilet di lana jacquard, uno di quelli che si vedevano guidare le utilitarie con il cappello in testa, prima che il cappello fosse segno di fighettismo hipster (vedere per credere “Quando eravamo giovani” di Noah Baumbach, raccoglie tutti i must). E a proposito di cappello, nel film ci sono due guardie carcerarie che giocano a fare “Aspettando Godot”. L’abitino di Gioia scintilla e il caschetto pure, come se fossero investiti dalla polvere di stelle. Il maglione bianco di Tristezza, a coste e con il collo alto da tirare su fino a naso, pare di toccarlo.

 

[**Video_box_2**]La stessa escalation – parlando di trame – è stata ben riassunta in un tweet: da “toys have feelings” a “feelings have feelings”, passando per “fishes have feelings” e “robots have feelings” (se ci atteniamo a Darwin, il ratto di “Ratatouille” non sarebbe una novità, in materia di sentimenti: in materia però di arte culinaria lo è, eccome). “Finding Emo”, diceva il titolo di un articolo sul Guardian, e un altro si interrogava sulle complicazioni del film: non sarà adatto più ai grandi che ai piccoli? Certo saranno i genitori, o almeno gli adulti, ad apprezzare la battuta finale, quando le Emozioni tornate in possesso del quadro comandi e ristabilito l’ordine – non è uno spoiler, bisogna vedere cosa si intende per ordine – si preparano ad affrontare il futuro: “Dodici anni, cosa potrà mai succedere a dodici anni? E cosa sarà mai questo tasto con su scritto ‘adolescenza’”?. Tutti d’accordo però sulla bellezza del film. Non esistono su Metacritic recensioni negative, e neppure quelle che si chiamano in gergo “mixed review”, che un po’ criticano e un po’ lodano.

 

Il successo fa da catalizzatore e attira le polemiche. Prima questione, letta sul Guardian. “Non è vero che le persone grasse sono tristi”, dice il titolo dell’articolo. Incredibile ma vero: il solito maniaco della correttezza politica ha visto la pinguedine azzurra di Tristezza, non ha capito che era una lacrima rovesciata, e ha gridato allo scandalo. Seconda questione: un’accusa di plagio. The Beano è un albo a fumetti per bambini, pubblicato in Inghilterra dalla fine degli anni Trenta. Dagli anni Sessanta, oltre al classico americano Dennis The Menace, pubblica una striscia chiamata “The Numskulls”, vale a dire “gli stupidi”. Le vignette mostrano lo spaccato di una testa, e dentro una serie di omini che sbrigano le faccende da dietro una scrivania (a volte litigando alla maniera degli impiegati nella serie “The Office”).

 

Orrore e raccapriccio: ma allora la Pixar ha copiato? Ha incassato finora 750 milioni di dollari nel mondo (a fronte di 175 milioni investiti, senza contare gli anni di lavoro) con un’idea non sua? Niente affatto. Se vogliamo cercare un precedente, lo troviamo nel cortometraggio Disney “Reason and Emotion”, girato nel 1943. E parte integrante del patrimonio aziendale: dal 2006 la Pixar Animation Studios appartiene alla Walt Disney Company. Mostra un neonato con un cavernicolo nella testa, che spinge la creatura a buttarsi giù dalle scale e a tirare la coda al gatto. Finché arriva la ragione vestita da governante. Passiamo all’uomo adulto: nella testa ha sempre il cavernicolo, che fischia a una signorina con il vestito e il rossetto rosso. Un signore più posato, sempre al posto di comando dietro agli occhi, gli fa un discorsetto su come si trattano le donne. Poi spunta Hitler, che fa appello al cavernicolo in noi. Era infatti un cortometraggio di propaganda, girato durante la guerra. Da allora le emozioni si sono ripulite e rimpannucciate.

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