Solo qualche nonno si scandalizzava perché Candy a diciotto anni aveva già avuto due fidanzati

Candy contro Peppa

Marianna Rizzini
I quarant’anni del cartone animato giapponese che non lesinava drammi o cattiverie e l’invasione soporifera della famiglia Pig. Fine anni Settanta, sbarco dei fumetti tv in cui tornano con gli interessi le antiche favole da cui il male non era bandito .

Candy Candy, il tragico e irresistibile fumetto-soap giapponese, compie quarant’anni. Lady Oscar, l’ancora più tragico e ancora più irresistibile fumetto-soap giapponese, li ha compiuti da poco. E anche se gli ex fan per lo più non se n’erano accorti, presi com’erano dalla vita pratica o, sul web, da notizie su minaccia-Isis, ripresa-Istat, impresentabili in lista e meduse giganti, a un certo punto è diventato palese il revival dei feuilleton a fumetti che hanno per protagoniste la ragazza tutta lentiggini che vuole fare la crocerossina (nel lavoro e quasi quasi anche in amore) e la donna-soldato tormentata alla corte di Francia (Oscar).  A sottolineare l’evento, due saggi (Ultra ed.), uno per “eroina”: “Candy Candy, l’eroina di una generazione” di Lidia Bachis e “Lady Oscar, l’eroina rivoluzionaria” di Valeria Arnaldi. Personaggi non convenzionali per l’epoca, e polpettoni-melodramma che andavano in onda in orario “per bambini”, ma senza preventivo passaggio nel bagno di bontà (qualche censura c’era stata, e anche un’interpellanza parlamentare contro gli “anime” giapponesi nel 1978, ma la storia non rassicurante di Candy e Oscar restava quella). Non erano favole in senso stretto, ma, come le favole non riviste e non corrette di ieri (fratelli Grimm, Charles Perrault), spiattellavano e non lesinavano, oltre ai sogni frustrati dei protagonisti, tutto il carico di angoscia, terrore, cattiverie, scenari orrorifici, voltafaccia, tradimenti, pianti e delusioni (con poche consolazioni). Ma erano tacitamente e preventivamente assolte da ogni possibile vera responsabilità di trauma nello sviluppo, quelle storie. Non si sentiva dire “creano turbamento” o “propongono modelli sbagliati”, se non sporadicamente da parte di qualche nonno scandalizzato da Candy che a diciotto anni aveva già avuto due fidanzati, uno platonico (Anthony), l’altro meno (Terence), e da Oscar androgina che fa innamorare le ignare donne che la credono uomo e si innamora di uomini che, credendola uomo, non la considerano – a parte il fedele André, vero amore, sbocciato per lui durante l’infanzia e per lei in punto di morte. Erano assolte di fatto, Candy e Oscar, vuoi per distrazione genitoriale vuoi perché non si vedeva poi tutto questo danno potenziale nella morale sottesa alle loro vicende. Le si considerava magari una versione trash, ma non così lontana come impianto, delle favole tradizionali con i buoni, i cattivi, le streghe, gli orchi, i traditori, il principe, il povero, il fortunato, lo stolto e l’intelligente, nel solco degli antenati illustri: i fratelli Grimm o Charles Perrault, per non dire de “Le mille e una notte”. Ed era un mondo favolistico in cui, alla fine, si stava a proprio agio: il cattivo imperversava, ma non trionfava, e se il buono non vinceva, qualcos’altro dava motivo d’esistere al tribolare del protagonista. Non per niente è il Giambattista Basile del “Cunto de li cunti” a fare da canovaccio al film di Matteo Garrone appena tornato, senza premi ma con onori, dal Festival di Cannes: film di archetipi, suggestioni e favole intrecciate, con tutti gli orchi, i mostri, i doppi, le paure ancestrali, i desideri proibiti, i boschi intricati, le fonti magiche, i castelli e le fanciulle perdute al posto giusto.

 

Eppure qualcosa rende amaro l’anniversario di Candy e Oscar nelle case dei nostalgici ex fruitori (prima ancora fruitori di “Geeg Robot d’acciaio” e “Heidi”, entrambi ascrivibili al filone “robot e orfanelli”, in cui annoverare anche il crepuscolare “Goldrake” e il lacrimevole “Dolce Remì”, non proprio improntati alla commedia). Qui e ora, infatti, ci si trova nel pieno dell’epoca “Peppa Pig”, dal nome della melensa maialina inglese con famiglia disegnata come nessuna famiglia sarà mai: serena la madre, sereno il padre, sereno il fratello, sereni il nonno, la nonna, l’amico, l’amica. Dramma a lieto fine? Per carità: “I bambini che guardano Peppa sono piccoli!” è la ragionevole obiezione che tuttavia non scioglie l’interrogativo: ma come abbiamo fatto, noi che non avevamo Peppa o altri cartoni “carini” e di calma piatta come “Postino Pat”, a crescere in mezzo a favole truculente e cartoni giapponesi psicologicamente borderline, senza per questo diventare serial-killer, damigelle eternamente ma infelicemente contese o cloni di Anna Karenina fuori tempo massimo?

 

Funzionava ancora, ai tempi di “Candy”, come baluardo al futuro dilagare di favole e cartoni talmente “buoni” da risultare non solo buonisti ma anche noiosi e inutili, il teorema di Bruno Bettelheim, psicoanalista e scrittore viennese, reduce dai campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, autore de “Il mondo incantato” nonché attore nel ruolo di se stesso in “Zelig” di Woody Allen. L’orrore delle favole, per Bettelheim, contrarissimo all’edulcorazione politicamente corretta di “Cappuccetto Rosso”, “Hänsel e Gretel” e “Barbablù”, era “il modo ideale per dare ordine alla casa interiore” del bambino. La paura di crescere, il terrore di perdere i genitori, i confitti interiori nascenti, il senso di inadeguatezza, le pulsioni contraddittorie che si affacciano verso la fine dell’infanzia, l’angoscia della solitudine e dell’inconoscibile, la soddisfazione del risultato: Bettelheim pensava che i mostri, le fattucchiere, le matrigne, i fratelli pluri-omicidi, i mariti-padrone, gli gnomi malvagi, le zie crudeli, le vecchiette antropofaghe, i rovi carnivori, gli abissi, i colossi anfibi, le prigioni segrete e i draghi a tre teste fossero indispensabili alla crescita, tappe di un viaggio di identificazione-catarsi. Viaggio terribile ma a lieto fine, capace di incutere paura calmando al tempo stesso la primissima, profonda e inevitabile ansia del vivere. Candy e Oscar sono arrivate dopo, con ambientazione apparentemente incongrua per il Giappone (la corte di Francia, il Michigan, la Londra dei college altolocati), ma nel solco della tradizione della favola che non ti risparmia niente. Apparentemente incongrua, la location, perché, scrive Valeria Arnaldi nel saggio su Lady Oscar, l“esoticità” corrispondeva a un momento preciso – presa di coscienza, ricerca di una nuova identità – nella storia del dopoguerra nipponico.

 

“Evviva, rieccole!”, hanno pensato comunque i nostalgici nell’apprendere la notizia del doppio anniversario, memori degli anni in cui, già adulti ma desiderosi di rivedere qualche puntata dei due polpettoni preferiti, erano rimasti a secco di “Candy-Candy”, a lungo non replicata causa diatriba legale sui diritti tra l’autrice dei testi e quella dei disegni (Kyoko Mizuki, anche conosciuta come Keiko Nagita, e Yumiko Igarashi). C’erano quelle immagini non dimenticate: la scalinata di un teatro e Candy che correva giù a perdifiato, inseguita dal grande amore impossibile Terence, attore cupissimo salvato da morte certa grazie al “generoso atto”, così si diceva, di tal Susanna, sua collega e spasimante non entusiasticamente corrisposta. C’era questa Susanna che, per proteggere Terence, veniva colpita al suo posto da un riflettore cadente sul palcoscenico, e rimaneva paralizzata e in sedia a rotelle per tutta la vita – la sedia a rotelle dev’essere un topos del fumetto giapponese, a pensarci ex post: già “Heidi”, orfana con il nonno sulle montagne svizzere e poi vittima dei rimproveri della tremenda istitutrice “signorina Rottermeier” in quel di Francoforte, aveva un’amica paralizzata di nome Clara.

 

Con Lady Oscar, poi, la drammaticità si faceva impensabile fin dalla sigla, con la canzone su quel “buon padre” che “voleva un maschietto” e con lei amazzone triste (nel libro della Arnaldi, Oscar viene anche paragonata a Giovanna D’Arco, a Brunilde la valchiria e alla Clorinda de “La Gerusalemme liberata”, bellissima e nascosta dall’armatura). Ma a otto anni non pareva neppure così strana questa Oscar che viveva tutta una vita da soldato con l’enorme tormento dell’identità negata, tra regine eterne adolescenti (Maria Antonietta), bellissimi aristocratici per cui sospirare in silenzio (il conte di Fersen) e compagni d’armi che soffrono (André). Questo passava il convento-tv, nei primi anni Ottanta, ai bambini usciti dalla sbornia di libri post sessantottini letti da genitori in linea con lo spirito del tempo: Gianni Rodari, e ancora Rodari e Rodari. Al massimo la Pimpa, qualche Snoopy o quelle storie di femminismo pacato della collana “Dalla parte delle bambine”, con l’elefantina che non voleva diventare rosa come le altre ma restare grigia – e capitava che qualche bambina, col tipico conformismo infantile, chiedesse: “Ma perché vuol restare grigia se tutte le amiche sono rosa?”. Poi forse i genitori, stufi di proibire giapponeserie televisive, hanno pensato che i figli fossero grandi abbastanza. Fatto sta che gli eserciti di bambini cresciuti a “no Barbie e no armi” – no bambole “capitalistiche”, no pistole, no fucili, quasi quasi neanche camion, considerati propedeutici alla prevaricazione stradale – si sono trovati da soli di fronte a quelle serie-tv animate, in cui il mondo abitato dal male, quello delle favole più antiche, tornava con gli interessi. Gli amici egoisti (Annie per Candy), l’orfanotrofio (la casa di Pony), le angherie (i fratelli Iriza e Neal) e il destino cinico e baro facevano dimenticare in un attimo gli scaffali della libreria in monocolore-Rodari.

 

[**Video_box_2**]E però oggi c’è Peppa. Più la si legge, più la si guarda, più si fatica a comprendere perché mai un testo per bambini debba arrivare, al massimo della complessità, a frasi del tipo: “Però, che sbadati… Nessuno si è ricordato di prendere il cesto del picnic!”, e perché mai l’episodio tal dei tali debba contemplare fiumi di frasi come “alla famiglia di Peppa piacciono molto le gite nel bosco” (variante, “le gite al mare” o “le gite in montagna”). Peppa non soffre, Peppa non lotta, Peppa non ha amici dispettosi. Peppa, se va male, si sporca di fango o si dimentica di mettere a posto qualcosa, ma tanto nessuno la rimprovera. Di problemi neanche l’ombra. Persino il capriccio sembra non esistere. Nel mondo di Peppa, roba che al confronto il mitico “Winnie Pooh”, cartone “buono” d’antan, pare storia complessa, sono tutti pacifici e tutti pronti a organizzare, in assenza di frenesia, attività che, viste in quest’ottica di perfezione asettica, fanno venire voglia di scappare sulla famosa isola deserta per riciclarsi come pescatori: la festicciola con nessuno escluso, il cambio-stanza con armadio già pronto, la giornata al museo con spiegazione preventiva ed esaustiva, la vacanzetta senza sforzo (al massimo si buca una gomma, che sarà mai) e naturalmente l’onnipresente pic-nic (anche le formiche nel loro piccolo banchettano, ma che sarà mai). Momento di massima tensione, la spesa al supermercato. Dove però Peppa e il fratellino George mai e poi mai si intestardiscono a voler comprare merendine gommose o bambole di plastica da tre euro vestite da ballo in maschera: i piccoli Pig scelgono verdure (biologiche, s’immagina) e mettono nel carrello proprio quello che serve a una tranquilla, soporifera favola della buonanotte (buona per far dormire i genitori, più che altro). Lunga vita a “Candy Candy”, si pensa, dopo aver rispolverato ad usum delphini, e in funzione d’antidoto, tutte le favole tradizionali, sforzandosi di raccontarle senza censurare, in preda alla sindrome da “Peppa Pig”, la parte in cui qualcuno si fa male, rimane male, viene abbandonato, tradito, o addirittura muore, magari, per poi resuscitare e trovare finalmente la felicità (anche Pinocchio sembra troppo duro, abituati a Peppa). Poi c’è la moderna teoria psicologica che dilaga in rete – il contrario di Bettelheim.

 

Digiti “Peppa Pig” ed esce la spiegazione razionale all’apparente nullità del plot. Ecco che cosa diceva, tempo fa, sul blog di psicologi di Luca Mazzucchelli, la psicologa dell’età evolutiva Claudia Soatto: “I disegni sono semplici, elementari, proprio come quelli dei bambini. Figure colorate… che sorridono sempre e mettono il volto dei personaggi in grande evidenza…E’ un cartone animato che rappresenta la quotidianità: l’asilo, il parco giochi con gli amici, è rassicurante. E lancia un importante messaggio educativo contro gli stereotipi di genere: la mamma lavora al computer, il papà prepara la cena, fa il bagnetto ai bambini…i genitori incoraggiano, assecondano e non puniscono…”. Sarà, ma la favola, e il fumettone televisivo, piaceva anche perché non rassicurava, e anzi a volte era fastidioso. C’era per esempio la stoica eroina della pallavolo Mimì Ayuhara, sempre giapponese, quella che sopportava allenamenti al limite della tortura pur di poter mandare a segno il colpo “goccia di ciclone”, e piangeva, cadeva, si rialzava, infine vinceva (non sempre). Ci si domandava “ma chi glielo fa fare?”, e in quel caso sì che se ne usciva rassicurati: “Non farò mai pallavolo”. E adesso che i quarant’anni di Candy Candy si abbattono su gente con immaginario ormai rassegnato alla mielosa piattezza delle favole, diventano oasi i “vintage” Barbapapà” e “Pimpa”, cartoni in cui tutti sono buoni, sì, ma almeno qualcosa di non quotidiano lo fanno: parlano con il vento, con gli oggetti e con le stelle (che rispondono), cambiano forma, si fanno portare ai Caraibi da un’onda incontrata per caso. Ci si rassegna a Peppa, rincuorati sotto sotto dal fatto che la favola “non solo buona” a volte si riaffacci, vuoi sotto forma di storia di Elsa, regina delle nevi dal cuore di ghiaccio (in “Frozen”, film in cui la suddetta regina deve imparare ad amare persino sua sorella, pena la trasformazione del fiordo in inferno di cristalli di neve) vuoi attraverso il volto spigoloso della Angelina Jolie di “Maleficent”, rovesciamento Disney della “Bella addormentata nel bosco”, in cui la ex cattiva Malefica è vittima di un cattivissimo re Stefano, padre della piccola Aurora anche pronto, in nome del potere, a tagliare le ali al suo primo amore (cioè Malefica: che a quel punto, non a torto, vuole vendicarsi).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.