“Trasparenza!”, dice il Cantone da Authority; “chiarezza sulle fondazioni della politica”. E la politica almeno a parole approva. E’ il gran ballo (d’immagine) del “mettici un magistrato”

Cantone il censore

Marianna Rizzini
Anticorruttore unico delle coscienze, pm emerito, scrittore e salvacondotto renziano. Ritratto di un potente.

Lo disegnano come un supereroe, Raffaele Cantone, già pm in zone di camorra, già scrittore di cose di camorra, già conferenziere nelle scuole per favorire il necessario “cambio di metalità” necessario all’Italia della camorra e (new entry anche letteraria) “degli intrallazzatori”, come dice lui, Cantone, superpresidente dell’Autorità Anticorruzione, la divinità antropomorfa cui affidare le sorti del paese sempre sospetto dell’Expo, del Giubileo e delle presunte mille piccole “nuove Tangentopoli”, con misteri di coop a Ischia e mafie capitali e conversazioni mazzettare (non sempre degne di nota) e contorno di non-reati che molto piacciono al pensiero indignato collettivo, pronto a scattare non appena, nell’intercettazione, compare l’orologio, il biglietto, il viaggetto (adesso persino il vino dei non indagati, e a loro volta indignati, coniugi D’Alema).

 

Lo disegnano come un supereroe, Cantone (all’Authority è stato messo da Matteo Renzi, ma già Enrico Letta l’aveva voluto nella task-force per la lotta alla criminalità organizzata) e, a livello subliminale, se non a livello di presentazioni libri e presenze tv, la cosa non sembra del tutto dispiacere al diretto interessato, per quanto poi lo stesso si schermisca e si racconti come uno che non ha mai amato essere “visibile”. (Non molto creduto, Cantone si è sempre professato “timido” – chissà). Lo metterebbero ovunque, il supereroe anticorruttore Cantone: ogni volta che si libera una poltrona, nel Pd di governo sembra scattare quel pensiero (“mettiamoci Cantone, mettiamoci Cantone!”), nome chiave per una preventiva mondatura d’immagine nel mondo politico sensibile al mugugnare che sale dal web (“al ladro, al ladro!”, è il tweet che sempre spunta al primo fremito di procura). E allora pensiamoci prima, mettiamoci Cantone, tantopiù che Cantone ha appena dato alle stampe il libro intervista scritto con Gianluca Di Feo, “Il male italiano” (Rizzoli), e in copertina c’è anche la barra nera che cancella la parola “male”, a simboleggiare il wishful thinking del manifesto cantoniano: non è un peccato veniale, la corruzione, serve una “rivoluzione” di mentalità. E però Raffaele Cantone da Napoli, cresciuto a Giugliano, zona di camorra in cui l’allora pm ha lavorato in funzione anti-camorra, del supereroe ha più che altro il lato “in borghese”, corretto in senso assertivo: è sempre Clark Kent prima di essere Superman e Peter Parker prima di essere Spiderman, ma con una vena di consapevolezza che gli impacciati Kent e Parker non avevano. Lui, Cantone, è quello che nell’autobiografia “Solo per giustizia”, uscita per Mondadori nel 2008, finisce l’università a “neanche a 23 anni”, così scrive, e vuole fare l’avvocato penalista, inizialmente, ma quando vede che deve difendere degli strani figuri in strani casi in cui due mezzi-colpevoli diventano, alla sbarra, due mezzi-innocenti, allora no. Allora gli arriva la crisi: lui, Cantone, non ce la fa “a sostenere una tesi contro la propria coscienza”. E a quel punto capisce, il ragazzo-avvocato di Giugliano, che a Giugliano deve tornare, ma come magistrato-investigatore.

 

Per quanto si spulci tra le pagine della sua autobiografia, dunque, non si troverà traccia di eccessiva modestia: il goffo Peter Parker impallidirebbe di fronte alla pur legittima, ed evidentissima, sicurezza del Cantone, l’uomo cui tutti gli appuntati e i collaboratori regalano, al momento del commiato, scudetti decorativi (“crest”) per testimoniare la grande stima, in nome delle battaglie pro trasparenza condotte in ambienti di malavita (cavallo di battaglia anche oggi in tv, la trasparenza, per Cantone, come domenica scorsa a “In mezz’ora”). Si apprende poi che, da ragazzo, Cantone già sapeva di voler fare il lavoro “in cui il piacere di svolgerlo è lenimento alla fatica” (se Peter Parker era secchione, Cantone è oltre qualsiasi secchionaggine: uno che si lega alla sedia peggio dell’Alfieri). Non c’era professione migliore, dunque, per lui, di quella del magistrato che giorno e notte si butta sugli interrogatori dei pentiti e scrive e legge carte, decine di faldoni, faldoni ovunque, nell’intento di sconfiggere o quantomeno indebolire i clan della Campania infelix. E meno male che Giovanni Falcone aveva sollevato il problema della comunicazione tra procure, scrive Cantone definendosi un “pro-Falcone” quando molti non lo erano: solo “comunicando” ha potuto portare all’ergastolo alcuni importanti capi camorristi come Francesco Schiavone detto “Sandokan”, Francesco Bidognetti (“Cicciotto e’ Mezzanott”), Walter Schiavone alias “Walterino” e Augusto La Torre, il pentito che più l’ha fatto tribolare (ché non pareva davvero pentito). Ed è qui che l’epopea del supereroe Cantone si salda con quella dell’altro enfant prodige dell’invettiva anti-malaffare: Roberto Saviano. Qui che sorge un dubbio: ha dato più luce Saviano a Cantone o Cantone a Saviano? I due, infatti, appaiono indissolubilmente legati sulla ribalta: appartengono allo stesso mondo (mediatico) degli “elenchi” di Fabio Fazio, con la buona coscienza collettiva che chiede giustizia, ci mancherebbe, ma con quel surplus di veemenza che a volte, specie su Twitter, fa strabuzzare gli occhi (Saviano nei tweet è solenne anche quando guarda fuori dal finestrino in autostrada, e meno male che ora la star di “Gomorra” è in predicato per una più rilassata rubrica video ad “Amici”).

 

E non se ne esce: Cantone in “Solo per giustizia” racconta di aver fatto, in giorni lontani, una lunga chiacchierata con quel giovane giornalista che poi si rivelerà essere Saviano, uno che, scrive pieno di ammirazione il magistrato, aveva avuto il coraggio di pronunciare in piazza, a Casal di Principe (nome non-omen), i nomi dei boss. E però Saviano aveva messo in quel suo libro così di successo, “Gomorra”, i personaggi delle inchieste di Cantone, e tutto il “clamore mediatico” scatenatosi con il libro di Saviano aveva dato risalto al lavoro di Cantone, ed era, dice Cantone, il primo possibile passo della indispensabile “battaglia culturale”, la stessa che il presidente dell’Anticorruzione ha fatto nelle scuole – e una volta è capitato in un istituto dove il figlio di un boss, indentificabile innanzitutto dai vestiti e dagli occhiali firmati, sembrava avere il potere di intimidire i compagni, secondo Cantone sinceramente interessati a riflettere sulla domanda: “Ma che vita è, quella del boss?” (vita spesso “sottoterra”, vita che non si gode la ricchezza illegalmente ottenuta, vita magari finita presto, come spesso capita ai pesci piccoli “lasciati a terra”: questo diceva Cantone agli studenti. Ma se il figlio del boss rientrava in aula, nessuno aveva più il coraggio di rispondere).

 

Saviano&Cantone, Cantone&Saviano procedevano affiancati, come concorrenti unici di un reality (i due fratelli, le due sorelle, la coppia anti-camorra e pro-trasparenza), solo che il reality, nel loro caso, era la giornata sotto scorta in cui il massimo del possibile tempo solitario era andare a buttare la spazzatura in cortile, sorvegliati a distanza da una volante. Cantone ci era abituato, gli dispiaceva più che altro per moglie e figli, ma provava tenerezza per “quel ragazzo” (Saviano) cui era stata “sconvolta” la realtà di neanche trentenne: ne nacque un’amicizia, cementata da quella che Cantone pare descrivere come insofferenza di entrambi al suddetto “clamore mediatico”. Fatto sta che entrambi sono diventati stelle della tv e dell’editoria e pure della politica, anche se in forma indiretta: ci fu chi, in anni ferocemente “NoB.” e in mancanza di volto vincente, sognò a sinistra un Saviano candidato premier, e c’è chi ora sogna Cantone non soltanto anticorruttore unico delle coscienze, ma pure ministro (per la premiership chissà, forse i tempi non sono maturi, ma prima o poi qualche sondaggio web potrebbe incoronarlo). E però Cantone, dopo quasi otto anni alla Direzione distrettuale antimafia, dopo un passaggio al Massimario della Cassazione, e dopo aver sperato di tornare pm a Napoli (tutto sfumato per un soffio), a volte smentisce la sua allure da magistrato-testimonial, buono per ogni causa ospitata sotto il tendone del circo mediatico. Di Tangentopoli, per esempio, Cantone ha criticato il “clima di terrore” e la “moralizzazione per via repressiva”. E quando per strada gli dicono “arrestali tutti”, dice di sentirsi “a disagio” e di pensare a “quanto sia difficile far ragionare la pancia delle persone” senza “farsi prendere dall’emotività”. Nei suoi libri, poi, Cantone cerca di apparire un pm “cauto”: racconta l’aneddoto del suo maestro in procura, il pm Armando D’Alterio, che una volta costrinse uno stimato carabiniere ad arrendersi all’evidenza di un arresto fatto troppo frettolosamente e con la sicurezza di essere nel giusto. “Il pm non è la cinghia di tramissione di ciò che chiede la polizia giudiziaria”, e deve “mantenere sempre un occhio vigile”, diceva D’Alterio (e Cantone ne restò colpito al punto da dismettere i modi da aspirante magistrato-sbirro che a volte aveva vestito, magari imitando colleghi più esperti, e sposò quella massima per i giorni a venire).

 

[**Video_box_2**]Dei suoi “giorni in procura”, a Cantone rimane il ricordo: era quello per lui l’Eden, nonostante “lo stremo”. Ora il volto dell’Anticorruttore appare su La7 per parlare di legge sugli appalti (“è lì che si annida il malaffare”, dice) e di “rotazione” negli incarichi, accorgimento che a suo avviso si dovrebbe adottare per far sì che l’uscita dal sistema delle corruttele diventi più in fretta possibile “la normalità”.

 

Eppure Cantone è diventato Cantone anche per via di quel racconto (il suo) sulla vita del giovane magistrato in trincea, quello che all’inizio non viene prese sul serio dai colleghi più anziani (la rottamazione, come concetto, era ancora di là da venire) ma che poi inchioda l’osso duro, il pentito-non pentito La Torre, l’uomo che chiede di poter essere interrogato dal pm quasi a volerlo studiare, scrutare, interrogare lui stesso: l’uomo che per apparire attendibile descrive con incredibile freddezza, dopo essersi iscritto in carcere a Psicologia, tutta la teoria di omicidi da lui commessi: la volta in cui il sangue dell’assassinato zampillò fuori dalla tempia, la volta in cui il morto venne infilzato con centinaia di siringhe (mònito per le beghe sul narcotraffico), e quella volta in cui lui, La Torre, fece ritrovare ben tre cadaveri in un pozzo. Ma si percepiva come un doppio fondo di non-verità, nelle sue dichiarazioni. Infine il il pentito, rinnegato all’apparenza dai parenti, ed effettivamente accusatore di quadri intermedi, si rivelò ancora operativo nella camorra, dopo aver nascosto agli inquirenti i nomi degli imprenditori collusi con cui continuava a mantenere contatti, da dietro le sbarre, attraverso un sistema di messaggi in codice diramati affinando la mimica facciale, durante i colloqui con i congiunti.

 

Tra computer e telefonini non “smart” (non siamo in “1992”, la serie tv di Sky Atlantic, ma anche i libri di Cantone pullulano di oggetti di modernariato), il giovane Cantone apprendista si trovò a un certo punto a dover moderare la propria ambizione, seppure sollevato di aver potuto abbandonare, grazie al buon posizionamento al concorso in magistratura, il precedente impiego presso l’Inail. Non c’erano ancora boss da interrogare, all’orizzonte, ma potevano capitare incredibili casi di ricettazione, e un giorno, durante una festa in un sontuoso giardino napoletano, nella dimora di un noto imprenditore, il direttore del Museo archeologico, che era tra gli invitati, notò una statua romana molto simile a quella che aveva nel suo museo. Incuriosito, pensando a una copia ben fatta, il direttore del Museo aveva, con grandi sforzi, fatto sollevare la statua, e aveva scoperto che era proprio quella del museo, uscita dal museo alla luce del sole, non si sa come. Ma Cantone ci stava stretto, in quei casi. Voleva arrivare dietro ai cancelli delle ville alla “Scarface” sul litorale, ville pacchiane che appaiono in “Reality”, il film di Matteo Garrone, o nei bar dove l’unica testimone disposta a parlare dopo un omicidio deve essere protetta dalla sanzione sociale di chi vuol restare omertoso oltreché dal rischio-ammazzamento. “Mai lasciar entrare durante l’indagine l’emozione o la rabbia”, avevano detto i pm più anziani a Cantone, che a casa aveva moglie e figli cui non riusciva a evitare una vita da “diversi” sotto scorta. A differenza dei vari Peter Parker, alter-ego in incognito di supereroe, il Cantone-pm alla famiglia non si è mai nascosto (“il mestiere di papà è questo”, era più o meno la frase). Poi il non nascondersi è diventato motto per l’altrui vita pubblica: “Trasparenza!”, dice, “e chiarezza sulle fondazioni della politica”. E la politica, almeno a parole, approva. E’ il gran ballo (d’immagine) del “mettici un magistrato”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.