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Editoriali

Il giusto “sì” dei penalisti al referendum

Redazione

L’Associazione tra gli studiosi del processo penale commenta la riforma che migliora la qualità del “giusto processo”. La terzietà, dicono i giuristi, deve essere scritta nelle regole e eliminare anche l’ombra del sospetto che chi giudica e chi accusa possano condividere percorsi, interessi o prospettive di carriera

C’è un pezzo importante della comunità scientifica italiana che ha deciso di esporsi in un momento in cui tutto, attorno alla riforma costituzionale sulla giustizia, viene letto con la lente della polemica politica. L’Associazione tra gli studiosi del processo penale, che riunisce alcuni tra i maggiori giuristi accademici del paese, ha scelto una strada diversa: valutare la riforma non per ciò che potrebbe rappresentare nello scontro tra schieramenti, ma per ciò che concretamente offre al funzionamento del processo penale. Il cuore del ragionamento è semplice: l’imparzialità del giudice è il fondamento del giusto processo. Non un valore tra gli altri, ma il valore che regge tutto il resto.

Se questa imparzialità viene messa in dubbio l’intero edificio della giustizia si indebolisce. E il sistema italiano, ricordano gli studiosi, vive da decenni in una zona grigia: da una parte un processo accusatorio che richiede ruoli nettamente separati; dall’altra un ordinamento giudiziario che mantiene giudici e pubblici ministeri dentro lo stesso corpo, con carriere parallele e un comune organo di governo.  Per gli studiosi, questa ambiguità ha prodotto nel tempo distorsioni ben note a chi frequenta le aule di giustizia: atti d’indagine dell’accusa trattati quasi come prove, consulenti del pubblico ministero percepiti come più autorevoli perché emanazione di un organo considerato “non di parte”, teorie processuali che hanno finito per limitare i diritti della difesa.

Non sono colpe individuali, ma il prodotto di un sistema che non ha mai completato il salto culturale richiesto dal nuovo modello accusatorio. La riforma interviene qui. E secondo l’Associazione lo fa nella direzione giusta: separare sul piano ordinamentale giudici e pubblici ministeri non significa punire qualcuno, né avvantaggiare qualcun altro, ma rafforzare la credibilità del giudice. La terzietà, dicono i giuristi, non può essere affidata solo alla virtù personale o ai rimedi a posteriori. Deve essere scritta nelle regole e eliminare anche l’ombra del sospetto che chi giudica e chi accusa possano condividere percorsi, interessi o prospettive di carriera. Ben fatto.

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