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il risanamento culturale che serve al nostro sistema giudiziario
Arringa per una riforma della giustizia
Errori, orrori della gogna mediatica, tempi infiniti: è la collaudata inefficienza della giustizia in Italia. Urgono correttivi: bene la separazione delle carriere, per dar vita finalmente al giusto processo, poi servirà un argine al circo mediatico-giudiziario. Il controcanto di un ex magistrato
E’ indiscusso e credo indiscutibile, notorio da sempre e dappertutto che funzionamento della magistratura e convivenza civile sono tanto interdipendenti da poter esistere solo in simbiosi. Il tributo di sangue e la gratitudine che li lega ne sono conferma. Dispiace scriverlo – ma devo farlo, spinto da un incommensurabile rispetto e amore verso la Giustizia – che è altrettanto risaputo – lo confermano pressoché quotidiani sondaggi, per quanto possano valere – che credibilità e autorevolezza del giudice, condizioni necessarie per formulazione e accettazione di qualsiasi giudizio, nel nostro paese sono in continuo calo. Non per caso o per sfortunata congiuntura ma per lentezza e inconcludenza di tutto il sistema giustizia, una ormai… collaudata inefficienza, sempre più strutturale, perniciosa, tragica e preoccupante che pare giunta ormai al colmo. Così profonda da apparire quasi irrimediabile, vicina a un punto di non ritorno. Così reale da far correre rischi sempre più concreti al paese, per quella solita ragione… la magistratura ha ragione di esistere non per far del bene ai giudici stipendiandoli ma ne cives ad arma veniant… che vuol dire… affinché si possano accertare e punire tempestivamente le responsabilità, siano pure segrete o deviate, e non ci si faccia giustizia da soli o con l’aiuto del padrino di turno. Un’inefficienza, ancora, così preoccupante da richiamare alla mente Giovanni Falcone quando avvertiva, severamente, che l’irrinunciabile valore di autonomia e indipendenza dei magistrati tutti, ossia di giudici e pm, non è compreso dai cittadini e diventa privilegio di casta se non coniugato all’efficienza.
E’ lecito ritenere che una lentezza che possa durare anche decenni (di pochi giorni fa la strombazzata notizia di un ordine di carcerazione disposto ed eseguito, tra lo stupore del condannato rieducando e dei suoi famigliari, per fatti bagatellari di una ventina di anni prima) di fatto costituisca, in qualsiasi procedimento di qualsiasi paese, sostanziale rifiuto di giustizia e riporti alla memoria il far west o qualcosa di simile? O forse esageriamo e scriviamo tutto ciò perché siamo i soliti scassaombrelli? Questa volta anche un po’ insensati, visto che – a pensarci bene – se in molti sono contrari alla riforma in corso, compresa la stragrande maggioranza dei magistrati, potrebbero davvero essere costoro ad avere ragione – e conseguentemente noi torto – nell’apprezzare e difendere lo status quo del sistema giustizia! Nel ritenere che la giurisdizione così come è non avrebbe bisogno di riforme – guai a toccarla, quieta non movere o squadra vincente non si cambia – in quanto rappresenterebbe il massimo possibile di efficienza per il nostro paese! Potrebbero aver ragione quando difendono la cultura della giurisdizione, cui oggi apparterrebbe anche il pubblico ministero, senza invece pretendere per tutti la cultura del diritto? Un abbaglio il nostro?!
Naturalmente si sta scherzando! Basta tener di conto: 1) sia i tempi infiniti dei procedimenti (civili e penali); sia le indagini eterne che – non di rado con strascichi suicidari – a cavallo di decenni saltellano disinvoltamente da una ipotesi all’altra pur di non archiviare per insostenibilità dell’accusa in giudizio o, forse, pur di non affrontare gli affari correnti e l’ansiogeno arretrato chiuso negli armadi; sia il fatto che solo l’obbrobriosa garrota mediatica sia solerte e rapida; 2) la percentuale di assoluzioni (40 per cento circa) dopo anni di penoso circuito giudiziario; 3) la percentuale dei ristretti in custodia cautelare in carcere (mediamente poco meno di un terzo dei detenuti totali); 4) il numero – circa mille all’anno – delle riparazioni per ingiusta detenzione (art. 314, 315 cpp) e quello, per fortuna più modesto, di riparazione degli errori giudiziari (art. 643 ss cpp). Crediamo che tutto ciò basti e avanzi per ritenere l’assoluta necessità di una riforma urgente e radicale del sistema giustizia, con perentorio bando alle riformicchie.
Per piacere, signori magistrati et ceteri oppositori, approfittiamo del coraggioso Nordio e dell’occasione della riforma in cantiere per non andare a fondo! Vi ho sentito dire che la separazione delle carriere non è richiesta dalla gente ma corrisponderebbe al disegno politico di indebolire il potere giudiziario e il suo organo di autogoverno e di tenere il pm sotto controllo.
Sotto il codice Vassalli-Pisapia del 1989 l’inefficienza della giustizia perdura. Perché quel codice è assolutamente incompatibile con un bradisistema giustizia come il nostro che bizantineggiando riesce per stranota tradizione a rinviare a giudizio solo dopo anni dal fatto. Gli errori giudiziari hanno continuato a susseguirsi regolarmente, anzi spesso a incalzarsi. E oggi le ore necessarie per lo sputtanamento mediatico di una vita sono sempre meno, mentre sempre di più e sempre più incerti gli anni per una riabilitazione da assoluzione giudiziaria
Lo ripetete dimenticando che la “gente” si è già vibratamente espressa con il fatto concludente del calo di fiducia nell’attuale sistema. Lo ripetete non considerando che la separazione non potrebbe che elevare sensibilmente la qualità della giurisdizione, a beneficio di quella che chiamate “gente”, visto che comporterebbe, immancabilmente, aumento di specializzazione, di responsabilità e di rispetto per le rispettive culture oltre che scomparsa sia delle suggestioni da convivenza e familiarità sia degli appiattimenti, naturali e istintivi, da vincoli di carriera. Di certo non risolverebbe con bacchetta magica la vergogna mediatica o la lentezza da bradipo – per codesti problemi occorreranno altri interventi specifici – ma costituirebbe il primo grande ineludibile passo, quello che – si consiglia la rilettura delle osservazioni di Calamandrei e Grassi sulla compromissoria formulazione degli articoli 101, 107 ultimo comma della Costituzione – sarebbe stato necessario fare in sede costituente. Per il semplice fatto che la separazione delle carriere attiene all’impostazione delle basi, a una predisposizione delle fondamenta che andava pre-parata decenni fa, cioè prima di costringere il nuovo codice, tendenzialmente accusatorio, a destreggiarsi nel vecchio apparato, ansimando tra lentezze ed errori sulla pelle della gente. Senza entrare nel merito, gentili signori del No, ripetete da sempre che un pm fuori dalla giurisdizione perderebbe la sua indipendenza e finirebbe inevitabilmente nella sfera dell’esecutivo, con ciò confermando di non avere neanche letto la riformulazione dell’art. 104 della Costituzione. E ripetete, pappagallescamente se mi consentite… altrimenti ritiro, che queste idee sono figlie di noti massoni e politici pregiudicati, mentre con un minimo di obiettività potreste ricordare che la separazione delle carriere era auspicata, tra i tanti, dal costituente Piero Calamandrei e, più di recente, da Giovanni Falcone e dallo stesso Pisapia. E potreste non dimenticare, ex adverso, il guardasigilli fascista Dino Grandi e i suoi argomenti contro la separazione delle carriere.
Eppure nessuno dovrebbe avere dubbi su questa riforma alla luce dei catastrofici risultati… del collaudo subito obtorto collo e ancora in corso. Perché di collaudo si è trattato, reso necessario dall’impreparazione a un sovvertimento giudiziario quasi radicale. Collaudo tanto accurato e importante da essere durato poco meno di quaranta anni.
Quando nel giugno 1987 Enzo Tortora venne definitivamente assolto, dopo anni di supplizi, il presidente pro tempore dell’Associazione nazionale magistrati giustamente si sentì in obbligo di tranquillizzare l’opinione pubblica: colpa del vigente fascista codice Rocco, inquisitorio e per niente garantista; con il nuovo codice Vassalli-Pisapia, di stampo accusatorio e che tra poco entrerà in vigore, si cambia musica, disse, ogni prova sarà oro colato! prevede l’acquisizione delle prove non più nella tetra e isolata stanzetta della polizia giudiziaria o del pubblico ministero o del giudice istruttore, con i soggetti alla mercé di disinvolti inquirenti dediti soprattutto a verificare e rimpinguare i sospetti, ma solo nel trasparente contraddittorio tra le parti in una radiosa aula dibattimentale, in udienza pubblica cioè davanti a tutti e sotto l’attento controllo incrociato di pm e difensori! Basta, gli errori giudiziari non potranno più accadere. Pressappoco queste le sue parole, il senso tutto.
Profezia declamata sicuramente in buona fede ma fasulla che più fasulla non si può. Perché sotto il codice Vassalli-Pisapia, entrato in vigore due anni dopo, nel 1989, l’inefficienza della giustizia perdurò e ancora perdura; nulla è cambiato in meglio, lo evidenziano le dettagliate statistiche ministeriali, il giudizio unanime di chi ha vissuto esperienze del genere, addirittura quell’articolo 55 del dl 83 del 2012, la cosiddetta legge Pinto al quadrato, che ci ha reso famosi e commiserati in tutto il mondo. E’ un fatto, sempre più spesso si sente dire e si legge che per l’opinione pubblica la lentezza del sistema sarebbe un cancro sociale, che rivolgersi alla giustizia non servirebbe a nulla, che l’eventuale risposta dopo anni o decenni sarebbe utile solo agli archivi e non alla vita.
A voler essere precisi perdurò e perdura l’inefficienza per la ragione lapalissiana che il codice 1989, forse valido per i pragmatici paesi di common law, è assolutamente incompatibile – e già allora i soloni avrebbero dovuto prevederlo – con un bradisistema giustizia come il nostro che – davvero non di rado – bizantineggiando riesce per stranota tradizione a rinviare a giudizio solo dopo anni dal fatto, a dibattere nel contraddittorio tra le parti dopo qualche anno in più e dunque quando tutto è stemperato in appannati ricordi, infine – ma solo qualche volta – a sfornare un senile giudicato… rieducativo ex art. 27 della Costituzione… ma non troppo… per qualcuno che, per il brandello di vita nel frattempo trascorso, non è più il deviante autore del crimine giudicato ma qualcos’altro. Ecco perché gli errori giudiziari hanno continuato a susseguirsi regolarmente anzi spesso a incalzarsi (ex multis Giuseppe Gulotta, Michele Padovano, Pietro Paolo Melis, Pietro Pacciani, Beniamino Zuncheddu, Stefano Binda, trascurando per galateo quelli per i quali da qualche mese si accapigliano nei talk-show), ecco perché il sistema giustizia non solo è rimasto decotto come prima ma, non bastasse, al fine di autocertificarsi esistente e presente… in vita, negli ultimi anni purtroppo si è perfezionato; in modo poco edificante, a dire il vero, affinando sapientemente tutto ciò che, essendo di natura sommaria e dunque motivabile anche a spanne ossia con approssimazione, non pretende professionalità e impegno particolari, ossia cautelare, prevenzione, sicurezza e, innanzitutto, i vergognosi meccanismi del circo mediatico giudiziario; per chiarezza e precisione oggi le ore necessarie per lo sputtanamento mediatico di una vita sono sempre meno, mentre sempre di più e sempre più incerti gli anni per una riabilitazione da assoluzione giudiziaria.
E’ davvero temerario sostenere che l’inadeguata specializzazione, conseguenza naturale di una carriera indifferenziata, possa aver concorso a tutto ciò quantomeno… dall’interno?
Lo si sa, è molto più semplice scrivere che organizzare. Quando nel 1989 si cambiò il codice di procedura penale 1930 – da inquisitorio ad accusatorio, almeno tendenzialmente – pensarono abbastanza alle norme portanti ma trascurarono molto l’importanza di cultura e apparati. Come se dal gioco di briscola fossero passati al bridge senza cambiare tipo di carte e di contesto. Introdussero, tra squilli di tromba, la centralità dell’acquisizione delle prove nella dialettica dibattimentale, ossia nello scontro tra due parti, pm e difensore, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Ma, a differenza di tutti gli altri paesi con sistema accusatorio, si dimenticarono un corollario portante, ossia di separare la carriera del giudice da quella del pm. In tal modo lasciando che il grintoso titolare dell’interesse punitivo dello Stato continuasse a coabitare nello stesso appartamento del serafico imperturbabile giudice, nella stanza accanto… in comune cucina, bagno e donna delle pulizie… “come parenti” dopo un po’ avrebbe detto Giovanni Falcone. Stessa carriera nelle stesse stanzette degli stessi edifici in cui da sempre avevano esercitato e coltivato il rito inquisitorio, con il giudice che continua a giudicare l’operato del collega pm e qualche volta, come vedremo, gli dà consigli.
Per comprendere fino in fondo le dimensioni della frettolosa faciloneria con cui venne sostituito il vecchio codice Rocco con quello attuale, di cui il sistema è poi rimasto vittima, basta considerare, ad esempio, che ben 10 anni dopo (Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2) si rese necessario regolare costituzionalmente il cosiddetto giusto processo mediante l’integrazione dell’art. 111 Costituzione.
All’epoca delle discussioni sull’imminente nuovo codice Vassalli-Pisapia non erano nemmeno immaginabili le attuali degenerazioni in barba alla “verginità” del giudice, con le informazioni mediatiche, via talk-show, a disposizione di tutti già prima del dibattimento. Perché il giusto processo finalmente decolli deve cessare la convivenza tra pm e giudici
Basta andare a leggere, ancora ad esempio, l’articolo 34 cpp dove, in calce, si troveranno annotati gli infiniti interventi della Consulta per ovviare a vistose incompatibilità mai neanche immaginate da Vassalli e Pisapia durante la redazione del codice. Oppure le innumerevoli modifiche, le sostanziali integrazioni, le necessarie precisazioni per consentire, ancora ad esempio, che i procedimenti speciali del rito abbreviato e del patteggiamento divenissero tanto appetibili da indurre i privati interessati a rinunciare, a cosa? nientepopodimeno che al dibattimento, cioè alle garanzie di quell’ormai mitico dibattimento considerato fulcro e anima e motivo della sconvolgente ed epocale riforma.
Tutto da ridere a noi pare, signori oppositori, il non voler fare il primo ineludibile passo e voler così difendere lo status quo, costi quel che costi. Indifferenti al processo di polizia imperante da anni. Ricordo le discussioni sull’imminente “nuovo codice” e sulla discovery, suggestiva parola… americana, affatto misteriosa per i magistrati italiani di allora. Se la prova deve essere formata solo in dibattimento, libera da qualsiasi pre-giudizio – si diceva per spiegare le novità del codice di rito – il giudice fino all’apertura del dibattimento nulla deve sapere dei fatti – non sia mai – ma essere e restare vergine e olimpico in attesa della celebrazione del rito che, quasi messa cantata ad opera delle parti, si sta per svolgere sotto i suoi occhi. Verginità a dir il vero imprevedibile per varie ragioni, non ultima la parentela tra i magistrati e… bagno e cucina in comune. Chi poteva comunque sospettare cosa sarebbe accaduto? Non erano neanche immaginabili gli snaturanti stravolgimenti e le attuali degenerazioni in barba a codeste verginità e discovery; ci riferiamo – scusandoci per l’eccesso di superlativi, peraltro necessario alla fedeltà dell’assunto – alle fonti di informazioni mediatiche, a impudica e spesso illegale disposizione di tutti già prima del dibattimento, compreso il giudice olimpico nonché vergine per dovere d’ufficio; ossia ai talk-show informatissimi e martellanti, agli schieramenti contrapposti, aggiornatissimi e sovente beceri di opinionisti di ogni conio, alle didascaliche miriadi di criminologi e criminologhe, alle girandole di documenti secretatissimi e no, ai dettagliatissimi libri addirittura scritti e pubblicati in vista dell’incombente dibattimento, come ad esempio accadde prima del dibattimento a Venezia per il cosiddetto processo Mose; con l’esilarante conseguenza che, siccome ormai tutti sapevano tutto dei complessi crimini da giudicare, relativi alle dighe, alla faccia delle previsioni rimase deserto tra l’indifferenza generale il dibattimento, ovvero de iure condito il cuore pulsante del processo.
Con buona pace del giudice vergine e della formazione della prova nella quasi leggendaria dialettica del giusto processo.
Tutto da ridere, signori oppositori. Ricordo i nostri dibattiti prima che il cosiddetto nuovo codice accusatorio entrasse in vigore, ricordo le polemiche di quei tempi… sui tempi: se le indagini sono denominate preliminari perché devono servire non a formare le prove ma solo a decidere sommariamente e alla svelta se archiviare o meno; se dunque le vere indagini al fine di acquisire le prove devono essere solo dibattimentali, allora il dibattimento non può andare molto in là nel tempo altrimenti tutti si dimenticano tutto, perché i ricordi si usurano, si elaborano, si deformano. Tre mesi? Cosa dici, non bastano nemmeno per i soli adempimenti tecnici, almeno sei o meglio nove mesi dai fatti! Per carità – si obiettava – ho letto cosa dice Cesare Musatti, dice tre mesi al massimo perché il lavoro psichico della memoria non conosce soste e dopo un po’ di tempo non ci si ricorda dell’accaduto ma di quello che si è deciso di ricordare. Ecco perché il dibattimento, se non vuoi che ti rispondano sempre che non ricordano per colpa del tempo trascorso, deve dunque svolgersi entro qualche mese, al più tardi entro l’anno dal fatto! Così si discuteva – in prima fila gli attuali oppositori – per dare un senso all’allora imminente riforma.
Risultato del quarantennale collaudo? Oggi è verificabile per tabulas che o si rinuncia al dibattimento con i procedimenti speciali oppure lo si celebra dopo anni infarcendolo di atti di indagini preliminari, sull’accordo delle parti o su presupposti di legge sempre meno eccezionali e sempre più dilatati. E siccome codeste indagini (artt. 326, 327 cpp) – di polizia giudiziaria e quasi sempre attribuibili al pm solo formalmente – proprio perché preliminari sono svolte in buona parte alle spalle dei difensori degli indagati e senza l’obbligo di equità di cui all’art 358 cpp, con il soccorso di un banale sillogismo può concludersi, come già accennato, che attualmente i processi del nostro paese sono fondati, molto più che prima del 1989, su indagini di polizia giudiziaria defensionalmente non garantite e, quanto al contraddittorio, solo ammantate di una ingannevole coreografia dibattimentale.
Elementare, Watson, ma cosa c’entra con la separazione delle carriere? Ma che domanda strana, gentili signori del No! Davvero devo spiegare che un modo di procedere così smaccatamente lontano da norme e logica e buon senso e rispetto può essere tollerato solo tra parenti?!
Ecco perché, signori magistrati et ceteri opponenti, non è comprensibile una qualsiasi contrarietà a una qualsiasi riforma di codesti deformi marchingegni che oggi, perniciosamente, costituiscono e rappresentano la nostra giustizia. Qualsiasi riforma, compresa naturalmente la riforma Nordio, che di tali malesseri da sempre è stata vigorosa fustigatrice.
Sempre che non pensiate – ma sarebbe un segnale clinico davvero allarmante – che siano calunniose o infondate le cose appena scritte; e che invece le indagini preliminari servano, nella prassi giudiziaria e in obbedienza al codice, esclusivamente al pm per decidere se archiviare o meno e mai al giudice per giudicare; sempre che non pensiate che il giusto processo sia vivo e vegeto tanto che la dialettica dibattimentale – tra le parti in condizione di parità davanti a giudice terzo ed imparziale, per la formazione della prova in contraddittorio – sia oggi davvero il tempestivo fulcro del procedimento in rispettoso ossequio all’art. 111 della Costituzione.
Non è possibile oggi essere contrari a qualsiasi riforma, sempre che non pensiate che non si abusi ma con prudente apprezzamento si operi in materia di misure cautelari o di prevenzione o sicurezza; o che in Europa non siamo tra i primi in classifica quanto ad applicazione del cautelare in carcere; o che i presunti non colpevoli non siano mediamente ben oltre un quarto dei detenuti presenti nelle carceri del nostro paese; oppure che il 40 per cento di assoluzioni non sottenda un sostanziale appiattimento del gip organo di garanzia sul pm titolare dell’interesse punitivo, quell’appiattimento quasi naturale che con qualche sotterfugio consentì alla procura del cd procedimento Mani Pulite… è vero o non è vero?… di bypassare le regole e scegliersi il gip Italo Ghitti per tutte le notizie di reato relative al fenomeno tangenti; o sempre che non pensiate, addirittura, che il processo mediatico sia fola o invenzione dei soliti cosiddetti garantisti.
Non è possibile oggi essere contrari, a meno che non riusciate a sentire l’orrore di una sopraffazione che in materia cautelare troppo spesso – anche senza l’urgente necessità di tutela da gravi reati di violenza contro libertà e persona, anche senza processo e senza prove ma solo sulla base di una cosiddetta “probabilità qualificata”, infine sovente senza motivazione che non sia di stile – in un attimo devasta e paralizza la vita di quella persona presunta non colpevole secondo la Costituzione… con un minimo di sfortuna potreste essere voi…, la depriva di identità, la separa da contesto di vita e affetti, ne decreta la morte civile.
Sempre che non capiate che la collegialità per l’applicazione della misura cautelare in carcere, che la riforma vuole introdurre, è davvero il minimo sforzo per tentare di ovviare all’orrore.
Due sono le principali correzioni da apportare al sistema senza ritardo.
La prima: mediante la separazione delle carriere dare finalmente vita, seriamente e non per scherzo, al giusto processo così come regolato dall’articolo 111 della Costituzione. Che non vuol dire risolvere la lentezza, sia chiaro, che è altra questione, di risorse umane e soprattutto informatiche.
La seconda: rimuovere qualsiasi condizione che possa far sopravvivere il pernicioso circo mediatico giudiziario.
Quanto alla prima correzione. Perché il giusto processo finalmente decolli in linea con l’articolo 111 Costituzione deve, come accennato e innanzitutto, cessare la convivenza tra pubblici ministeri e giudici. Primo passo per arrivare alla separazione anche culturale delle carriere; all’abbandono del tranciante ma ridicolo iudex peritus peritorum che fa da punto d’appoggio… ubi consistam per restare ben assortiti… di qualsiasi presa di posizione giudiziaria; per arrivare alla specializzazione ossia al connotato sempre più pressante di qualsiasi professione nel mondo, cultura della giurisdizione da un lato e cultura della investigazione corretta dall’altro, insomma. Per arrivare a quello che Piero Calamandrei ed il ministro guardasigilli Giuseppe Grassi percepirono in Assemblea Costituente come necessità quando si dichiararono già allora perplessi sul fatto che la carriera fosse unica.
L’opposizione alla separazione delle carriere, come espressa da alcuni tecnici del diritto anche autorevoli e da molti magistrati, è così palesemente irrazionale in relazione al vigente sistema accusatorio adottato cum gaudio ma come risulta per tabulas mai completamente decollato, da apparire formulata o per incomprensioni cognitive o per lapsus linguae aut calami oppure per finta, allo scopo di scherzare o provocare chissà chi e per quale astrusa ragione.
Il collaudo dura dal 1989, oltre 35 anni a fare i conti. Non può essere sfuggito ad alcun frequentatore delle cose giudiziarie che gran parte dei procedimenti invecchia, si scolorisce, diventa inutile se non addirittura prescritta. E che in tal modo viene inaccettabilmente calpestato, con dose di cazzimma forse esagerata, il diritto di ogni persona a una pronta risposta di giustizia. Non può essere sfuggito che la centralità del contraddittorio dibattimentale è stata di fatto quasi sempre sostituita dalla centralità della lettura dibattimentale e utilizzo di polverosi verbali di indagini preliminari (… con buona pace per i principii di oralità ed immediatezza che dovevano contraddistinguere il nuovo codice Vassalli-Pisapia…) e che perfino in tale pseudo contraddittorio zoppica l’articolo 111 della Costituzione, per vistosa mancanza di terzietà ed equidistanza nello stesso approccio del giudice, controllare per credere: da una parte un pm collega e quasi prezioso coadiutore nonché amico di fiducia di legalità e giustizia, dall’altra un difensore convitato di pietra quasi impiccione, prolisso e pronto a tutto pur di averla vinta. Non può essere sfuggito che pm e gip condividono da remoto la disponibilità degli atti digitalizzati, che pertanto possono o sembrano poter dialogare e consigliarsi nel pieno del procedimento come buoni colleghi conviventi, tanto buoni da temere il rischio, reciproco, di sconfessare o danneggiare lavoro e immagine del collega. Tanto buoni e distratti da non cancellare il suggerimento gip al pm nel procedimento contro tale Mantovani… “vedi se modificare questa frase”.
Non può essere sfuggito che normative e fatti sempre più complessi e sovranazionali e globalmente interconnessi, algoritmi valutativi o predittivi sempre più imperversanti, protocolli investigativi sempre più perentori, fonti di prova sempre più scientifiche oltre che sofisticate al limite dell’esoterismo costituiscono, tutti assieme, paradigmi criminologici e tecnoscientifici che non possono fare a meno di specializzazioni speculari formate saldamente negli anni e mirate allo spasimo. Di qualificate competenze ottenibili non saltabeccando da una carriera all’altra – come può succedere ancora in barba alle microvariazioni degli ultimi anni – ma solo sposandone una da sempre per sempre. E’ per tutte queste ragioni che si impone una separazione delle carriere piena e rigorosa.
La seconda correzione… ovvero scassare i meccanismi del circo mediatico-giudiziario. A tal proposito ci domandiamo: con la separazione delle carriere cesserebbe più o meno automaticamente anche la vergogna della ingiustizia mediatica? Sì? Per quale ragione? Magia?
A me pare che i piani siano tanto diversi e tra loro indipendenti da poter concludere che le tempestose vessazioni mediagiudiziarie ci azzecchino poco con la separazione delle carriere. Anzi, tenendo presente che, di solito, esse prepotenze mediagiudiziarie vivono solo grazie ai buoni rapporti tra poteri apicali e al solito aumma aumma di accordi taciti o di silenzi concludenti – nella specie tra il potere della procura, che esercita l’azione penale, le forze dell’ordine e il cosiddetto quarto potere dei mezzi di comunicazione di massa – paradossalmente la separazione delle carriere, la conseguente concentrazione di potere nel pm che qualcuno già definisce superpoliziotto e la derivante assenza di terzi incomodi potrebbe facilitare sia detti rapporti sia le temute conseguenze di grancassa.
Ecco perché occorrerà qualcosa in più, in aggiunta all’irrinunciabile separazione delle carriere: un intervento semplice ma mirato – basta poco – che possa controllare i soggetti del circo mediatico ripristinando ragionevolezza e diritto. Un intervento che sappia ovviare all’attuale vergogna, consolidatasi nel tempo grazie soprattutto a inesauribile pazienza e insufficienza di indignazione e coraggio.
Ci spieghiamo. L’ossigeno dell’ingiustizia mediatica è una pervasa disonestà. A nessuno dovrebbe sfuggire non solo che… La Palice un quarto d’ora prima di morire era vivo, ma anche che la strada è una sola, quella del severo, sollecito e concreto ripristino della legalità, senza sconti. Con coraggio, lo stesso coraggio finora dimostrato da Nordio – a proposito di separazione delle carriere, collegialità per le misure cautelari e molto altro – con la riforma che qualcuno ancora critica.
L’impunità è primo motore, causa prima di tante devianze. Anche il circo mediatico vive solo perché può calpestare del tutto impunemente diritti della persona, fondamentali e di spessore costituzionale. Tra i primi il diritto di vivere in libertà, scegliere un domicilio costituzionalmente inviolabile, circolare e soggiornare dove cacchio si vuole, rispettare le leggi per preservare il proprio onore, il proprio decoro e la propria reputazione. E allora? Un castello di diritti tanto vitali che, nel paradigma se righi dritto vivi tranquillo la Costituzione (art. 24) ha voluto assicurare a ogni persona il “diritto” inviolabile di difenderli “in ogni stato e grado del procedimento”.
Normativa irreprensibile e di alta civiltà, cittadino tranquillo! A meno che un giorno si svegli quel circo e tutto crolli visto che l’“ingiustizia mediatica”, tra l’altro posta in essere con la commissione di un coacervo di reati, non consente difesa alcuna essendo fuori dal circuito giudiziario ufficiale. Metti che l’inquirente disinvolto e l’altrettanto disinvolto compagno di merende giornalista percepiscano una qualsivoglia utilità di fregarsene della normativa. Metti che agiscano, in concorso, al fine di confezionare per il giorno dopo un titolone con appetitoso bignè che, pur devastando la vita di una persona, aiuterebbe da una parte la tiratura e dall’altra la credibilità dell’ipotesi accusatoria; ….tanto è diritto di cronaca o di critica o di pensiero – si tranquillizzano e sorvolano – e poi nessuno indaga, non solo perché per farlo dovrebbero essere… masochisti ma anche perché se investigassero farebbero quantomeno – viva il mainstream vigente – la figura di squadristi nemici dell’informazione e dunque della democrazia!
Ecco, così si dà il via alla garrota mediatica, sputtanamento in nero orbace sotto un mantello wokista rosa Schiaparelli! E’ ovvio che, svolgendosi illegalmente in barba a qualsiasi regola, nell’assenza di qualsiasi reale autocontrollo da parte dei soggetti a ciò preposti – innanzitutto l’Ordine dei giornalisti – può accadere a tutti in tutti i momenti, come Enzo Tortora scrisse a Francesca e tuonò tante volte dopo essere stato assolto.
Affermazione probabilmente banale per l’ovvietà ma amo rischiare e la dico: per scassare i meccanismi del circo mediatico bisognerebbe cominciare rispolverando alcuni specifici valori, sedimentati nel corso della storia della nostra civiltà ma… annegati nel liquido di Bauman ed ormai desueti: innanzitutto di coerenza, severità, rispetto. Subito dopo convenire tutti, trasversalmente, sulla insopportabile gravità del processo mediatico. Uscire, di seguito, dalla notte degli equivoci, delle paure di essere tacciati in un modo piuttosto che in un altro, delle vigliaccherie in cui versiamo da decenni ed avere coraggio. Quel coraggio che già da tempo avremmo dovuto trovare, ad esempio per denunciare a voce alta il consolidato sistema di giustizia a dir poco parziale e violento, così bene descritto da Palamara. O quello di un altrettanto consolidato e violento sistema di informazione, pericolosamente degenere e persecutoria, così come bene descritto da Goffredo Buccini nel suo libro di confessioni su Mani pulite. Quel coraggio che invece dimostra la riforma Nordio, coraggio che fa tanta paura agli ignavi controinteressati.
Coraggio e indignazione. Occorrerebbe avere coraggio, ma nessuno fiata – ed esco fuori tema, ma di poco – per tanti interventi in tema di giustizia. Coraggio per tentare un risanamento culturale che nel sistema giudiziario faccia riprendere forza al rispetto per tutte le parti del procedimento, ossia indagato e vittima. Faccia riprendere forza a logica rigenerativa che impedisca di restituire alla strada – di fatto abbandonati senza ulteriori interventi, chi s’è visto s’è visto – i minori che per noia una settimana prima hanno massacrato un paio di vecchiette per rapina. Faccia riprendere forza al dovere di lealtà, che impedisca al magistrato di non denunciare pubblicamente e fingere di non sapere che nel nostro paese esistono solo comunità aperte cioè senza sbarre, dalle quali potranno allontanarsi subito e indisturbati anche i pericolosi ragazzi non imputabili che, tossicodipendenti e senza famiglia, in crisi pantoclastica hanno stuprato e ucciso.
Occorrerebbe coraggio per dire che il re è nudo; che pretendere di camminare in sicurezza sotto casa non è follia; che penalizzare condotte senza approntare controlli adeguati ha solo il criminogeno risultato di aumentare delirio di impunità e onnipotenza; che “prassi virtuosa” non è parolaccia; che Bauman parlò di modernità liquida e regole volatili in un contesto critico e non ricognitivo; che non può essere rieducato, con le povere risorse a disposizione nella nostra epoca e ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 27 della Costituzione, il cinquantenne che per fatti concludenti, da lui confermati, risulta e ammette sia di aver fatto 30 anni prima una lucida e coerente scelta di vita criminale sia di non ricordare bene se ha assassinato 70 o 80 persone.
Occorrerebbe coraggio per denunciare i soloni che di fatto e di diritto cancellarono gli ospedali psichiatrici giudiziari (opg), giustamente sia chiaro, ma ancor prima di approntare in sostituzione, come inizialmente previsto, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (rems) adeguate per numero e competenza… così introducendo altre… liste d’attesa. Oppure, ancora giustamente, introdussero misure cautelari con braccialetto elettronico senza però far approntare una loro sufficiente e funzionante produzione.
Ma il troppo stroppia e, dopo lo sfogo più o meno giustificato, è giusto tornare al tema. Accontentiamoci per ora di chiedere agli aspiranti riformatori solo un altro piccolo sforzo, di dedicarsi senza ulteriori indugi al fenomeno del circo mediatico. L’esperienza è ormai matura per avere coraggio, voltare pagina e senza tema definire codesto circo mediatico non solo una prassi infame ma anche lesione di beni giuridici tanto importanti da meritare la massima protezione, quella del diritto penale, l’unico che può… o potrebbe… avvalersi delle sanzioni più energiche e drastiche. Una prassi infame – è forse esagerata la definizione? – fondata su comportamenti criminosi di un’accozzaglia di persone disoneste, che prosperano sull’indifferenza per le altrui sofferenze. Sempre finalizzata, quanto al ramo giudiziario, a sovrastare interessi scelte e opinioni investigative, sovente anche a pernicioso discapito del pubblico interesse a indagini corrette.
Il tragico è che, senza alcun risultato pratico, tutte le illecite condotte aumma aumma, necessariamente presupposte dalla prassi infame del “processo mediatico”, costituiscono già reato, diretto oppure in concorso, ma pochi hanno il coraggio di ricordarlo: il rivelare e utilizzare segreti d’ufficio (art. 326 cp, 329 cpp), il rivelare segreti professionali (art. 622 cp), il pubblicare arbitrariamente atti di procedimenti penali (art. 684 cp, 114 cpp), l’accedere abusivamente a sistemi informatici o telematici (art. 615 ter cp). E già esiste – ma nello specifico non si applica, forse per pusillanimità – quell’articolo 648 cp che, per chi “riceve” – termine ampio e onnicomprensivo – cose provenienti da un “qualsiasi delitto” (i reati di cui agli artt. 326 e 615 ter cp sono già delitto, le contravvenzioni potrebbero/dovrebbero diventarlo de iure condendo) prevede una sanzione da 2 a 8 anni di reclusione oltre a una multa. Basterebbe dunque adeguare l’art. 648 cp, sostituendo “qualsiasi delitto” con “qualsiasi reato”, eventualmente con specificazioni da interpretazione autentica, per assicurare sanzione significativa all’andazzo infame. Oppure elevare le contravvenzioni a delitto, tenuto conto del loro grado di disvalore, soprattutto quanto alla pubblicazione arbitraria. Avranno il coraggio?
Resta naturalmente il problema del sorteggio, che abbiamo sempre auspicato ma con poche speranze sugli effetti, per via di prevedibili coesioni carbonare in sostituzione delle correnti.
Staremo a vedere.