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richiami storici

Quella della giustizia è una riforma inevitabile, mia cara sinistra

Augusto Barbera

La separazione delle carriere e il sorteggio del Csm non porteranno nessuna subordinazione dei pm alla politica e aiuteranno a tutelare la Costituzione. Ragioni riformiste per il sì da sinistra. Ci scrive l’ex presidente della Corte Costituzionale Augusto Barbera

È inutile girarci attorno. La riforma della giustizia di cui stiamo parlando è una riforma liberale divenuta inevitabile dopo la così detta riforma Vassalli (la legge delega n. 81 del 1987) che aveva smantellato il vecchio codice di impronta autoritaria e introdotto il sistema accusatorio. Inevitabile conseguenza la separazione delle funzioni e delle carriere, ma intervennero più fattori di rallentamento, talora passi indietro, non ultimi l’emergenza terroristica e l’esplosione del “giustizialismo” di Mani Pulite. In quegli anni per evitare la così detta dispersione delle prove, la stessa Corte costituzionale si era mossa in direzione opposta con la sentenza 361 del 1998 (così detta “Sentenza Neppi Modona”).

  

Come risposta, nel 1999 fu approvato dal Parlamento, a larghissima maggioranza, il nuovo articolo 111 della Costituzione: il “giusto processo” nel contraddittorio fra le parti” in “condizioni di parità” davanti a un Giudice “terzo ed imparziale” (così detta riforma Pera). Il dibattito venne inquinato da ulteriori vicende della storia repubblicana: prima Craxi e poi Berlusconi prendendo in mano questa bandiera, certamente più favorevole alle loro posizioni processuali e comunque utile (a loro avviso) per contrastare i giudici inquirenti, favoriranno ulteriori passi indietro delle forze politiche, in particolare delle attuali opposizioni. Al di là del merito della riforma prevalsero vieppiù ragioni di schieramento politico. È quanto sta per ripetersi: chi è a favore della attuale maggioranza sarà spinto a votare “Si”; chi è contro sarà indotto a votare “no”. Si ripeterà quanto accaduto bocciando la (per me ottima) riforma Renzi?

  

Non mi piacciono le tifoserie ma non voglio demonizzare nessuna posizione: anche la “politique politicienne” ha le sue logiche. Logiche non commendevoli, che possono anche meritare rispetto; ma a due condizioni. La prima: che si evitino argomenti artefatti. Fra i tanti sento ripetere che dopo la riforma Cartabia pochi sono i passaggi dall’una all’altra carriera; verissimo ma giudici e pm sono rimasti insieme nel medesimo Csm (i pm a giudicare le carriere degli altri giudici e viceversa) e soprattutto raggruppati nelle medesime correnti in esso presenti. Sono lontani i tempi – fine anni Sessanta – in cui la divisione in correnti dei magistrati rifletteva due diverse letture della Costituzione ed è andata crescendo la loro sgradevole natura di gruppi di pressione e di potere. L’altra condizione: che si rispetti la storia.

  

Vedo chiamato in causa da giuristi militanti la posizione di Piero Calamandrei nell’Assemblea costituente. Richiamo sempre suggestivo di un indiscusso e celebrato padre della Costituzione; ma stavolta richiamo privo di senso, anzi controproducente, frutto di quella disinvolta agiografia con cui spesso si leggono i lavori dell’Assemblea costituente. Spiego perché. Su incarico della Commissione dei 75, Calamandrei elabora nell’autunno del 1946 la “Relazione sul potere giudiziario e sulla suprema Corte costituzionale”, che riprende la sua Relazione alla commissione Forti, in alcuni passaggi più chiara e discorsiva (per puntuali citazioni rinvio a un mio vecchio saggio pubblicato in “Rassegna Parlamentare” del 2009). Questi i punti principali. I giudici, “assieme agli ausiliari”, costituiscono un “ordine autonomo”.

   

Nella Commissione Forti, Calamandrei aveva usato l’espressione “potere autonomo” ma non spiega il mutamento di posizione (ammesso che di questo si tratti). Pertanto, i giudici, nell’esercizio delle loro funzioni, dipendono solo dalla legge, “che essi interpretano ed applicano al caso concreto secondo la loro coscienza, in quanto la riscontrino conforme alla Costituzione”. Per assicurare tale obiettivo, il giudice deve essere “precostituito”; ha il dovere di motivare le sentenze e deve assicurare la pubblicità delle udienze. Per le medesime ragioni deve essere riservata al potere legislativo l’interpretazione delle leggi con efficacia generale e astratta ma deve essere garantita l’intangibilità dei giudicati da parte del potere legislativo. E infine l’unicità della giurisdizione, superando soprattutto la distinzione fra la giurisdizione ordinaria e quella amministrativa.

   

Ma il punto che più ha affaticato Calamandrei – il “punctum pruriens”, lo definiva – è come collegare alla politica l’ordinamento delle magistrature. La soluzione prescelta, fra le diverse prospettate, ricorda il Lord Chancellor, pilastro dell’ordinamento inglese (superato con la riforma Blair del 2005). Quella proposta prevedeva un “procuratore generale”, con funzioni di “commissario della giustizia”, nominato dal capo dello stato ma scelto in una terna di magistrati superiori proposta dalla Camera dei deputati. Tale commissario è il “capo degli uffici del pubblico ministero dei quali vigila e coordina l’azione” ed esercita l’azione disciplinare. E’, in breve, organo di collegamento fra il potere giudiziario e gli altri poteri dello stato e, come tale, è membro di diritto del Consiglio superiore, prende parte al Consiglio dei ministri con voto consultivo e “risponde di fronte alle Camere del buon andamento della magistratura”. Se si fa eccezione per la figura del commissario della giustizia (e per la unicità della giurisdizione ordinaria e amministrativa), quasi tutte le proposte di Calamandrei verranno accolte e andranno a costituire la struttura portante del testo costituzionale.

Sulla configurazione dei rapporti con il potere politico, invece, Calamandrei dovette combattere su due fronti. Da un lato contro i comunisti favorevoli alla elezione popolare diretta dei magistrati (su cui si era pronunciato il V Congresso del Partito) e comunque assai tiepidi, se non ostili, verso l’autogoverno dei magistrati; dall’altro, contro la Democrazia cristiana favorevole al controllo governativo del pubblico ministero. Da un lato la posizione di Palmiro Togliatti che riteneva il pieno autogoverno “concezione democraticamente non accettabile” e proponeva che almeno la vicepresidenza del Csm fosse affidata al ministro della giustizia “che deve avere una funzione preminente”. Un autogoverno, peraltro, impropriamente riconosciuto a “sovrani senza corona e senza autorità”, dirà intervenendo nel dibattito generale sul progetto di Costituzione l’11 marzo 1947 (“Discorsi alla costituente”, Editori riuniti, Roma 1973, p. 16).

Non è possibile in una democrazia, aggiungerà Renzo Laconi, deputato del Pci, costruire poteri “sottratti al controllo delle istanze democratiche” né costruire una guarentigia autoreferente, propria di una “casta”, aggiungerà ulteriormente l’ex Guardasigilli comunista Fausto Gullo. Evidente era ancora l’eco del “caso Pilotti”, il procuratore generale che all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 1947 si era rifiutato di rendere omaggio al capo dello stato repubblicano. Dall’altro lato la posizione di Giovanni Leone, relatore per la Dc, che nella sua relazione (più volte ripresa in Aula) disegnava il pubblico ministero come organo del potere esecutivo, privato di ogni funzione di tipo giurisdizionale (allora più marcate nel vecchio Codice di procedura penale); organo di “sorveglianza per l’applicazione della legge”; promotore dell’azione penale, e anzi posto a capo della polizia , “non solo giudiziaria”; non inamovibile e posto alla dipendenza gerarchica del ministro della Giustizia. Entrambe le posizioni furono sconfitte, la prima con un voto già nella commissione per la Costituzione che vide isolato Togliatti (commissione per la Costituzione, Seduta plenaria del 30 gennaio 1947, Atti Assemblea costituente, vol. VI, p. 241), la seconda in Aula nella seduta pomeridiana del 26 novembre 1947. Si addivenne invece (sulla base di un emendamento Grassi-Leone) di non porre sullo stesso piano nel testo costituzionale – oggi ultimo comma dell’art. 107 – le garanzie di indipendenza dei giudici e quelle dei magistrati del pubblico ministero, e di rinviare per queste ultime alla legge sull’ordinamento giudiziario.

Da qui la formula dell’art. 101, “i giudici sono soggetti solo alla legge”, che corregge la proposta della commissione dei 75 che faceva riferimento a tutti i magistrati, sia ai giudici sia ai pubblici ministeri. Sulla base di questa distinzione la Corte costituzionale in due distinte sentenze la n. 37 del 2000 e la più recente n. 58 del 2022 ebbe ad ammettere due referendum proposti sia dai radicali e sia successivamente da cinque regioni che prevedevano la separazione delle carriere (e che non furono approvati per il mancato raggiungimento del quorum). Pienamente legittima per la Corte costituzionale, dunque, anche a Costituzione vigente, la possibile separazione del regime dei due pilastri. Scartata la strada del raccordo con il governo (inizialmente preferita da Calamandrei), il momento di collegamento della magistratura con il potere politico verrà infatti individuato nella presidenza del Consiglio superiore affidata al presidente della Repubblica e nell’immissione nel Consiglio stesso di un terzo di laici, eletti dal Parlamento, mentre al ministro della Giustizia verranno affidati solo l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110), e la promozione dell’azione disciplinare (art. 107). Un Consiglio superiore con compiti, dunque, di “garanzia”; non dovrebbe invece svolgere funzioni di “rappresentanza”, né del Parlamento né dei magistrati. Cadono pertanto le obiezioni (quelle giuridiche almeno) al “sorteggio” dei componenti dei due Csm, fondate invece qualora dovesse trattarsi di eleggere “rappresentanti”. Non credo, infine, che la vittoria nel referendum porterà a una subordinazione al potere politico.

Lo impedisce il nuovo testo dell’art. 104 laddove stabilisce che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente”. Una affermazione, peraltro, ancora più forte rispetto al testo vigente che, come abbiamo visto, lascia spazi alla legge ordinaria, sia nell’ultimo comma dell’art. 107, sia nel secondo comma dell’art. 108. Se mai il nuovo ordinamento potrebbe rendere più agevole la tormentata introduzione di forme di coordinamento fra procure varate, dopo tanti timori e incertezze, con la legge n. 8 del 1992, in seguito agli attentati a Falcone e Borsellino. Esse non hanno superato l’obbligatorietà dell’azione penale ma aperto la strada ai poteri di coordinamento delle procure antimafia e antiterrorismo, distrettuali e nazionali. Non mancarono allarmi e diffidenze ma quei poteri di coordinamento non hanno” assoggettato” le singole procure, né reso invadente il potere politico.

 

 

*** L’autore dell’articolo è un giurista, è stato deputato del Pci e del Pds, è stato ministro per i rapporti con il Parlamento nel governo Ciampi e tra il 2023 e il 2024 è stato presidente della Corte Costituzionale. Questo è il suo primo articolo per il Foglio