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Il commento

La separazione delle carriere non guarirà tutta la giustizia, ma uscire dallo status quo è doveroso

Luigi Marattin

Non esiste mai un intervento che, da solo, possa risolvere i problemi di un settore. Ma ci può dire tre cose; la capacità che il paese ha di portare a termine una riforma strutturale, la possibilità di andare verso la fine della strumentalizzazione della giustizia, l'opportunità di forzare il mutamento del quadro politico

Il dibattito sulla separazione delle carriere ci offre l’opportunità di fare almeno tre riflessioni. La prima è la difficoltà a implementare appieno le riforme di struttura. Che in Italia già sono praticamente impossibili da fare. Ma in quei rarissimi casi in cui vengono iniziate, non sono mai portate a compimento percorrendo il proverbiale e spesso decisivo ultimo miglio. E' il caso della riforma delle pensioni di Dini nel 1996, che non ebbe il coraggio di implementare immediatamente il passaggio dal retributivo al contributivo, creando così le condizioni per tutto quanto ha girato e ancora gira attorno al pianeta-Fornero. Ma è anche il caso, appunto, della riforma del codice di procedura penale del 1989, che sancì il passaggio da sistema inquisitorio a quello accusatorio. Quella riforma, salutata con favore da gran parte del quadro politico dell’epoca, trasformava il nostro sistema da uno in cui il “giudice” fa le indagini (i diversamente giovani come il sottoscritto ricordano l’appellativo “giudice Falcone” al celebre magistrato antimafia) ad uno in cui pubblico ministero e difesa duellano in condizioni di parità di fronte ad un giudice terzo. La naturale e necessaria prosecuzione di quella riforma era la separazione delle carriere, come considerato fisiologico da tutti all’epoca, a cominciare proprio da Falcone stesso. Esattamente come quando imbandisci una tavola con piatti e bicchieri: se poi non servi il cibo, che cosa l’hai fatta a fare?

 

La seconda riguarda la perdurante e dannosissima politicizzazione del pianeta giustizia, ad opera di tutti gli attori in campo. Nella Prima Repubblica non avevamo un sistema basato sull’alternanza, per le ragioni che tutti conosciamo. E la classe politica al governo – che “sfogava” un minimo di alternanza nell’innocuo duello tra le componenti democristiane o nell’inclusione o meno di questo o quel piccolo partito nella compagine di governo – era sostanzialmente “schermata” dal fatto che, semplicemente, non ci poteva essere nessuna alternativa possibile dato il contesto internazionale. Il crollo del Muro di Berlino cambiò tutto questo. E ci si accorse che, in un paese dove il populismo ha sempre rappresentato un fiume carsico e in cui le manipolazioni dell’elettorato sono sempre state la regola, l’utilizzo dello strumento giudiziario era la forma più efficace ed efficiente di lotta politica. E dopo trent’anni siamo ancora lì, forse persino ad un punto peggiore. La terza, infine, riguarda l’atteggiamento del centrosinistra. Che tradizionalmente è spesso stato favorevole alla separazione delle carriere (se ne trova traccia nel progetto della Bicamerale guidata da Massimo D’Alema alla fine degli Anni 90, fino ad arrivare alla mozione di Maurizio Martina nel Partito democratico di qualche anno fa), ma che ora ha scelto di schierarsi senza se e senza ma per la conservazione dello status-quo. Solo uno dei tanti fronti – dal posizionamento internazionale fino al mercato del lavoro, passando per politiche della concorrenza, fisco e praticamente qualsiasi altra cosa – su cui si è consumata la mutazione genetica del centrosinistra italiano: da alternativa di governo (più o meno) credibile a movimento di testimonianza identitaria massimalista.

 

Il referendum sulla separazione delle carriere non risolverà tutti i problemi della giustizia italiana. Per un motivo molto semplice: non esiste mai un singolo intervento che, da solo, possa risolvere i problemi di un settore. Ma ci può dire tre cose importanti: la capacità che questo paese ha, anche 35 anni dopo, di portare a termine una riforma strutturale; la possibilità di andare, gradualmente, verso la fine della strumentalizzazione della giustizia; l’opportunità di forzare il mutamento del quadro politico italiano, abbandonando conservatori e massimalisti al loro destino e costruendo invece un’alternativa liberale e riformatrice che scompagini questo pessimo bipolarismo all’amatriciana.

 

Luigi Marattin, segretario del Partito Liberaldemocratico

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