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Spunta un nuovo depistaggio, e forse un colluso, per l'omicidio Mattarella. Palermo senza verità

Giuseppe Sottile

Arrestato l'ex prefetto Filippo Piritore, all'epoca funzionario della squadra mobile. Nella relazione stilata subito dopo il delitto ha sostenuto di avere affidato il guanto dimenticato sotto il sedile della Fiat 127 usata per la fuga dagli assassini a un poliziotto della scientifica. Ma lui sostiene di non aver ricevuto nulla

Se venite a Palermo, in questa città “reggia e conventuale”, non lasciatevi incantare dalle cupole maiolicate di San Giuseppe dei Teatini o di Santa Maria dell’Ammiraglio. Spostatevi su Palazzo di giustizia e fatevi consegnare, da qualche anima pia, la mappa dei misteri che in cinquant’anni nessun tribunale è riuscito mai a risolvere. Vi troverete di fronte a un labirinto verminoso, dove la verità si è quasi sempre confusa coi teoremi e dove il lavoro di procuratori e investigatori è stato spesso ammorbato da inefficienze e stoltezze, ma anche da indicibili trame e insospettabili collusioni. Non bastava il mistero doloroso che ancora avvolge mandanti ed esecutori della strage di via d’Amelio, con centosette magistrati che, in undici gradi di giudizio, non sono riusciti a stabilire con certezza chi abbia decretato, in quel tragico 19 luglio del 1992, la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. Ora si scopre che anche le indagini sull’omicidio di Piersanti Mattarella – il presidente della regione siciliana, assassinato il 6 gennaio del 1980 – sono state inquinate, deviate e forse definitivamente affossate da un depistaggio.


Il responsabile sarebbe Filippo Piritore, un ex prefetto di 75 anni, finito ieri agli arresti domiciliari. La procura di Palermo, diretta da Maurizio De Lucia, gli contesta una smemoratezza, chiamiamola così, sul guanto che uno dei killer aveva dimenticato nella Fiat 127 utilizzata per la fuga. Piritore era a quell’epoca funzionario della squadra mobile. Nella relazione stilata subito dopo il delitto e in una dichiarazione resa nei mesi scorsi ha sostenuto di avere affidato il guanto – un reperto che avrebbe potuto agevolare l’identificazione degli assassini – a un poliziotto della scientifica, un certo Di Natale, perché lo consegnasse a Pietro Grasso, il sostituto procuratore cui era stata affidata la direzione delle indagini. Ma Grasso – diventato poi giudice a latere del maxi processo, capo della procura antimafia e presidente del Senato – ha detto di non avere ricevuto nulla. Messo di fronte al categorico diniego del magistrato, l’ex prefetto ha tentato di correggere il tiro e ha precisato che il poliziotto della scientifica forse non si chiamava Di Natale ma Lauricella. Altro buco nell’acqua: nell’albo della scientifica non c’è traccia di quel nome. Filippo Piritore – si legge nell’atto d’accusa della procura – “dopo avere fattivamente contribuito alla dispersione di un reperto di importanza primaria per le indagini, ha continuato a perseguire concretamente un progetto illecito di depistaggio, attraverso dichiarazioni nocive per gli accertamenti investigativi”.


Piersanti Mattarella – fratello maggiore di Sergio, attuale capo dello stato – aveva assegnato al suo impegno politico una missione eccezionale. Erano i tempi in cui spadroneggiava a Palermo e anche in Sicilia la Dc di Vito Ciancimino e di Salvo Lima; tempi in cui il confine tra potere legale e potere mafioso era molto labile e impreciso. Il giovane Mattarella, eletto alla presidenza della regione il 20 marzo del 1978, predicava e perseguiva invece tenacemente la religione delle “carte in regola”. Ma dopo 45 anni le carte in regola non ce l’ha la politica e, purtroppo, nemmeno la giustizia.

 

Sul suo assassinio le indagini hanno seguìto due piste parallele: quella fascista, che ha visto come imputati Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, assolti poi in tutti e tre i gradi di giudizio; e quella mafiosa, per la quale sono tuttora indagati due boss di grosso calibro come Nino Madonia e Giuseppe Lucchese. Per verificare, alla luce delle nuove tecniche investigative, se uno dei due boss fosse effettivamente il giovane killer sui vent’anni “dagli occhi di ghiaccio e l’andatura ballonzolante” – descritto così dalla vedova di Mattarella, Irma Chiazzese, testimone diretta del delitto – la procura di Maurizio De Lucia ha tentato di “estrarre” il Dna da un’impronta rilevata sul cruscotto della Fiat 127 e sul guanto dimenticato, sotto il sedile, dall’assassino o dal complice che lo aspettava in auto. Ma il guanto non si trova più e i pm hanno concentrato i sospetti su una “manina manona” interna alle forze di polizia. E hanno messo sotto torchio, anche con intercettazioni ambientali, Piritore sul quale pesa anche un’amicizia, espressamente citata negli atti dell’inchiesta, con l’allora capo della squadra mobile di Palermo, Bruno Contrada, incarcerato e condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ma con una sentenza che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha poi dichiarato inefficace per un cavillo. 


Se Contrada è un vecchio attore del teatro delle evanescenze con il quale ha a che fare, da quasi mezzo secolo, la lotta alla mafia, Piritore è invece una new entry. Il reato che gli viene attribuito – il depistaggio, appunto – riporta alla memoria il ruolo, misterioso e inquietante, assunto da Arnaldo La Barbera, altro superpoliziotto della questura di Palermo, nelle indagini e nel processo per l’uccisione del giudice Paolo Borsellino. Forse per fronteggiare lo smarrimento di opinione pubblica che dopo le stragi invocava verità e giustizia, La Barbera aveva “impupato” un falso pentito, Vincenzo Scarantino, un balordo del quartiere Guadagna, e lo aveva addestrato a una verità farlocca in base alla quale furono rinchiusi in galera, per quasi sette anni, dodici innocenti. Da quel depistaggio nacque poi una fitta sequela di dossier e di processi – il “Borsellino bis”, il “Borsellino ter” e il “Borsellino quater” – nei quali si sono avvicendati, tra udienze di primo grado, appello e Cassazione, centosette giudici. Uno sforzo titanico che non ha illuminato alcuna verità e che ha spinto la giustizia a schiantarsi – almeno finora – tra piste, contropiste, reticenze, ammissioni, colpi di scena, silenzi, detti e contraddetti dei pentiti veri o riconosciuti tali. Un intramarsi di inganni, di imposture, di errori e anche di interessi. Non ultimi quelli, coltivati sottobanco, da alcuni uomini degli apparati – investigatori e pure magistrati – che hanno brancolato nei misteri di Palermo per accaparrarsi un avanzamento di carriera o altre opache utilità.  

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  • Giuseppe Sottile
  • Giuseppe Sottile ha lavorato per 23 anni a Palermo. Prima a “L’Ora” di Vittorio Nisticò, per il quale ha condotto numerose inchieste sulle guerre di mafia, e poi al “Giornale di Sicilia”, del quale è stato capocronista e vicedirettore. Dopo undici anni vissuti intensamente a Milano, – è stato caporedattore del “Giorno” e di “Studio Aperto” – è approdato al “Foglio” di Giuliano Ferrara. E lì è rimasto per curare l’inserto culturale del sabato. Per Einaudi ha scritto anche un romanzo, “Nostra signora della Necessità”, pubblicato nel 2006, dove il racconto di Palermo e del suo respiro marcio diventa la rappresentazione teatrale di vite scellerate e morti ammazzati, di intrighi e tradimenti, di tragedie e sceneggiate. Un palcoscenico di evanescenze, sul quale si muovono indifferentemente boss di Cosa nostra e picciotti di malavita, nobili decaduti e borghesi lucidati a festa, cronisti di grandi fervori e teatranti di grandi illusioni. Tutti alle prese con i misteri e i piaceri di una città lussuriosa, senza certezze e senza misericordia.