
Foto Ansa
nel 1994
Un orco al Quadraro. Storia di un orrore romano
Un padre che abusa di suo figlio, una nonna e una nipote randagie, un ragazzino che è una promessa del calcio. E una baracca degli orrori. A Roma un incubo ha preso forma. Con finale in rosa
L’orco ha una faccia di quelle che non ti dimentichi. Secco, nodoso, grifagno, sdentato, un gran nasone in caduta libera verso il labbro superiore ma soprattutto gli occhi: piccoli, cattivi, sospettosi, indagatori, con una luce di scaltrezza anche quando frigna e protesta la sua innocenza. L’orco piange, ride, mente, inganna: tutto a comando. Eccolo, Elvino Gargiulo, classe 1925, da Meta, vicino Napoli. Curriculum: pedofilo, molestatore, stupratore, pluriomicida. La sua storia: tre cadaveri fatti a pezzi, la figlia violentata e messa incinta, il figlio abusato, venduto a un pedofilo per poche migliaia di lire, costretto a mangiare topi per cena, iniziato all’alcolismo nella baracca degli Orrori dove, ogni sera, scorrevano fiumi di Tavernello e dove Luigina Giumento, 57 anni, la nipote Valentina, 10 anni, e Luca Amorese, 14 anni, detto “Il Pelè del Quadraro” sono stati assassinati, sezionati e bruciati. Di nonna e nipote sono state ritrovate solo alcune ossa, dell’adolescente neanche un frammento. I vecchi cronisti che seguirono questa storia agghiacciante, nel 1994, sussurrano ancora che, forse, quel ragazzino di colore dall’accento romanesco, dopo averlo ucciso, Elvino se l’è mangiato. Esagerazioni? Leggende metropolitane? Tutta la storia intitolata “Il Mostro del Quadraro” sembra la sceneggiatura di un film dell’orrore. E allora raccontiamola dall’inizio (anche se forse, in questo caso, sarebbe più corretto dire dalla fine) questa full immersion nell’incubo.
Comincia con un appello ai giornali e due genitori disperati: il 13 settembre 1994 il figlio è scomparso nel nulla. Uno dei tanti adolescenti che all’improvviso vengono inghiottiti da una voragine, almeno cento all’anno in quel periodo, anche se poi la maggior parte ritornava a casa. Ma la storia di Luca ha qualcosa di diverso e i cronisti se ne accorgono subito: tutto il quartiere è in subbuglio. Luca è una specie di star in erba: gioca nell’A.S. Tuscolano ma molti gli pronosticano un futuro in serie A. Negli ultimi tempi, però, il ragazzo era cambiato parecchio: saltava scuola e allenamenti, indossava vestiti costosi e s’era addirittura comprato una Vespetta per 1 milione e 200 mila lire, cifra assolutamente impensabile per i genitori. Il caso emerse dalle pagine di cronaca locale, approdò a “Chi l’ha visto?”, fece scalpore. Poco tempo dopo saltò fuori una lettera scritta da Luca su carta di un’agenda Alitalia: “Mamma vado con un amico con cui starò benone perché ha il bar e mi vuole bene”. La calligrafia è quella del ragazzo ma l’indirizzo sulla busta è stato scritto da una mano diversa. A questo punto i sospetti aumentano.
Seguendo gli ultimi movimenti del ragazzino nella zona i cronisti, stavolta prima degli investigatori, arrivano a una specie di rudere sbilenco che torreggia su via Demetriade, una location perfetta per un film splatter. Nel cortile sono ammassati rottami rugginosi, escrementi, ossa, rifiuti. Dentro è quasi peggio: pochi mobili sfondati, piatti sporchi, cicche, pagine di giornaletti porno. E come se non bastasse a poca distanza c’è l’ingresso per l’inferno: le fungaie abbandonate del Tuscolano, buie, malsane, sature dall’odore di muffa, una sorta di labirinto sotterraneo che scorre lungo tutto il quartiere e che chi scrive affrontò con repulsione guidato da un sacerdote di zona che conosceva bene quel mondo nascosto. Dopo che le coltivazioni di champignon erano state chiuse alcuni derelitti dormivano in quei cunicoli su cartoni e giacigli di stracci.
Nella baracca saltò fuori una figura che era un incrocio tra Barbablù e il Cappellaio Matto. Un rigattiere che girava con un Ape cadaverico a caricare e rivendere pezzi di ferro, stracci e bottiglie vuote e che non si fece pregare per parlare coi giornalisti: “Ma sì, vero, Luca è venuto a trovarmi e m’ha venduto la Vespa per 250 mila lire ma poi se n’è andato con certa gente che non conosco e m’ha pure fregato dei soldi”. Credibile come Iago. “Ma questo l’ha ammazzato, il ragazzino”, sussurravano i cronisti uscendo dalla baracca con il fondato timore di essersi beccati la scabbia. Nella baracca arrivarono anche i carabinieri che perquisirono dappertutto, trovarono la Vespa fatta a pezzi ma nient’altro e sembrò impossibile andare avanti con le indagini. A metà degli anni 90 non c’erano ancora cellulari da tracciare o telecamere di sicurezza da controllare. Inchieste tradizionali, a suola e tacco, pedinamenti, testimonianze, qualche confidente messo in allerta. Niente indizi. La cosa finì lì, subissata dalla cronaca nera di allora: omicidi, terrorismo, il giallo di Antonella Di Veroli, la commercialista uccisa e nascosta in un armadio e tanti altri titoli molto più clamorosi, ma i carabinieri non mollavano, e a questo punto entrò in scena il secondo protagonista: Mario Gargiulo, 26 anni, lieve ritardo mentale, una psiche traumatizzata dalle violenze e dagli abusi che il padre gli aveva inflitto fin da bambino e gli aveva fatto subire cedendolo ad altri pedofili. Botte, insulti, sbronze e topi bolliti per cena erano il quadretto domestico quotidiano nella baracca. La sorella, che aveva abortito il figlio nato dallo stupro del padre, era scomparsa da tempo. Elvino, tra l’altro, aveva avuto ben tre mogli senza curarsi di aspettare il divorzio prima di convolare a nuove nozze.
Mario Gargiulo, invece, era rimasto col padre probabilmente perché non sapeva dove altro andare anche se, ogni tanto, spariva anche lui per qualche giorno per poi tornare regolarmente nella baracca. Il ragazzo era gay, si prostituiva saltuariamente e l’esca per attirarlo in trappola fu un giovane e avvenente militare sotto copertura che se lo fece amico, lo portò a cena, lo fece bere e buttò lì qualche domanda sul Pelè del Quadraro. Mario sembrava poco interessato all’argomento, rispose a monosillabi ma a poco a poco si animò e cominciò spontaneamente a raccontare un’altra storia. Una storia di cui nessuno aveva sentito parlare fino a quel momento e che trasformò l’inchiesta su un ragazzino scomparso nell’indagine su un serial killer. Il carabiniere, col cuore a mille, tese le orecchie e annotò mentalmente quella storia così raccapricciante che sembrava inventata. E, invece, purtroppo, era verità cristallina. Nella baracca degli orrori, qualche tempo prima, erano approdate altre due vite randagie: Luigina, prostituta, alcolizzata, una specie di clochard che si trascinava da un punto all’altro della città, e la nipotina Valentina, 10 anni, abbandonata dai genitori, che la nonna si tirava dietro nei suoi vagabondaggi metropolitani. Le serate alcoliche, con qualche intermezzo di sesso con Elvino per pagare la pigione, andarono avanti per un po’ fino a quando Gargiulo decise che era il momento di far provare al figlio Mario, per la prima volta in vita sua, il sesso con una donna. Mezzo sbronzo o poco interessato, il ragazzo non riuscì ad avere un rapporto e la donna, ubriaca anche lei, iniziò a insultarlo e a deriderlo. E a questo punto le versioni di padre e figlio divergono e resteranno contrastanti fino alle sentenze definitive.
Mario: Luigina mi sfotteva, non ci ho visto più e l’ho strozzata. Valentina piangeva, piangeva, papà s’è arrabbiato e l’ha ammazzata a bastonate. Poi abbiamo fatto a pezzi i cadaveri, li abbiamo bruciati e siamo andati a Anzio a buttarli in mare. Elvino: mio figlio è salito in camera poi non so che è successo, ma a un certo punto la bambina s’è messa a strillare, io le ho dato una manata, lei è caduta e io mi sono attaccato alla bottiglia e mi sono addormentato. La mattina dopo Luigina e Valentina non c’erano più e Mario m’ha raccontato che se ne erano andate… Non so altro. Manette, arresto confermato per entrambi, poi scatta una ricerca che durerà giorni e giorni sotto i riflettori: dove sono finiti i cadaveri? La baracca e i dintorni sono un cimitero di ossa: topi, gatti, cani, resti non identificati e gli investigatori li raccolgono, li esaminano, li catalogano mentre in strada un truppone di cronisti, fotografi, cameraman e curiosi mantiene la posizione per ore e ore mentre, come sempre, serpeggiano le voci più deliranti: satanismo, cannibalismo, orge, omicidi rituali e chi più ne ha più ne inventi. Si mormora di un’amante segreta di Elvino Gargiulo e, all’arrivo di una bella bionda appariscente, tutti sussurrano: è lei, è lei, ma si trattava dell’avvocato difensore. Per fortuna, a quei tempi, il rapporto con le fonti era molto più aperto e leale rispetto a oggi e i giornalisti potevano parlare direttamente con gli investigatori, non accontentarsi dei comunicati stampa della procura e delle soffiate incontrollabili e quasi sempre interessate come succede oggi (sì, ogni riferimento a fatti realmente accaduti è assolutamente intenzionale, vedi i gialli di Garlasco, Rimini e Trieste).
Il processo in Corte d’assise fu una kermesse con Elvino (che nel frattempo s’era fatto crescere una barba da profeta che lo rendeva ancora più inquietante) a ribadire che non c’entrava, in tono secco ma quasi rassegnato all’inevitabile, e il figlio che balbettando, impappinandosi, contraddicendosi, confermava sostanzialmente la sua confessione. La sentenza, l’11 aprile del 1997, fu quella che molti aspettavano: 26 anni al padre, 16 al figlio con la parziale incapacità di intendere e di volere. Ma c’era ancora la vicenda di Luca Amorese in sospeso. Il processo per l’assassinio del calciatore in erba fu tutta un’altra storia anche perché, allora, le condanne per omicidio, quando non saltava fuori il corpo della vittima, erano molto più rare rispetto a oggi, come in molta giurisprudenza d’oltreconfine dove se non c’è cadavere non c’è assassino. Un’amica di Gargiulo raccontò che l’uomo le aveva fatto scrivere l’indirizzo dei genitori sulla busta della lettera. L’agenda dell’Alitalia con una pagina stracciata saltò fuori nella baracca, ma niente sembrava provare che il Pelè del Quadraro fosse stato, effettivamente, assassinato. E, infatti, la prima condanna fu di soli 5 anni per abusi sul minore, ma Elvino venne assolto dalle imputazioni di sequestro e omicidio. La procura continuò gli accertamenti e il 20 dicembre del 2000 la prima sentenza venne capovolta: 22 anni. Il corpo dello sventurato ragazzino non è mai stato ritrovato.
Cinque anni dopo, l’Orco del Quadraro morì in galera. Come? Mai saputo, ma sembra sia stato picchiato a morte dagli altri detenuti, classica giustizia sommaria carceraria cui i pedofili e i violentatori, in genere, sfuggono raramente.
Finita? No, non ancora, resta un epilogo quasi in rosa. Sì, perché a Rebibbia Mario Gargiulo trovò l’amore. Il fidanzato era un altro personaggio che aveva fatto scalpore sulle pagine dei quotidiani: Tullio Brigida, proprio lui, l’uomo che nel gennaio del 1994 aveva ucciso i tre figli Laura, Armandino e Luciana di 13, 8 e 3 anni, soffocandoli col gas del tubo di scarico della macchina, e li aveva seppelliti nelle campagne vicino Civitavecchia per poi farli ritrovare dagli investigatori. Movente: vendicarsi della ex moglie. Tullio e Mario fecero coppia fissa, mangiavano, dormivano e vivevano fianco a fianco nella stessa cella, fino a quando la direzione del carcere decise di separarli con gran dolore di entrambi. Qualcuno sussurrò che il ragazzo avesse addirittura tentato il suicidio, ma non è vero. Mario Gargiulo adesso è libero, dopo un periodo di affidamento ai servizi sociali, vive con un compagno e sembra aver recuperato quel minimo di equilibrio necessario a tirare avanti. Questo sarebbe veramente il finale, ma manca ancora qualcosa… Un film, ovviamente. Potevano non farlo? Eccolo, nell’attesa di una proposta dello staff di Quentin Tarantino: “Il mostro del Quadraro”, regia di Alessandro Galluzzi, docuserie in due episodi, disponibile su Sky e altre piattaforme streaming. Buona visione. Ma forse non saranno in molti a volersi sentir raccontare, ancora una volta, questa storia dell’orrore.