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L'editoriale dell'elefantino

Manfredi Catella si merita una gran serie tv

Giuliano Ferrara

Antropologia di un imprenditore hollywoodiano, capace di costruire bene molti spazi utili e costosi. Niente a che fare con l’inchiesta di  “democrazia urbanistica” e chat dei pm dell’Egalité allo zafferano

Questo Catella, nominato Manfredi dall’ultimo re Hohenstaufen, è un personaggio hollywoodiano. Si spera nell’approntamento di una serie su di lui, sulla Milano da sviluppare e arricchire (reato), che parta magari dalla sua liberazione dai ceppi domiciliari e dalla contemporanea chiusura del Leonka (potevano risparmiarsela, quest’ultima smargiassata in onore della proprietà privata). C’è tutto per una buona sceneggiatura. L’attentato alla democrazia urbanistica, un reato che nemmeno il compianto Dario Fo avrebbe potuto sognare. Cartuccelle, fatturine che svolazzano, chattine in libertà, spesso anche ironiche (reato), incarichi professionali retribuiti (reato), giornalese di procura che si inchina al dogma dell’eguaglianza di fatto (Milano per tutti e per tutti la stessa Milano, i grattacieli sono troppo alti, e via col body shaming delle torri), la famosa grottesca censura del conflitto di interessi (reato) mascherata da corruzione (chiacchiera), concussione (chiacchiera), sacco del centro che nemmeno Ciancimino a Palermo. Che scandalo gli imputati a piede libero, liberissimi di fuggire, di inquinare le prove che non ci sono, gli indizi che latitano, e di ripetere i reati di ironia, chattaggio, condivisione del potere amministrativo e imprenditoriale, liberi di affogare negli investimenti dei fondi esteri, di disperdersi nei boschi, uccel di bosco verticali. Si domanda il Corrierone, con modi piuttosto pusilli: sono liberi perché non ci sono indizi, secondo due diversi collegi del Tribunale del Riesame, o perché sono corrottissimi da lasciare in circolazione garantista? Una domandona. 


Fatto sta che Manfredi dev’essere molto ricco, ha un’aria da bellâtre in doppiopetto e abbondante pelo sale e pepe, aderenze internazionali sospette, moglie forestiera, tratta il sindaco, il borgomastro, da dipendente (ma dove? ma quando?), evoca lo charme discreto del grattacielaro, nuova versione del vecchio palazzinaro romano, “mi consenta dottor Sala, che cosa le serve?”, però poi mette un paio di avvocati, si fa Ferragosto in casa agli arresti domiciliari, e un collegio giudicante buca l’inchiesta chattante come un palloncino sgonfio, con tutto il rispetto per il minuzioso lavoro cronistico e pettegolo dei procuratori dell’Egalité allo zafferano. La serie è pronta e ha il suo protagonista, altro che “Succession”, altro che “Logan Roy”. Il mestiere del patron di Coima, padrone di un’industria di edilizia e tecnologia, è convogliare capitali, attivare progetti, discutendone con chi governa una città, non con la Procura di Porta Vittoria, e costruire bene e in poco spazio molti spazi utili e costosi da collocare sul mercato, creando lavoro e valore, pagando gli oneri richiesti, le tasse, e facendo anche quel di più, tipo gli studentati, che consenta di vivere e studiare a Milano senza, come oggi, scucire quei 750-mille euro che non tutti possono permettersi, se non siano nati in Corso Venezia. Per fare questo è stata inventata l’alleanza di denaro, imprenditoria, cultura e potere civico da elezione popolare. L’impressione è che quel lavoro lo abbia fatto, è gente di mestiere, evidentemente, e da quanto finora emerso bisognerebbe, come nel romanzo della Edmonde Charles-Roux e nel film di Francesco Rosi, “Dimenticare Palermo”, e già che ci siamo dimenticare anche Rod Steiger, che in un certo senso a Manfredi potrebbe assomigliare, nel celebre e giustamente celebrato “Le mani sulla città”. Altre serie, altre licenze edilizie, altri sceneggiatori. Benvenuto tra noi semiliberi, dottore Catella.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.