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editoriali
Un passo in avanti sulle carceri c'è
Il decreto del governo non è sufficiente ma è necessario. Con un dubbio
La situazione delle carceri italiane è notoriamente drammatica. Il caldo estivo, con le sue ondate eccezionali, ha aggravato condizioni già insostenibili in celle sovraffollate, spesso collocate in edifici vetusti dove introdurre impianti di areazione moderni è quasi impossibile. Il governo ha varato un decreto legge che prova a dare qualche prima risposta: pene alternative più accessibili per reati minori, percorsi dedicati ai detenuti tossicodipendenti, un piano di assunzione per mille agenti penitenziari. L’obiettivo, secondo il ministro Nordio, è ridurre di circa diecimila unità la popolazione carceraria. Obiettivo ambizioso, ma tutto da verificare. La crescita dei detenuti non è un fenomeno recente: deriva da anni di scelte ispirate a logiche giustizialiste, dall’assenza di amnistie o indulti, e da un uso eccessivo della custodia cautelare. Intanto, gli investimenti strutturali sono rimasti ai margini.
E’ qui che il decreto contiene una novità rilevante: un allegato tecnico con il piano 2025–2027 per l’edilizia penitenziaria. Si prevede il recupero o la creazione di 9.696 posti detentivi in tre anni, di cui 5.000 attraverso un’operazione di valorizzazione immobiliare degli istituti più obsoleti, da sostituire con nuove strutture moderne. Per una volta, non si parla solo di emergenze, ma anche di infrastrutture. Nella speranza che le infrastrutture vengano create non per incarcerare ancora di più, ma per rendere la vita di chi si trova incarcere non lontana da una condizione di decenza. Naturalmente, tutto questo non basterà. Ma è un inizio. E in una democrazia matura è bene riconoscere che le responsabilità sono diffuse e risalgono nel tempo. Non serve a nulla dare la colpa al governo attuale se quello precedente ha fatto altrettanto poco. Né basta dire “qualcosa si sta facendo” per dirsi soddisfatti. Ma che almeno ci si provi, con uno sguardo meno ideologico e più pragmatico, è già un passo avanti. Perché il modo in cui uno stato tratta chi ha perso la libertà misura la serietà della sua civiltà.
