La lotta Scarpinato vs Santoro sul "depistaggio" di Avola è una finestra sull'Italia pataccara

Luciano Capone

L'ex magistrato lo descrive come un depistatore, annunciando l'esito di un'inchiesta di Caltanissetta. Il giornalista, a lungo intercettato, denuncia i metodi della procura. Quando dava spazio alle patacche di Ciancimino andava bene, solo perché in linea con i teoremi dei pm

Quando il 18 luglio, sul Fatto quotidiano, è apparso un articolo dell’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato che descriveva la storia d’Italia come una continua manipolazione da parte di una struttura intrecciata di servizi segreti deviati, destra eversiva e mafia, eravamo rimasti sorpresi che in questa metastoria fosse stato infilato pure Michele Santoro.

 

L’ex magistrato e ora senatore del M5s, infatti, citava come uno degli ultimi “subdoli tentativi di depistaggio” quello attuato “nel 2021 facendo scendere in campo il collaboratore di giustizia Maurizio Avola” con le sue dichiarazioni false sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. Senza mai citarlo, Scarpinato se la prendeva con un’operazione editoriale del giornalista. Santoro, infatti, nel 2021 ha pubblicato un libro che ha fatto discutere per un po', dal titolo “Nient’altro che la verità” (Marsilio), contenente le “rivelazioni” del killer di Cosa nostra Maurizio Avola che si autoaccusava di aver partecipato all’uccisione del giudice Paolo Borsellino e raccontava una versione su alcuni aspetti poco chiari della strage, escludendo la presenza di entità esterne alla mafia.

 

Quella frase sibillina di Scarpinato diventa più chiara adesso, dopo un articolo del Fatto quotidiano che racconta che Santoro, insieme al giornalista Guido Ruotolo, è stato a lungo intercettato dagli ex colleghi di Scarpinato della procura di Caltanissetta che hanno indagato l’ex collaboratore di giustizia Avola per calunnia aggravata. La tesi dei pm, che hanno riempito un faldone di intercettazioni telefoniche e ambientali del giornalista, è che questo Avola autoaccusandosi e coinvolgendo un altro mafioso “avrebbe potuto – riporta il Fatto – portare alle incriminazioni di soggetti estranei alla strage di via D’Amelio, ma ciò che è più grave a precludere ogni ulteriore sviluppo investigativo alle piste del coinvolgimento nella fase ideativa ed esecutiva delle stragi di soggetti esterni a Cosa nostra”. Non solo i racconti di Avola si sono rivelati falsi, perché ad esempio è emerso che la sua presenza sul luogo della strage a Palermo il 19 luglio 1992 era impossibile visto che il giorno prima era stato fermato a Catania per un controllo e aveva un braccio ingessato, ma sarebbero delle ricostruzioni “costruite a tavolino” che “rappresentano “un ennesimo tentativo di depistaggio”.

 

L’ipotesi di accusa nei confronti di Avola è, insomma, esattamente quella preannunciata da Scarpinato. In questa vicenda, Santoro sarebbe una sorta di depistatore a sua insaputa, una specie di utile idiota manovrato dal falso pentito Avola, a sua volta manovrato da non si sa chi. I pm, infatti, criticano severamente il lavoro dei giornalisti che hanno “in definitiva operato la scelta di recepire in modo acritico le dichiarazioni rese da Maurizio Avola riportandone il contenuto nello scritto senza in alcun modo svolgere un vaglio critico”.

 

Santoro, che dalle indagini riportate dal Fatto, risulta aver persino pagato l’ex killer di Cosa nostra per la partecipazione al libro, si è risentito per questo trattamento “grave” da parte della procura di Caltanissetta che rappresenta una “lesione della nostra libertà di giornalisti di condurre un’inchiesta”. E c’è da capirlo. D’altronde, quando era il più importante tribuno del paese non aveva fatto altro che applicare lo stesso metodo con Massimo Ciancimino: Santoro portò in prima serata, praticamente senza filtro, uno dei più grandi pataccari della storia della mafia e dell’antimafia. Il figlio di Don Vito, peraltro, raccontava cose ben più incredibili e surreali delle autoaccuse di Avola di aver partecipato a una strage. Ciancimino Jr, ad esempio, raccontava di un fantomatico “Signor Franco”, un misterioso agente dei servizi segreti deviati mai individuato perché mai esistito che faceva da raccordo tra lo stato e la mafia.

 

Eppure tutti lo prendevano sul serio, nonostante stesse depistando le indagini. In quel caso Santoro non venne pedinato, nemmeno intercettato né interrogato, sebbene le storie raccontate da Ciancimino che il giornalista metteva in scena nel suo show fossero delle evidenti e colossali fesserie che hanno dato impulso al decennale processo sulla Trattativa stato mafia. Il lavoro giornalistico di Santoro fu lasciato libero perché in quel caso coincideva con il teorema accusatorio della procura di Palermo, che prendeva sul serio i depistaggi di Ciancimino Jr tanto da definirlo, come fece il pm Antonio Ingroia, “un’icona dell’antimafia”.

 

Alla fine pare essere questo il discrimine tra l’essere un buon giornalista o un depistatore: non tanto il metodo del proprio lavoro, ma l’essere o meno in sintonia con la procura. E questo non è un buon segnale per il giornalismo perché molti depistaggi, si pensi solo al caso Scarantino, sono avvenuti sotto gli occhi degli inquirenti. Un giornalista che avesse avuto il coraggio di andare controcorrente, magari sbagliando, forse sembrando un po’ matto, avrebbe reso un buon servizio alla giustizia. Migliore di quello dei magistrati che hanno fatto condannare persone innocenti.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali