Nessuno tocchi Davigo

Luciano Capone

La nemesi dell'ex pm. Per ribaltare la condanna a Brescia, Davigo si sceglie l’avvocato degli “indifendibili” Cesare Battisti e Vallanzasca: l'iper-garantista Steccanella, secondo cui Davigo non aveva l’“equilibrio” per fare il giudice ed era l'eblema mediatico di una “becera cultura" giustizialista

Davide Steccanella è l’avvocato degli “indifendibili” Cesare Battisti e Renato Vallanzasca. E ora anche di Piercamillo Davigo. Non è corretto giudicare un avvocato dagli assistiti che decide di difendere e, specularmente, neppure un imputato dal legale che si sceglie. Ma questa vicenda è interessante per la nemesi, o comunque per l’ironia del destino, che fa intrecciare il percorso umano e professionale di un magistrato iper-giustizialista divenuto imputato con quello di un avvocato iper-garantista.

 

Nei giorni scorsi, l’ex pm di Mani pulite ha depositato presso la Corte d’appello di Brescia il ricorso di 30 pagine contro sentenza la condanna del Tribunale bresciano, emessa esattamente un mese fa, a un anno e tre mesi per rivelazione del segreto d’ufficio riguardo la vicenda dei verbali sulla fantomatica “loggia Ungheria”. Fin qui, tutto normale. La novità è che per questo importante ricorso Davigo ha potenziato il suo team di avvocati affiancando a Francesco Borasi, che l’ha difeso senza successo in primo grado, Davide Steccanella. Si tratta di un noto avvocato milanese, formatosi da uno dei grandi vecchi del foro di Milano come Lodovico Isolabella, con idee liberal-radicali sulle condizioni dei detenuti (che ha affrontato rispetto al trattamento disumano riservato proprio a Battisti e Vallanzasca), a sostegno della battaglia di Alfredo Cospito insieme a “Nessuno tocchi Caino” contro il 41-bis e l’ergastolo ostativo.

 

Steccanella ha raccontato i suoi 35 anni di carriera nelle stanze del Palazzo di giustizia milanese in un libro, pubblicato l’anno scorso, intitolato “La giustizia degli uomini” (Mimesis), che espone un’idea garantista opposta al manifesto giustizialista, appunto intitolato “Giustizialisti” (Paper first), che Davigo ha scritto a quattro mani con l’ex amico e collega al Csm Sebastiano Ardita. E qui c’è il primo capovolgimento, visto che il garantista Steccanella difende il giustizialista Davigo proprio contro l’ex compagno di corrente giustizialista Ardita, parte civile nel processo che vede Davigo condannato per aver usato i verbali di Amara contro Ardita per fagli “terra bruciata intorno” (il tribunale di Brescia ha condannato l’ex pm di Mani pulite a un risarcimento di 20 mila euro).

 

Ma l’aspetto più umanamente paradossale di questa storia emerge leggendo “La giustizia degli uomini”, perché nel libro l’avv. Steccanella descrive da un lato due idealtipi di avvocati “di una volta”, incarnati nel suo maestro Isolabella e nell’avv. Corso Bovio, dall’altro modelli di “pm militanti”, incarnati da Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Solo che se Boccassini viene descritta come un esempio positivo per la “devozione ai limiti del maniacale allo stato” e perché “a differenza di molti suoi colleghi, aborriva qualsiasi esposizione mediatica”, Davigo viene presentato come un modello negativo. Steccanella gli riconosce abilità e preparazione, ma non l’equilibrio: “È un vero peccato – scrive l’avvocato nel capitolo dedicato a Davigo – che, a un certo punto, abbia deciso di fare il giudice, prima in corte d’appello, poi in cassazione e infine come giudice dei giudici al Csm. Ritengo che ciascuno dovrebbe assecondare la propria indole, e quella di Davigo era ontologicamente accusatoria, cosa che lo portava a ritenere non esistessero imputati innocenti, ma solo imputati che erano riusciti a farla franca. Ciò gli impediva, nonostante l’indubbia preparazione giuridica e l’arguzia di pensiero, di avere quell’equilibrio necessario per chi è chiamato a giudicare e non ad accusare”.

 

L’altra accusa che Steccanella muove a Davigo è la sovraesposizione mediatica che alimenta la cultura manettara: “Nell’ultima fase della sua carriera compare spesso in Tv: grazie a un eloquio e a un carisma obiettivamente superiori a quelli di altri suoi colleghi, tutti volevano infatti averlo come ospite. Devo tuttavia aggiungere che è facile scatenare applausi dicendo che i ladri devono andare in galera. Ho sempre avuto l’impressione che fosse rimasto l’unico del celebre terzetto a rimpiangere quel periodo in cui l’Italia intera tifava per le loro manette: infatti, ormai Di Pietro si è messo a fare altro, mentre Colombo sostiene da anni che il carcere è un’istituzione superata e nociva”.

 

Il terzo capo d’imputazione, se così lo si può definire, riguarda gli attacchi di Davigo all’avvocatura. “Ciò che è certo è che non riconosceva particolare autorevolezza agli avvocati – scrive di lui Steccanella –. Mi intristisce ricordare quanto dichiarò, a proposito della nostra categoria, durante il dibattito sulla riforma della prescrizione penale. Alcune esternazioni di Davigo sulla figura dell’avvocato mi parvero il prodotto finale di una cultura becera che, da troppi anni, ci dipingeva come furbastri dediti, con metodi degni del peggior azzeccagarbugli, a lucrare sul crimine impunito, contrastando con ogni cavillo possibile il serio lavoro dei magistrati, unico baluardo a difesa del paese altrimenti preda di una pletora di ladri. Bastava del resto leggere le argomentazioni che sorreggevano quella riforma per comprendere questo punto: il principale accusato era di fatto il legale, reo di interporre impugnazioni previste per legge al solo fine di consentire al proprio cliente di farla france, a discapito delle vittime dei peggiori misfatti”.

 

L’avvocato di Davigo evidenzia anche come la diffusione di questa “becera” cultura giustizialista, incarnata dal suo attuale assistito, sia prodotta “dall’asservimento dei media alle procure, come risulta evidente osservando le modalità attraverso le quali, da tempo, viene quotidianamente data notizia di arresti preventivi o condanne provvisorie, rispetto a quelle che raccontano invece di assoluzioni o scarcerazioni”. Un garantista a 24 carati, insomma, che rispetto agli attacchi di Davigo avrebbe “gradito leggere qualche intervento critico da parte di qualche magistrato” a difesa del ruolo degli avvocati e del diritto di difesa: “Ma, purtroppo, non si è levata alcuna voce fuori dal coro e quando, all’inizio dell’intervento del dottor Davigo all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2020, la Camera Penale di Milano inscenò una simbolica protesta silenziosa uscendo dall’aula magna, quel gesto venne tacciato d’essere un attentato alla libertà di pensiero da parte degli avvocati”.

 

Il processo di Brescia, che ha terremotato la procura di Milano e anche il Csm, ha probabilmente sconvolto anche alcune radicate convinzioni giustizialiste con il passaggio dal ruolo di inquisitore a quello di imputato. Alla fine Davigo, che aveva una pessima considerazione degli avvocati, ha scelto un avvocato che aveva una pessima considerazione di lui. I processi, soprattutto quando vissuti dall’altro lato della sbarra, spesso cambiano le persone. E chissà che al termine di questa disavventura giudiziaria, magari dopo essere stato assolto – o dopo averla “fatta franca” come direbbe lui – Davigo non decida insieme all’avvocato Steccanella, impegnato in tante battaglie radicali per la giustizia giusta, di fondare un’associazione per promuovere i diritti dell’imputato. C’è già il nome: Nessuno tocchi Piercamillo.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali