Bruno Contrada dopo la scarcerazione nel 2012 (Ansa)

Il Foglio del weekend

I fantasmi dell'antimafia. Voci di pentiti pataccari e zero prove

Riccardo Lo Verso

Dall’ex poliziotto Giovanni Aiello, “faccia da mostro” sempre archiviato, a Bruno Contrada, condannato ingiustamente. Così il chiacchiericcio fraudolento diventa verità in atti giudiziari, trascinando con sé gli innocenti

“Si è portato i segreti nella tomba”, ripetono gli inquisitori nel venefico refrain dell’antimafia. E’ il sigillo dell’eterna dannazione. I morti non possono difendersi. Infarto, ha stabilito l’autopsia. L’ex poliziotto Giovanni Aiello voleva essere cremato, ma è stato seppellito. A distanza di sei anni dal decesso può sempre servire un nuovo rilievo sulla salma. Il suo legale, l’avvocato Eugenio Battaglia, ha scritto una prima volta alla Procura di Catanzaro che ha espresso il diniego sulle ultime volontà del defunto. Ci ha riprovato una seconda volta. Tutto tace. Il fantasma dell’antimafia, dal volto sfregiato, libero da vivo rimane agli arresti da morto. Era il 1967 quando un colpo partito accidentalmente dal proprio fucile lo raggiunse alla mandibola destra mentre era in servizio a Nuoro. Da allora, e per sempre, Giovanni Aiello divenne “faccia da mostro”. A ogni inchiesta, a ogni spiffero investigativo, ad ogni rigurgito di pentito spunta l’ex poliziotto. Il suo cuore lo ha tradito nel 2017, a 71 anni, mentre spingeva la barca a Montauro, paesino sulla costa catanzarese. Lo hanno inquadrato nei servizi segreti, seppure gli stessi servizi abbiano ufficialmente smentito il suo arruolamento. Catalizzatore di sospetti, calamita delle peggiori ipotesi, è stato sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia, massacri di uomini in divisa e civili. Mai una misura cautelare, però. Diverse Procure hanno indagato, finendo per chiedere l’archiviazione ogni qualvolta venisse risucchiato nel gorgo che qualcuno si ostina a chiamare giustizia. Confronti, esami del Dna, intercettazioni: niente prove contro Aiello diventato il bersaglio dei pentiti del “mi hanno detto che…”.

 

Hanno raccolto, de relato, confidenze qua e là e le hanno riversate nei verbali. Aiello è stato accusato di avere partecipato a una lunga, lunghissima stagione di crimini e misfatti. Già metterli in sequenza provoca una certa impressione. Si è detto che Aiello fosse presente alle riunioni nel rione Acquasanta di Palermo, in quel luogo dal macabro soprannome, lo scannatoio, da dove partirono i killer che uccisero il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1982 e il magistrato Rocco Chinnici nel 1983. Hanno raccontato che avesse imbracciato il “fucile di precisione” per uccidere i poliziotti Ninni Cassarà e Roberto Antiochia nel 1985, e Natale Mondo nel 1988. Omicidi che gli uomini d’onore festeggiavano, con tanto di brindisi, al ristorante. Insieme a loro c’era sempre Aiello. I ragazzini della borgata facevano baldoria e i boss li zittivano minacciando di chiamare il “mostro” sfregiato in volto. Lo hanno accusato di avere partecipato, nel 1986, all’omicidio di Claudio Domino, che aveva soli undici anni quando gli spararono un colpo di pistola alla testa. Un delitto mai chiarito. Un boss del calibro di Giovanni Bontate, fratello di Stefano, il principe di Villagrazia, uno dei primi a essere travolto dalla furia corleonese, prese la parola durante il maxi processo per dire che Cosa nostra nulla c’entrava: “Siamo uomini, abbiamo figli, comprendiamo il dolore della famiglia Domino. Rifiutiamo l’ipotesi che un atto di simile barbarie ci possa sfiorare”. Il boss finì per confermare l’esistenza di un’associazione mafiosa unitaria.

 

Aiello lo hanno accusato di avere fornito il telecomando per il fallito attentato all’Addaura in cui, nel 1989, doveva morire Giovanni Falcone. Di avere coperto la fuga dei killer dell’agente e cacciatore di latitanti Antonino Agostino massacrato, sempre nel 1989, assieme alla moglie Ida Castelluccio. Di avere schiacciato il pulsante che scatenò l’inferno di via D’Amelio nel 1992. Di avere ricevuto l’incarico di “liquidare” l’urologo Attilio Manca che sarebbe stato ucciso nel 2004 per essersi rifiutato di curare Bernardo Provenzano. Per ultimo il nome di Aiello è stato tirato dentro l’inchiesta di Reggio Calabria che ipotizza un patto tra mafia e ‘ndrangheta nell’attacco sferrato allo stato, tra il 1993 ed il 1994. Il là investigativo su Aiello era arrivato da Gianfranco Donadio, oggi procuratore di Lagonegro, quando era aggiunto della Direzione nazionale antimafia e componente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro. Aveva raccolto, tra le altre, le rivelazioni di Nino Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Il nano, così viene soprannominato Lo Giudice, prima si pentì, poi si pentì di essersi pentito, e infine si ripentì di essersi pentito del pentimento. Sul piatto della sua credibilità offrì il volto sfregiato di Aiello. Si ricordò all’improvviso delle minacce ricevute dall’ex poliziotto per non rivelare ciò che aveva saputo sul conto di Aiello. Un compare di cella all’Asinara gli aveva confidato che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino e gli agenti di scorta era stato “faccia da mostro”. Già che c’era aggiunse pure che Aiello aveva ammazzato l’agente Agostino e la moglie. In questo clima segnato dal tam tam mediatico sull’uomo sfregiato, Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto ucciso, fu convocato a Palermo per un confronto. Riconobbe in Aiello l’uomo che il giorno prima della scomparsa era andato a bussare a casa del figlio. Sul riconoscimento di “faccia da mostro” gli stessi pubblici ministeri dissero che bisognava tenere conto del comprensibile “condizionamento” esterno che faceva e fa di Aiello il colpevole perfetto. Nella richiesta di archiviazione dell’indagine i pm scrivevano che il riconoscimento non aveva “quella piena valenza probatoria che sarebbe indispensabile”. Era trascorso troppo tempo, Vincenzo Agostino era stato influenzato dalla presenza massiccia delle foto di Aiello sui media e poi nel corso degli anni aveva già riconosciuto altre persone.

 

Aiello incarna il ruolo del mostro per tutte le stagioni. Se ne andava a braccetto assieme ad altri fantasmi. Primo fra tutti “il signor Franco”, personaggio inventato dalla mente di Massimo Ciancimino, cerniera fra il padre, don Vito, ex sindaco mafioso di Palermo, Bernardo Provenzano e i traditori di stato scesi a patto con la mafia durante la trattativa (che non ci fu, sentenza della Cassazione alla mano). Ciancimino disse che Aiello era un funzionario regionale. Gli affibbiava un ruolo subalterno. “Di certo non una personalità di alto livello. Non come il signor Franco”, diceva il super testimone andato a sbattere contro la cruda verità. “E’ lui”, disse guardando l’immagine dell’uomo accanto all’ex premier Mario Monti e all’ex presidente del Senato Renato Schifani. Era Ugo Zampetti, segretario generale del Quirinale e della Camera dei deputati. Fu solo l’ultimo riconoscimento farlocco. Già in precedenza, di fronte a un album con 33 scatti, l’inventore del papello pronunciò le parole “mi sembra il signor Franco” davanti alle immagini contrassegnate dai numeri 11, 12, 13, 14, 19, 22 e 23. Troppi per essere credibile, eppure tale è stato ritenuto per una lunga stagione giudiziaria. Aiello ha finito per prendere il posto dello stesso signor Franco, quando la fantasia di Ciancimino arrivò tanto in alto che il tonfo della caduta era troppo fragoroso per nasconderlo nel cassetto di una scrivania.

 

Venne poi il giorno in cui un altro pentito palermitano, Vito Galatolo, disse di avere visto traccheggiare Aiello con Bruno Contrada che guidava la squadra mobile di Palermo, dove per tre anni, e fino al congedo del 1977 per “turbe psichiche”, Aiello lavorò. Contrada è un altro fantasma dell’antimafia. All’età di 92 anni, di cui una fetta vissuta fra carcere e tribunali, all’ex numero tre del Sisde è stato spiegato che qualcuno ha malignamente deciso di piazzarlo nell’inferno della strage Borsellino. E’ andata più o meno così. Un carabiniere riferì di avere saputo da un amico e collega che Contrada si trovava in via D’Amelio. Lo aveva visto allontanarsi subito dopo l’esplosione della 126 imbottita di tritolo e parcheggiata sotto la casa della madre di Paolo Borsellino. La sua presenza era stata annotata in una relazione di servizio, misteriosamente strappata. Da chi non è dato sapere. La notizia, arrivata alle orecchie dei magistrati, nel passaggio dal chiacchiericcio alla trascrizione in un atto giudiziario è diventata vera. Una verità di cartapesta, hanno detto di recente i giudici. Nessuno però, il che non poteva lasciarlo indifferente, aveva definito Contrada “il diversivo giusto”. Così hanno scritto i magistrati del Tribunale di Caltanissetta nella motivazione della sentenza sul cosiddetto depistaggio nelle indagini sulla strage del ’92. La paternità dell’appellativo, in verità, è di Fabio Trizzino, avvocato dei familiari del magistrato assassinato e marito di Lucia, una delle figlie di Borsellino. C’è un intero paragrafo intitolato “l’asserita presenza di Contrada in via D’Amelio” nelle lunghe motivazioni della sentenza. I giudici si chiedono “perché in un arco temporale prossimo alla strage ci si sia dedicati a diffondere la notizia, poi rivelatasi falsa, della presenza di Bruno Contrada in via D’Amelio poco dopo l’esplosione. A vantaggio di chi?”. Già, perché?

 

Il Tribunale mette sul piatto una risposta: “Se ne giovò chi aveva tutto l’interesse a far sì che le matrici non mafiose della strage di Via D’Amelio non venissero svelate nella loro reale consistenza”. Si ripete la tendenza delle toghe a tracciare scenari futuribili, a indicare nuovi percorsi di approfondimento investigativo. Si guarda lontano in un orizzonte sempre più rarefatto e si finisce per perdere di vista la portata della bugia, una delle tante per la verità, su cui si è costruita anche la storia del mostro Contrada, infedele poliziotto e uomo dei servizi segreti deviati. A puntellare la storiaccia intervenne l’immancabile collaboratore di giustizia, di quelli che nulla (o quasi) sanno, ma molto dicono. Stavolta si fece avanti tale Francesco Elmo. Non solo confermò la presenza di Contrada nel luogo della strage, aggiunse pure il dettaglio dei dettagli. In un crescendo dichiarativo da spy story raccontò che casualmente si trovava nei pressi del luogo della strage. Era lì proprio nel momento in cui udì l’esplosione. Con un tempismo che lascia sgomenti, tra brandelli di corpi, lamiere contorte di auto fumanti e balconi sventrati, si era avvicinato e vide “Contrada allontanarsi con una borsa o qualcosa in mano, dei documenti”. Il pensiero corre subito all’agenda rossa del magistrato, alla borsa dei misteri su cui si sono soffermati i giudici del depistaggio per bacchettare l’ex magistrato Giuseppe Ayala, amico di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, e pubblico ministero del maxi processo. Ayala ha cambiato versione negli anni. Prese lui la borsa e la consegnò ad un uomo in abiti civili. Anzi no, era in divisa. Poi ci ripensò, non era stato lui. “Un numero inspiegabile di mutamenti di versione”, si legge nella motivazione. Ayala si è appellato alla causa esimente dello sgomento che ha reso confusi i ricordi. Si era imbattuto nel cadavere “del mio amico Paolo, che era senza gambe e senza braccia. Ho fatto fatica a riconoscerlo”. Stando alla teoria della “asserita presenza” sgomento non dovette provare l’imperturbabile Contrada. Sull’onda di una bugia hanno inventato la teoria dei servizi segreti deviati che hanno coperto le nefandezze dei mafiosi stragisti. La faccia dell’ex poliziotto è stata il culmine di una ricostruzione popolata di traditori, sbirri e carabinieri infedeli. Infine il Tribunale ha scritto che Contrada, in quel periodo già “caduto in disgrazia per le confidenze rivelate da Gaspare Mutolo a Paolo Borsellino circa una sua contiguità con l’organizzazione mafiosa”, divenne un attrezzo di scena usato da chi voleva distrarre l’attenzione sui mandanti esterni che ordirono le stragi o agirono assieme ai mafiosi. Un depistaggio nel depistaggio costruito sulle menzogne del falso pentito Vincenzo Scarantino. Un venditore di patacche che la magistratura si è bevuto con troppa facilità per essere immune da responsabilità. Come si è potuto dare credito a chi riduceva la riunione mafiosa per deliberare le stragi del ‘92 a “una mangiata da lunedì di Pasquetta”? Bella domanda.

 

Nel frattempo le indagini si sono popolate di fantasmi. Alcuni in carne e ossa, come Aiello, o con una memoria di ferro nel caso di Contrada. E poi ci sono gli impalpabili. Come l’uomo misterioso che secondo Pietro Riggio, uno degli ultimi pentiti-sceneggiatori, premette il telecomando che azionò il tritolo usato per la strage di Capaci. Mica fu Giovanni Brusca: il boia di San Giuseppe Jato crede di essere stato lui, ma fu qualcun altro. Come il mister X che armeggiava nel garage della periferia di Palermo dove i boss imbottirono di tritolo la Fiat 126 utilizzata per fare saltare in aria Borsellino e la scorta. Come l’artificiere “in abito scuro, elegantissimo”, che i mafiosi d’America inviarono in Sicilia per preparare l’attentatuni contro Falcone. Come la donna “agente segreta e libica” che, sempre secondo Riggio, assieme a un altro ex poliziotto, Giovanni Peluso, se ne andava in giro a Capaci nei giorni dell’eccidio. Fantasmi, nulla di più. La realtà è ben diversa. Il giorno della morte di Aiello gli sequestrarono la barca, la macchina, il telefonino e alcuni gioielli. Nonostante il decesso avesse portato alla chiusura dell’inchiesta a suo carico, la Procura di Reggio Calabria riteneva giusto mantenere il sequestro “al fine di completare i dovuti approfondimenti volti ad accertare la presenza di elementi di prova in grado di allargare il quadro indiziario a disposizione, non potendosi escludere l’estensione dello stesso ad altri soggetti”, fra cui l’immancabile Contrada. L’accusa parlava di “strumentabilità probabotoria”. Il giudice per le indagini preliminari ha dissequestrato tutto. “L’intera vicenda si muove in un ambito di ipoteticità impalpabile”, scrisse il gip in maniera lapidaria. Impalpabile, proprio come i fantasmi dell’antimafia. 

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