Si dovrebbe chiedere al Parlamento di migliorare in diversi punti il testo concordato in commissione. Nella foto, il carcere di Rebibbia (Ansa) 

Fine pena, come non dire mai

Giovanni Fiandaca

Sull’ergastolo ostativo la commissione Giustizia della Camera ha licenziato un nuovo testo, già approdato in Aula. Qualche parte è ancora discutibile: sui criteri per ottenere i benefici si può fare  di più e meglio

Una premessa, utile soprattutto per i non addetti ai lavori. Con ordinanza n. 97 del 2021 la Corte costituzionale (in coerenza con la precedente sentenza n. 253/2019 in tema di ergastolo ostativo e permessi-premio) ha riconosciuto, ma non formalmente dichiarato, l’illegittimità del divieto assoluto di accesso alla liberazione condizionale da parte dei condannati all’ergastolo “non collaboranti” con la giustizia. La Corte ha opportunamente rinunciato a emettere subito una pronuncia puramente demolitrice per porre il Parlamento in condizione di predisporre, entro un anno di tempo, una nuova disciplina legislativa atta a bilanciare in modo equilibrato le concorrenti esigenze in campo. 

  
Diversamente da quanto è accaduto rispetto alla vicenda costituzionale procedimentalmente analoga del suicidio assistito, in cui la Consulta è intervenuta una seconda volta con una pronuncia di incostituzionalità per inadempienza del potere legislativo, questa volta il legislatore parlamentare sembra invece intenzionato a raccogliere l’invito a (ri-)legiferare: la commissione Giustizia della Camera ha infatti licenziato un nuovo testo dell’art. 4 bis ord. penit. (insieme a modifiche di altre disposizioni rilevanti per connessione) oggetto di maturato accordo tra le forze politiche, e già approdato in Aula. A giudizio di uno studioso di lungo corso come chi scrive, le modifiche in discussione sollecitano rilievi in più direzioni. 
Nell’impostazione di fondo, le principali linee ispiratrici della nuova disciplina concordata recepiscono in larga misura indicazioni derivanti dalla più recente giurisprudenza costituzionale in materia. Si allude, innanzitutto, alla scelta di subordinare – in assenza di previa collaborazione – la concessione dei benefici penitenziari alla allegazione da parte dei detenuti interessati di elementi specifici che consentano di escludere non solo l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo di un loro ripristino. Invero, già i primi commentatori della sentenza costituzionale n. 253/2019 (che costituisce la fonte ispiratrice del doppio oggetto della verifica suddetta) avevano rilevato che è tutt’altro che facile verificare giudiziariamente il dato negativo dell’assenza del rischio di un futuro ripristino di collegamenti criminosi, dal momento che la logica probatoria postula la positiva materialità delle cose da provare. Ma le parti ancora più discutibili del testo normativo progettato sono quelle in cui si introducono requisiti aggiuntivi che possono apparire superflui o poco chiari, o addirittura privi di vera giustificazione sostanziale.

  
 Cominciando dalla parte superflua, alludiamo al punto in cui si richiedono elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti (non solo con la criminalità organizzata, ma anche) “con il contesto nel quale il reato è stato commesso”. Che significa? Una accertata mancanza di attuali legami con il crimine organizzato equivale, implicitamente, anche a una contestuale verifica dell’assenza di persistenti relazioni col contesto di riferimento della precedente attività criminosa. Oppure, il legislatore odierno vorrebbe altresì vietare che il condannato possa fruire delle misure ottenute (compresi i permessi-premio) nei contesti territoriali di provenienza, concependo una sorta di rieducazione per dir così extraterritoriale? 

   
Un punto non solo a nostro avviso poco felice, anche perché suscettibile di più interpretazioni, è quello in cui il nuovo testo presenta, a chiusura del comma 1 bis del modificato art. 4 bis ord. penit., la seguente formulazione: “Al fine della concessione dei benefici, il giudice di sorveglianza accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”. Alla stregua di una interpretazione strettamente letterale, sembrerebbe che si richieda la effettiva realizzazione di iniziative a favore delle vittime quale ulteriore presupposto necessario.

 

Senonché, la correttezza di tale ipotesi interpretativa può essere contestata per le seguenti ragioni. In linea generale l’attività riparativa, per potere davvero assurgere a elemento sintomatico di un affidabile percorso rieducativo, non può essere imposta ma deve essere (almeno in teoria) frutto di una opzione il più possibile spontanea. Non a caso, l’art. 13 del vigente ord. penit., nel definire le caratteristiche di un trattamento individualizzato, stabilisce – tra l’altro – che è offerta all’interessato l’opportunità di una riflessione anche “sulle possibili azioni di riparazione”: la prospettiva della riparazione dunque, lungi dall’essere in base ai principi del trattamento ritenuta doverosa, si prospetta piuttosto come una “possibilità” auspicabile. Inoltre, è da considerare che non tutti i condannati sono oggettivamente in condizione, per mancanza di capacità personali o di risorse materiali, di compiere significativi interventi a favore delle vittime, e ciò a prescindere da una effettiva disponibilità del singolo condannato a un autentico ravvedimento. Ancora, solleva qualche rilievo critico la specificazione che gli interventi suddetti sono realizzabili “sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”. A ben vedere, questa formula specificativa dice troppo e, al tempo stesso, troppo poco.

 

Senza potere qui spiegare le differenze tra riparazione in senso lato e giustizia riparativa in senso stretto (la prima già presente in diverse forme nel nostro ordinamento penale, la seconda in Italia poco sperimentata fuori dal circuito della giustizia minorile ma destinata ad avere maggiore spazio in futuro grazie alla recente riforma Cartabia del sistema sanzionatorio, ancora in corso di elaborazione), va in primo luogo notato che la riparazione latamente intesa non è circoscrivibile alle modalità risarcitorie in senso economico, ma può ben assumere forme immateriali anche a carattere ideale o simbolico. Quanto poi alla giustizia riparativa in senso proprio, di cui costituisce principale strumento operativo la cosiddetta mediazione tra autore e vittima gestita da un terzo esperto di procedimenti mediativi, è intuitivo come possa non risultare agevole farne diffusa sperimentazione nell’ambito di un sistema carcerario come il nostro, tradizionalmente privo di adeguate risorse non solo materiali. Si aggiunga che l’interazione mediativa presuppone, come condizione essenziale, il previo consenso non solo dell’autore ma prima ancora della vittima. Consenso che non è affatto scontato, essendo non pochi i casi in cui la vittima rifiuta, per motivi psicologici o morali, di confrontarsi con la persona che le ha causato danni e sofferenze: per cui la possibilità della mediazione rimane preclusa, quali che siano i passi avanti in direzione del ravvedimento compiuti dal reo. Se così è, il riferimento esplicito alla giustizia riparativa può anche apparire poco opportuno stanti le modalità assai generiche con cui è fatto e il contesto in cui è inserito. Pertanto, sarebbe forse preferibile modificare la formulazione normativa in discorso ad esempio nei seguenti termini: “Ai fini della concessione dei benefici, il giudice di sorveglianza accerta altresì se sussistano atti di riparazione o comunque iniziative dell’interessato a favore delle vittime” (una formulazione come questa rende chiaro che la dimensione riparativa non è obbligatoria, e l’uso dell’espressione “atti di riparazione” è a sua volta così ampia da poter includere l’eventuale ricorso a strumenti di giustizia riparativa in senso stretto). 

  
Priva di condivisibile ragione giustificatrice sembra, poi, l’assunzione a presupposto di ogni beneficio – a cominciare dal mero permesso-premio – dell’adempimento delle obbligazioni civili conseguenti alla condanna (adempimento finora richiesto ai fini della sola liberazione condizionale). Pur essendo ammessa la prova dell’impossibilità di adempiere, è già stato a ragione obiettato che anticipare l’obbligo in parola alle fasi iniziali di un processo rieducativo che comincia ad aprirsi alla realtà extracarceraria contraddice la ratio dei permessi, quale istituto finalizzato a favorire percorsi di risocializzazione potenzialmente sfocianti soltanto in momenti successivi in eventuali occasioni lavorative produttive di redditi utili anche per chiudere i conti con la giustizia.

  
Ancora, è da porre in evidenza un punto assai nevralgico che riguarda di nuovo l’accertamento giudiziario della avvenuta rottura dei collegamenti con il crimine organizzato, e che letteralmente parrebbe introdurre una vera e propria inversione dell’onere probatorio, in contrasto con le regole che dovrebbero in teoria presiedere alla verifica probatoria in materia sia penale che penitenziaria. Cioè il testo esitato dalla commissione dispone che, qualora dall’istruttoria svolta emergano indizi di persistente collegamento con la criminalità, “è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria”. Perché addossare questo onere probatorio allo stesso soggetto interessato? In realtà, la giurisdizione di sorveglianza può ben esercitare di ufficio i poteri istruttori necessari per estendere e approfondire la verifica probatoria, senza farne carico al condannato. Forse, il legislatore mostra in tal modo una preventiva sfiducia nei confronti del giudice di sorveglianza e delle sue capacità di accertamento,  esonerandolo da ulteriori verifiche che preferisce invece accollare alla stessa persona richiedente il beneficio così da farle per di più ‘pagare’ l’eventuale fallimento della prova contraria? Come che sia, sarebbe opportuna in proposito una disciplina legislativa più rispettosa dei principi generali. E’ troppo pretenderlo?  

  
Con più specifico riferimento all’istituto della liberazione condizionale, è previsto infine come novità rilevante – oltre all’esistenza delle condizioni richieste per la concessione dei cosiddetti benefici – un innalzamento delle soglie di pena detentiva che occorre aver scontato: cioè si passa da almeno metà (come è previsto fino a oggi) ad almeno due terzi della pena temporanea inflitta, e dagli attuali 26 anni ad almeno 30 quando vi è stata condanna all’ergastolo per qualcuno dei delitti indicati nel citato art. 4 bis. Questo aumento dei limiti di pena appare non poco discutibile anche rispetto agli ergastolani. Non è infatti la semplice elevazione di quattro anni della pena carceraria scontata che, di per sé, può assicurare maggiori potenzialità rieducative e, di riflesso, una minore pericolosità residuale dei mafiosi che chiedono di tornare in libertà. Molto si giuoca, piuttosto, sul versante dei trattamenti rieducativi che si riescono a promuovere all’interno degli istituti penitenziari. Ma purtroppo non risulta che agli strumenti e ai metodi della rieducazione intramuraria sia stata negli ultimi anni dedicata una rinnovata e approfondita riflessione, peraltro in una ottica necessariamente multidisciplinare, e ciò ancor meno è avvenuto rispetto al novero dei criminali organizzati (per ulteriori considerazioni rinvio a un mio contributo contenuto nel recente volume collettivo Contro gli ergastoli, curato da S. Anastasia, F. Corleone e A. Pugiotto, Futura, 2021): essendo la prospettiva della loro risocializzazione rimasta fin troppo appiattita su quella  – in sé stessa non univocamente sintomatica, come sappiamo, di autentica revisione critica del passato delittuoso –  della collaborazione giudiziaria. Eppure, dovrebbe essere superfluo esplicitare che ideare percorsi di cambiamento adeguati alle caratteristiche criminologiche degli appartenenti alla criminalità organizzata non sarebbe un favore concesso al singolo mafioso, bensì tenderebbe a soddisfare l’interesse generale a contrastare anche per questa via la riproduzione della delinquenza mafiosa. 

   
Vi è di più. Se altresì si considera che la soglia dei 30 anni potrà valere, in forza del divieto di retroattività della disciplina sanzionatoria più sfavorevole (cfr. sentenza costituzionale n. 32/2020, nonché l’intervento di S. Anastasia nel Manifesto del 2 marzo scorso), soltanto rispetto a condanne temporalmente ancora lontane per reati commessi dopo l’entrata in vigore della nuova normativa, finisce con l’appalesarsi con nettezza la valenza prevalentemente simbolica di questo innalzamento della soglia di pena detentiva. Insomma, sembrerebbe una sorta di espediente escogitato soprattutto per attenuare i timori contingenti dell’antimafia più radicale o tranquillizzare i settori più allarmati della pubblica opinione: mentre pressoché tutti gli odierni ergastolani ostativi hanno di fatto raggiunto il limite trentennale di pena, piaccia o non piaccia!

  
In conclusione, si dovrebbe chiedere al Parlamento di migliorare nei diversi punti fin qui evidenziati il testo concordato in commissione. Il fatto che gli interventi riformistici su materie divisive siano inevitabilmente frutto di faticosi compromessi, non esime dalla responsabilità politica di approvare leggi dotate di solide ragioni giustificatrici e quanto più possibile chiare e univoche nel contenuto dispositivo. Un legislatore democratico all’altezza dei suoi doveri costituzionali dovrebbe, una buona volta, evitare di delegare alla giurisprudenza il compito di precisare in sede applicativa il senso e la portata di leggi che escono dalla fabbrica parlamentare simili a prodotti semi-lavorati da completare o a bozze bisognose ancora di correzioni. Se la tentazione della delega invece persiste, è ingiustificato accusare poi i giudici di eccedere in discrezionalità interpretativa; è il potere legislativo che tradisce, per primo, il suo (teorico) ruolo di produttore monopolista della legislazione penale. 

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