Roberto Pozzetti

Roberto Pozzetti, tessere la cura

Davide D'Alessandro

Lo psicoanalista lacaniano, autore di un recente libro sulla pratica analitica, precisa: “Nessuno è un ottimo o un pessimo analista, non c’è un analista più bravo e uno meno bravo. Vi è il funzionare come analista, vi è il desiderio dell’analista. Si tratta di una posizione che a volte si riesce a sostenere e a volte no, anche con lo stesso paziente. Vi è il desiderio dell’analista, dopo un’analisi, anche grazie alle supervisioni e all’apprendere dai colleghi. Perché ci sia dell’analista occorre non aspettarsi nulla dai pazienti, lasciando loro uno spazio potenziale, per dirla con Donald Winnicott. Si tratta di permettere al paziente di interrogarsi sui propri sintomi, sul proprio inconscio, sul proprio desiderio accogliendolo e ascoltandolo senza inculcargli alcunché”

Che cos’è e a che cosa serve l’analisi?

Come ho scritto fin dal titolo del mio ultimo libro (Tessere la cura. Elementi per la pratica della psicoanalisi, edito da Franco Angeli), l’analisi è anzitutto una cura. L’analisi è una pratica della cura. Alcuni passaggi analitici si focalizzano sul conoscere sé stessi di stampo socratico, persino in una dimensione più estesamente culturale che strettamente clinica, soprattutto nelle fasi avanzate delle analisi; si tratta, in ogni caso, di effetti secondari dell’analisi che rimane primariamente una cura. L’analisi serve a curare delle inibizioni, dei sintomi, dell’angoscia. Mi riferisco qui espressamente al testo di Freud Inibizione, sintomo e angoscia. Ci si rivolge a un analista per risolvere delle inibizioni nel lavoro, nella vita amorosa, nel prendere la parola, nello scrivere, nel realizzare un’opera oppure per dei sintomi dolorosi situati nel corpo o nella mente oppure ancora per degli intensi momenti d’angoscia. L’analisi è un percorso che fa emergere l’inconscio soggiacente a questi disturbi.

Perché tanti anni fa decise di affidarsi a un analista?                            

Non ero affatto immune da inibizioni, sintomi e forme di angoscia. Non lo sono neppure tuttora ma ho avuto modo di riscontrare una sensibile riduzione di inibizioni, sintomi e angoscia. Un desiderio di sperimentare la psicoanalisi per farne un giorno la mia professione non era estraneo alla mia domanda d’analisi; desiderio che venne instillato in me fin dall’adolescenza, in special modo da un mio professore di Liceo il quale aveva frequentato i seminari svolti da Erich Fromm a Locarno, nella per noi limitrofa Svizzera, dove l’esponente della Scuola di Francoforte trascorse gli ultimi anni della sua esistenza.

Come scelse i suoi analisti?

Quando ero uno studente universitario, venni a sapere di un seminario che teneva nella mia città Carlo Viganò, uno dei pochi italiani ad aver svolto la propria analisi direttamente sul divano del Dottor Lacan. Vi partecipai con regolarità e questo incontro indirizzò il mio transfert verso la Scuola di Lacan. Scelsi, dunque, un giovane analista membro di quella Scuola. Fu un incontro importante. L’analisi procedette in modo efficace per otto anni, mentre la mia attività clinica si andava incrementando e mi trovai poi a condividere lo studio di Como con Viganò. In seguito, questo percorso cominciò ad arenarsi. La mia lettura della situazione è che, affievolendosi il legame del mio ex analista con l’orientamento lacaniano, sia gradualmente venuto meno anche il mio transfert verso di lui. La fine di un’analisi si deduce, infatti, dalle condizioni che ne hanno determinato l’inizio. Mi era palese che avrei dovuto ricominciare il mio percorso analitico, presto o tardi. L’opinabile conclusione di quell’analisi veniva sovvertita dai fatti, dai miei sogni, dagli effetti pacificanti determinati su di me dalla nascita di mia figlia e mio figlio. Freud stesso consiglia agli analisti di tornare in analisi di tanto in tanto, “diciamo ogni cinque anni”. Presi un ampio tempo di elaborazione soggettiva, nel quale mi dedicai a supervisioni (dette analisi di controllo da Lacan) con tre colleghi italiani molto esperti, i quali mi aiutarono a praticare bene con i miei pazienti “risciacquando i panni della mia analisi in Arno”  – se il riferimento al Manzoni è permesso, senza essere un purista. Dopo una decina d’anni, trovavo maturo l’atto di una nuova analisi. Volevo astenermi dal reiterare uno dei punti critici della precedente esperienza: le troppe commistioni fra l’analisi e i contesti istituzionali nei quali il mio analista aveva un ruolo direttivo e valutativo. Ormai il transfert mi orientava verso la Francia. Scelsi un analista a Parigi, con il quale nulla avevo a che fare, un analista del quale avevo ascoltato soltanto un seminario su un argomento di mio interesse oltre ad averne letto sporadici contributi su riviste del settore. L’analisi svolta a Milano si era bloccata su un elemento inconscio preciso, su un significante, per dirla con Lacan, il quale rielabora i concetti di Saussure, autore del celebre Corso di linguistica generale. Questo significante aveva un’evidente assonanza, trascurata, con uno dei miei più arcaici ricordi d’infanzia ed è stato anzitutto da qui che la mia analisi si è riavviata. Testimonio che, nelle ultime sedute svolte a Parigi, ho lavorato sulla ripetizione di un sogno coincidente con l’impasse della mia precedente analisi relativa proprio al legame mio e del mio ex analista con la Scuola di Lacan.  Io credo che, senza il confronto con dei colleghi, sia improbabile riuscire a sostenere la posizione dell’analista. Senza dubbio, la scelta del mio attuale analista è dovuta anche al suo aver condotto la propria analisi fino al termine con l’esperienza della passe (dispositivo che Lacan propone, ma non impone a nessuno, per dimostrare di aver concluso un’analisi) e al suo aver lavorato nell’ospedale Sant’Anna di Parigi, direttamente con il Dottor Lacan. Due elementi dei quali il precedente analista era sprovvisto.

Che cosa occorre per fare un ottimo analista?

Nessuno è un ottimo o un pessimo analista, non c’è un analista più bravo e uno meno bravo. Vi è il funzionare come analista, vi è il desiderio dell’analista. Si tratta di una posizione che a volte si riesce a sostenere e a volte no, anche con lo stesso paziente. Vi è il desiderio dell’analista, dopo un’analisi, anche grazie alle supervisioni e all’apprendere dai colleghi. Perché ci sia dell’analista occorre non aspettarsi nulla dai pazienti, lasciando loro uno spazio potenziale, per dirla con Donald Winnicott. Si tratta di permettere al paziente di interrogarsi sui propri sintomi, sul proprio inconscio, sul proprio desiderio accogliendolo e ascoltandolo senza inculcargli alcunché.

Le tante scuole in psicoanalisi aiutano o confondono?

Premetto che qui si pone la questione di cosa sia una vera psicoanalisi o una falsa psicoanalisi. Non è scontato che alcune scuole sedicenti analitiche si occupino davvero di psicoanalisi. Del resto, è risaputo che certi colleghi considerano quella lacaniana una falsa psicoanalisi per la contaminazione del setting determinata dal tempo variabile delle sedute. Io credo, invece, che tutti gli autorevoli colleghi da lei intervistati pratichino davvero la psicoanalisi. La praticano in un modo diverso dal mio ma, con loro, è arricchente aprire un dialogo. Le numerose scissioni del nostro campo, iniziate con Jung e Adler, proseguite con Lacan e il mondo lacaniano erano davvero indispensabili? Forse no.

Perché ritiene Lacan il più convincente dei maestri?

Sul termine maestro, in psicoanalisi, ci sarebbe molto da discutere… Tralasciando pignoleria e puntiglio, rispondo che Lacan ha letto Freud in un modo inedito. Freud resta un riferimento imprescindibile. Lacan lo ha considerato un soggetto dell’inconscio come ogni essere umano, anziché un idolo da venerare. Ha estratto dalla lettura dei libri di Freud dei concetti soltanto abbozzati dal padre della psicoanalisi. Si prenda a esempio il “tratto unario”, che si trova in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, fondamentale per cogliere certe dinamiche dell’identificazione e il punto da cui il soggetto si vede amato dall’Altro. Lacan è convincente in quanto ha messo in forma logica le scoperte freudiane anche attraverso il rigoroso riferimento ad altri ambiti del sapere. Freud afferma, per esempio, a chiare lettere, la tesi circa il sogno come appagamento di un desiderio inconscio. Come opera qui Lacan? Legge il concetto di desiderio come desiderio dell’Altro attraverso la filosofia di Hegel, che conosceva bene per aver frequentato i corsi parigini di Kojève; inoltre accosta le regole della formazione dei sogni, enunciate da Freud come condensazione e spostamento, a metafora e metonimia sulla scorta di quanto già enunciato nella linguistica di Jakobson. Amore, identificazione, transfert, inconscio, desiderio, pulsione sono concetti cardine di un’analisi e della vita umana. Se incontrati attraverso la psicoanalisi lacaniana, assumono delle caratteristiche ben precise e rigorose, fruibili nella pratica clinica. È di sicuro troppo presto per relegare Freud e Lacan nello sfondo di un quadro. Diversi concetti freudiani sono insuperabili. L’opera di Lacan è oltretutto ancora in parte da scoprire, non senza l’apporto dei colleghi vivi e vegeti che l’hanno conosciuto davvero.

Per James Hillman siamo chiamati a “fare anima”. Per lei?

Conosco da decenni questa espressione: non ha mai acceso il mio cuore. Per me, come chiarito nel mio ultimo libro, l’analisi è un’esperienza attraverso la quale emerge il soggetto nella propria singolarità. Si badi bene: il soggetto; il soggetto anziché l’io che si vota a un’impresa personale, anziché l’io che si afferma nel mondo, anziché l’io volto al successo, anziché l’io vincente, anziché l’io aggressivo, anziché l’io grandioso. Cosa vuol dire soggetto? La parola soggetto ha due accezioni per cui essere soggetto significa prima di  tutto essere sub-jectum, sotto il campo del linguaggio che precede l’essere umano, sottoposto a una storia, sotto una famiglia, sottoposto a delle leggi sociali e culturali; diventare un soggetto significa, poi, smarcarsi dalla posizione di oggetto e acquisire un proprio desiderio, sviluppare degli interessi singolari, rintracciare del piacere e della gioia in modi, contesti, attività singolari.

Chi o che cosa decide quando termina l’analisi?

Sicuramente non lo decide l’analista. Chi compie il lavoro analitico è principalmente il paziente o analizzante, come lo nomina Lacan sottolineandone il ruolo attivo. Attivo anche nella decisione di porre un termine alle sedute. Ribadisco che la fine di un’analisi si deduce dalle vie del suo inizio. Si tratta di dimostrare, in seguito, che tale fine sia diversa da un’interruzione analoga a ciò che Freud denomina “fuga nella guarigione”, in una guarigione effimera.

Qual è la forma più grave di nevrosi che si trova frequentemente davanti?

Ci sono momenti di acuzie e di gravità, nelle nevrosi e nelle psicosi. Avrei difficoltà a designarne uno soltanto. Questa domanda mi sembra però insidiosa in quanto rischia di portare a una sorta di “selezione” dei pazienti volta a prediligere i pazienti YARVIs (Young, Attractive, Rich, Verbalisant) a scapito di altri. Se vi è il desiderio dell’analista, la disponibilità a ricevere pazienti c’è con tutti. Le porte del mio studio sono aperte a coloro che domandano aiuto, gravi o meno gravi che siano.

Curano di più le parole o i silenzi?

Entrambi curano. Cura uno stile rock ma anche uno stile rap o uno stile da musica sinfonica. Sta all’analista oscillare fra sedute dedite all’ascolto silenzioso e interessato, sedute nelle quali interpretare e sedute nelle quali intervenire con sonorità diverse dalla parola; per descrivere quest’ultima modalità, può curare di più una risata sdrammatizzante di mille interpretazioni.

Anche l’analista, come il padre, va ucciso o, se preferisce, oltrepassato?

L’uccisione del padre implica conseguenze nocive. Freud ne scrive in vari punti, commentando fra l’altro l’Edipo di Sofocle e l’Amleto di Shakespeare. Ne scrive pure in Totem e tabù – il primo libro freudiano che lessi, a 14/15 anni. I fratelli coalizzati uccidono il padre. Qual è la conseguenza ? Che quello che veniva proibito dal padre, se lo proibiscono loro, sostituendo simbolicamente il totem al padre morto. Lacan inventò il termine frèrocité, che condensa frère e ferocité: la ferocità dei fratelli, feroci verso il padre ma ancor più feroci fra di loro, dopo l’uccisione del padre.  Concordo, invece, sull’oltrepassare il padre. Miller ha dedicato un passaggio del suo corso Silet, pubblicato in italiano nella rivista La Psicoanalisi, al celebre episodio in cui Freud ebbe un disturbo di memoria giungendo sull’Acropoli di Atene. In uno dei suoi ultimi scritti, l’anziano e malato padre della psicoanalisi ricorda questa vicenda risalente al 1905. Giunto ad Atene in nave, insieme al fratello, si incammina lungo la salita verso la città alta. Dinanzi alle spettacolari opere architettoniche che vede, ha un vacillamento e si trova a vivere una sorta di derealizzazione nella quale stenta a riconoscere la realtà di quanto aveva studiato sui libri e ora vede. Ha un dubbio sulla realtà. Lo interpreta come un effetto del senso di colpa per aver fatto più strada del padre, per averlo superato. È importante oltrepassare il padre, trovare una propria soggettività oltre i desideri e gli interessi dei genitori. Questo espone spesso, però, ai rimproveri del Super-Io. Super-Io che va riportato a più miti e meno severi consigli.

Come si lavora per far crollare le resistenze?

L’esperienza analitica si gioca fra analisi delle resistenze e analisi del discorso. La resistenza è a livello dell’io, il discorso lo articola il soggetto. Le resistenze sono a livello dell’io, dunque. Di quale io? Lacan su questo è molto chiaro: dell’io dell’analista. Per Lacan non c’è resistenza se non da parte dell’io dell’analista. Ne parla più volte e lo scrive ne La direzione della cura e i principi del suo potere: “La sola resistenza all’analisi è quella dell’analista”. È quando l’io dell’analista si pone in relazione a specchio con l’io del paziente che vi è resistenza. Credo sia stato proprio questo tipo di relazione, negli ultimi tempi della mia precedente analisi, a farla incagliare. Per spostarsi dall’analisi delle resistenze all’analisi del discorso, l’analista deve cadere da una certa idealizzazione, senza mettersi su un piedistallo.

È più complicata la gestione del transfert o del controtransfert?

Decisamente quella del transfert in quanto il controtransfert è una delle manifestazioni della resistenza, nelle quali è l’io dell’analista a resistere a partire dalla presunzione di sapere sul paziente mediante ciò che lui gli avrebbe fatto provare. Un analista, anche grazie alle presentazioni di casi in supervisione, deve lasciar da parte il proprio io mentre è in seduta. Lo fa anche assumendo una posizione di non-sapere attenendosi a quanto dice il paziente nel corso dell’appuntamento. Al transfert è bene rispondere con il desiderio dell’analista, un desiderio più forte di tutti i sentimenti controtransferali.

Per Freud, il sogno è la via regia per accedere all’inconscio. Se viene ben interpretato, aggiungerei. È possibile avere conferma di una buona interpretazione?

Amo molto una frase del Talmud, pur non avendo mai frequentato la religione ebraica. La scoprii in un libro di Erich Fromm, al Liceo: “Un sogno non interpretato, è come una lettera non aperta”. Non tutte le interpretazioni sono valide. Non è nemmeno così importante che un’interpretazione sia giusta ma basta che sia mutativa; Lacan concorda su questo con colleghi inglesi come Strachey. La conferma della fondatezza di un’interpretazione sta ben poco nella convinzione immediata che suscita mentre sta molto più nel materiale che sorgerà in seguito a essa nella forma di altri sogni che costituiscono un’ulteriore interpretazione da parte dell’analizzante, associazioni, collegamenti, lapsus, atti soggettivi, eccetera.

Ha faticato di più a lavorare con il suo inconscio o con quello degli altri?

Non sono io a lavorare con l’inconscio. L’inconscio è in quanto tale un lavoratore deciso. Se l’analista non si mette di traverso con la propria resistenza, l’inconscio lavora da solo, senza fatica.  

Il costo elevato di un lungo percorso analitico ha spinto molti a orientarsi verso le cosiddette analisi brevi, ma può esistere un’analisi breve?

Applico cifre proporzionate alle disponibilità in modo da permettere a chi lo desidera di intraprendere un percorso analitico, a volte protratto nel tempo. Queste agevolazioni valgono anzitutto per studenti, per giovani in condizioni di precariato professionale, per chi si trova senza lavoro. Dunque chiunque è in grado di venire in seduta, senza oneri eccessivi. Un’analisi non è di solito un percorso cortissimo. Va anche puntualizzato il fatto che oggi capitano spesso percorsi brevi plurimi: cioè si incontrano pazienti i quali svolgono il loro cammino in vari spezzoni poco prolungati, alternando interruzioni a fasi nelle quali si recano in seduta, cambiando analista oppure ricontattando il precedente analista.

L’analisi è un cammino di libertà. Le piace questa definizione o è incompleta?

Effettivamente è incompleta. In seduta, si dice in libertà attenendosi alla regola fondamentale della libera associazione che consiste nel dire tutto ciò che passa per la mente. Comunque, dire non è mai un parlare del tutto libero in quanto il dire è incanalato dalle determinazioni inconsce. Non siamo padroni del nostro inconscio che si manifesta con determinati lapsus, con le dimenticanze, appunto con dei sogni ben precisi nella forma di un automatismo di ripetizione. È il campo del linguaggio che, in svariati modi, si impone a noi. Ne costituiscono prove emblematiche l’automatismo mentale descritto dallo psichiatra parigino Clérambault ma anche certi fenomeni in cui le parole si imponevano allo scrittore James Joyce. In analisi, si tende ad accorgersi di come, per struttura, non siamo liberi né padroni in quanto soggetti al campo del linguaggio.

Qual è il rischio che si cela dietro l’angolo dell’analista?

Quello di credere di aver concluso la propria formazione. Uno dei motivi per i quali mi dimisi da un’associazione che avevo fondato e ospitato nel mio vecchio studio, fu proprio l’aver ascoltato da parte di qualcuno la seguente frase: “Siamo già formati!”. Un analista dovrebbe sempre presentare i casi a colleghi più esperti, in supervisione, oppure all’incirca pari grado, nelle cosiddette intervisioni. Ha ancor più la responsabilità di farlo nei periodi nei quali non si sottopone a una nuova analisi. È molto rischioso, per i pazienti ma forse anche per l’analista, non svolgere né analisi né supervisioni né lavori di gruppo con colleghi.  

Per Thomas Ogden ci vogliono due persone per pensare, ma sono davvero soltanto due le persone che si incontrano durante la seduta?

Ho letto diversi libri di Ogden il quale sostiene, al contrario, che le due persone nella stanza concorrono a strutturare il terzo analitico intersoggettivo. In seduta, siamo in un campo, per seguire concetti sviluppati anche da eminenti colleghi italiani come Civitarese. L’anno scorso scrissi un articolo sulle affinità di questi concetti di Ogden e altri autori succedanei di Bion con il “costituente ternario” di cui scriveva Lacan ben prima, a proposito del transfert. In seduta, si è almeno in tre. Lacan diceva che bisogna essere in tre per amare e non due soltanto proprio a proposito del transfert. Fa riferimento al trio del Simposio di Platone, il più antico testo sull’amore del mondo occidentale. Alcibiade, il seduttore, vi fa un elogio di Socrate ma lo fa per Agatone, che Socrate non esita a individuare come oggetto del transfert. In seduta, oltre alle due persone presenti, vi è l’ordine simbolico, vi è il campo del linguaggio, vi è la mancanza da cui scaturisce il desiderio, vi è la pulsione che è sempre pulsione di morte – concetto da distinguere bene dall’intenzione mortifera. Vi sono altri elementi in seduta, dunque.

La sfera della sessualità è sempre al centro dell’analisi o c’è altro?

Sì, perché la parola è sempre sessuale. Mi spiego più ampiamente. In seduta si parla. Non è una banalità il fatto di parlare in quanto la funzione della parola e il campo del linguaggio sono correlati con l’inconscio. Nonostante vi sia anche un inconscio reale e non rimosso, l’inconscio è anzitutto strutturato come un linguaggio e il linguaggio è la condizione dell’inconscio. Quando si parla, c’è sempre del sessuale in quanto parlare fa emergere la realtà sessuale dell’inconscio. Non per nulla, soltanto in alcuni casi di psicosi, la sessualità rimane un argomento del tutto escluso dalle sedute. Questo senza intendere che si parli sempre esplicitamente della sessualità; ci si arriva inerpicandosi per traiettorie variegate come quella delle relazioni e dei legami.