Michele Ciliberto

Michele Ciliberto, la “pazzia” machiavelliana

Davide D'Alessandro

Lo studioso napoletano ci parla di Giordano Bruno e del Segretario fiorentino, al quale ha dedicato il suo ultimo libro: “Li ho amati entrambi perché hanno lottato contro l’abitudine e i sensi comuni, sono stati l’uno e l’altro costruttori delle libertà dei moderni. A Machiavelli oggi chiederei di riflettere sulla crisi del mondo e di individuare una soluzione ‘pazza’ per poterne uscire. Sono persuaso che sarebbe perfettamente in grado di farlo”.

 

I Maestri hanno il dono di rendere semplice ciò che è complesso, lieve ciò che è grave, chiaro ciò che è oscuro. Michele Ciliberto non sfugge alla regola e il dialogo su Machiavelli e Bruno, l'Europa e Spinoza, Croce e Gramsci, diventa una radiografia esemplare di una storia del pensiero (passato) e di un momento faticoso (presente). Ma quel passato, fortunatamente, non ci abbandona e ha la forza, grazie ai suoi protagonisti e interpreti, di leggere l'attualità indicando percorsi e soluzioni. L'ultimo libro del filosofo napoletano, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia, edito da Laterza, è un'analisi lucida e introspettiva di un uomo e di un'opera, più dell'uomo che dell'opera, è una lezione di politica, di storia, di superiorità, di altezza del genio italico. Il libro, già letto, discusso e riletto, ha favorito il piacevole incontro che segue.

Se dovesse indicare un autore di riferimento per la nostra claudicante Europa, chi indicherebbe e perché?

Farei il nome di Tocqueville per due ordini di considerazioni: ha capito che il problema fondamentale del mondo contemporaneo è il rapporto tra eguaglianza e libertà. Come è possibile nell’epoca della democrazia essere eguali e al tempo stesso liberi? Ha poi compreso che se il destino del mondo contemporaneo è la democrazia, essa contiene però impulsi di carattere autoritario e anche dispotico. Spesso si è parlato di Tocqueville come di un profeta, credo che sia una definizione sbagliata. Credo però che abbia colto alcuni punti essenziali dell’evoluzione del mondo moderno e che perciò sarebbe opportuno per tutti rileggersi La democrazia in America e specialmente le pagine finali del secondo volume, quello pubblicato nel 1840. Naturalmente si potrebbero fare anche altri nomi, ma Tocqueville a mio giudizio è particolarmente importante perché ha compreso che il problema fondamentale è quello della libertà e ha cercato di mostrare quali sono le insidie della libertà in un mondo come il nostro.

Viviamo grandi stravolgimenti, il mondo sembra capovolto, a testa in giù. Come rimetterlo sui piedi?

Ne sono persuaso: noi viviamo in un tempo di grandi stravolgimenti ed effettivamente il mondo sembra capovolto, ma questo è anche determinato dal peso enorme che nel nostro mondo ha l’ideologia, da cui è generato un rovesciamento continuo e sistematico del rapporto tra apparenza e realtà. Qui è veramente decisiva la lezione di Marx. Per rimettere il mondo in piedi è dunque necessario in primo luogo uscire dalle nebbie dell’ideologia e riafferrare la consistenza delle cose per quelle che esse effettivamente sono. Ecco, riafferrare la realtà nella sua concretezza, questa mi sembra la prima operazione necessaria per rimettere il mondo sui piedi.

Qual è, se lo ha, il destino dell’Europa?

L’Europa deve avere un destino, anzi questa è la battaglia principale che oggi bisogna fare: lottare per una nuova Europa, ma essa può avere un destino solo se assume le trasformazioni radicali che si sono determinate a tutti i livelli in questi anni. Sono trasformazioni che riguardano la dimensione religiosa, etica, politica e non è possibile tornare indietro al vecchio mondo nel quale siamo lungamente cresciuti. Bisogna avere il coraggio che Tocqueville ebbe a suo tempo nei confronti della democrazia: assumere le trasformazioni morfologiche dell’Europa come un destino a cui non si può sfuggire e cercare di governarla nel modo migliore e nell’interesse di tutti. Gli europei, come li abbiamo conosciuti lungamente, stanno finendo; l’Europa sta diventando multireligiosa, multietnica, multiculturale con l’avvento di nuovi popoli che abbandonano le loro terre per venire appunto in Europa. Bisogna ripensare il concetto di cittadinanza italiana ed europea comprendendo che si è rotto il nesso fra stato, nazione e territorio e che questa rottura implica mutamenti radicali nella stessa concezione dell’identità europea e naturalmente di quella italiana.

La crisi prevede sempre un rinnovamento?

La crisi spinge sempre verso posizioni diverse dal passato ma non è detto che questo significhi di necessità un rinnovamento. Ci possono essere crisi che si risolvono in termini reazionari e anche dispotici. In questo senso il rinnovamento è una parola generica: si tratta di comprendere di che rinnovamento stiamo parlano e qual è il rinnovamento per il quale bisogna battersi. Si può, a esempio, ritornando all’Europa, pensare di risolvere i problemi tornando al passato: un rinnovamento come restaurazione; oppure si può pensare che il rinnovamento, come io penso, sia il fare i conti con le novità e dare a esse un esito in grado di incrociare le speranze e spesso anche i risentimenti di coloro che sono rimasti ai margini della storia.

Che cosa la spinse a laurearsi con Eugenio Garin e con una tesi sulla fortuna di Machiavelli?

In verità prima di mettermi a lavorare con Garin su Machiavelli, gli avevo proposto una tesi sulla Rassegna settimanale di Sonnino e Franchetti perché sono sempre stato interessato alla questione meridionale, che ho sempre considerato il problema principale dell’Italia, anche se la situazione con gli anni, con i decenni, è diventata sempre più grave e oggi il Mezzogiorno sembra abbandonato a un destino di decadenza, fra trasformismo e ribellismo. Sono napoletano e non mi sono mai staccato da queste mie radici, anche se considero ora Firenze e la Toscana come la mia patria. Scelsi di fare una tesi su Machiavelli perché sono sempre stato attratto dalla politica e, in modo particolare, dal problema dello stato e del rapporto, così decisivo nel mondo contemporaneo, tra masse e stato. Machiavelli fu per me la chiave per accedere a questi problemi e anche per entrare in contatto con due autori che per me sono sempre stati fondamentali: Benedetto Croce e Antonio Gramsci. In verità poi mi sono laureato sulla fortuna di Machiavelli nel Novecento e questo mi consentì di cominciare a interessarmi di problemi che poi sono rimasti sempre al centro della mia riflessione.

Il Segretario fiorentino va collocato nella sua epoca, tenuto a debita distanza, oppure la sua lezione è attualissima?

Machiavelli va naturalmente collocato nella sua epoca, che è quella dell’Umanesimo; anzi nel suo caso va fatta con particolare energia questa operazione, perché è stato sganciato dal suo tempo storico e proiettato verso quella che si può definire “modernità”, di cui è stato considerato uno dei massimi artefici. Nel libro che gli ho dedicato ho cercato anzitutto di fare questa operazione: di rimetterlo nel suo tempo, sottolineando naturalmente gli elementi di originalità che connotano la sua meditazione. Ma la forza dei classici è precisamente quella di sporgere oltre il loro tempo storico, di essere inesauribili, e quindi Machiavelli, proprio perché è un grande classico, è un pensatore attualissimo, mi riferisco alla sua concezione dell’uomo, della natura e della storia delle civiltà, alla sua analisi della crisi italiana e dei motivi che la generano, alla sua visione della funzione civile e politica della religione e mi fermo qui, perché potrei continuare senza difficoltà.

Quanto è arduo liberare Machiavelli dal machiavellismo?

Un’altra operazione fondamentale per chi voglia capire Machiavelli è liberarlo dal machiavellismo, con cui non ha niente in comune. Machiavelli è un nome dell’ethos, dell’ethos civile, è in primo luogo un patriota fiorentino; conosce benissimo i principi della tecnica politica, i quali sono sempre gli stessi, fra gli antichi e fra i moderni, nelle repubbliche come nei regni ma, come ho detto e insisto su questo, è un uomo dell’ethos, dell’ethos civile. Benedetto Croce ha scritto pagine molto belle su Machiavelli, che hanno avuto larga fortuna, ma ridurlo allo scopritore dell’autonomia della politica, questo, se si legge Machiavelli, non è possibile. E lo si vede con altrettanta chiarezza se si studia la vita di Machiavelli, nel suo caso, l’intreccio tra biografia e critica, tra biografia e politica, è fondamentale. Nel mio ultimo libro mi sono proposto di togliere di mezzo, per quanto mi fosse possibile, l’immagine di Machiavelli come “puro realista” anzi, come uno dei maggiori esponenti del realismo politico. È certamente anche questo: era perfettamente in grado di comprendere quali fossero i rapporti di forza e cosa questo implicasse anche per lui stesso, per la sua stessa esistenza materiale e intellettuale. Ma Machiavelli è altro e di più. È un visionario, capace di andare al di là della situazione data, dei rapporti di forza consolidati e di immaginare nuove prospettive, nuovi scenari. La pazzia è l’iniziativa politica al suo livello più alto, più radicale, più rivoluzionario e Machiavelli è stato un rivoluzionario.

Perché l’uomo la interessa più dell’opera?

Ho detto più di una volta che l’uomo mi interessa più dell’opera, riprendendo una bella battuta di Renato Serra. So naturalmente benissimo quanto sia importante l’opera per interpretare un autore, ma non credo che ci sia un rapporto lineare tra autore, scrittura, opera. L’uomo al fondo per me è ineffabile e l’opera è solamente un elemento della sua effabilità, che è inesauribile. Perciò ho sempre trovato interessante studiare le varianti di un’opera perché esse ci permettono di entrare nell’officina di un autore e di vedere come egli si risolve nella sua opera, mantenendo però contemporaneamente sempre aperta una pluralità di opzioni che si esprimono appunto nelle varianti, che dunque hanno un valore non solo letterario ma, vorrei dire, ontologico. L’uomo è quello che si fa e l’opera è in questo movimento, è un momento di un moto assai più ampio che le varianti consentono di intravedere. In questo senso per me la filologia delle varianti è una struttura fondamentale della riflessione storico-filosofica; una chiave di accesso essenziale all’individuo, all’esistenza che si proietta nell’opera. Ma, lo ribadisco, senza esaurirsi mai.

Quale debito di riconoscenza abbiamo nei confronti di Guicciardini?

Guicciardini è stato un pensatore straordinario ed è singolare che su di lui abbia pesato così tanto e così a lungo il giudizio negativo di Francesco De Sanctis. I Ricordi sono a mio avviso uno dei più grandi testi di filosofia morale italiana ed europea e continuano a cogliere, per l’intensità con la quale mettono a fuoco l’indecifrabilità del mondo, il rovesciamento tra merito e riconoscimento del proprio valore, la necessità della dissimulazione in una realtà in cui tutto è capovolto. Guicciardini aveva fatto un sunto per sé di tutte le prediche di Savonarola; credo che per capirlo si debba partire da qui.

Se la fortuna è il motore della storia del mondo, se fortuna e virtù non si pareggiano mai, il cammino dell’uomo è segnato?

Non credo che il cammino dell’uomo sia segnato, né penso che la fortuna, cioè il caso, sia destinato a determinare in modo univoco la storia del mondo. Quando ho rivendicato la funzione della pazzia in Machiavelli, è questo che ho voluto dire. Io sono persuaso che gli uomini non cambino, cambiano però e variano in modo costante le forme in cui si sviluppa il vivere dell’uomo, l’azione dell’uomo. Ed è in questo mutamento che bisogna saper intervenire muovendosi sempre al di là dei confini acquisiti e uscendo dai tradizionali accampamenti.

Chi ha apprezzato di più fra gli interpreti del pensiero di Machiavelli?

Gramsci, perché coglie con maggiore acutezza sia la funzione della politica in Machiavelli, sia il carattere impetuoso, febbrile – io direi pazzo – dell’azione politica. Naturalmente ho ammirato e ammiro anche altri studiosi, ma Gramsci mi pare che riesca a penetrare in aspetti tanto importanti quanto lungamente trascurati dell’esperienza di Machiavelli.

Che cosa distingue Spinoza da Machiavelli?

Spinoza, come è noto, amava e apprezzava moltissimo Machiavelli, anzi riteneva che la mancata conoscenza del pensiero del Segretario fiorentino avesse condannato gli olandesi a ridiventare sudditi dell’Orange. C’è però un punto principale che li distingue, a me pare, ed è la consapevolezza presente in Machiavelli – e non in Spinoza – secondo cui ogni corpo misto – si tratta di chiesa oppure di stato – è comunque destinato a tramontare, a finire, a morire. L’energia vitale si consuma e con essa finiscono gli stati, come finiscono gli individui: a questo destino non è possibile sfuggire. Questo è un tratto dello sguardo tragico di Machiavelli sulla vita, sull’uomo, sullo stato; ed è quello che ce lo fa sentire più vicino.

Se avesse davanti Machiavelli, che cosa gli chiederebbe?

Cosa chiedere a Machiavelli oggi? Di riflettere sulla crisi del mondo e di individuare una soluzione “pazza” per poterne uscire. Sono persuaso che sarebbe perfettamente in grado di farlo.

Nuovo Umanesimo e Nuovo Rinascimento sono sogni o possibilità concrete? È ancora possibile avere una concezione disincantata e un’apertura alle grandi utopie?

Un nuovo Umanesimo non è affatto un sogno. Credo che sia proprio questa la scommessa che abbiamo di fronte e su cui bisognerebbe interpellare Machiavelli. Si possono avere grandi utopie solo se si getta uno sguardo disincantato sulla realtà quale essa è. Questo oggi significa assumere le trasformazioni del mondo con lucidità e distacco e riuscire, muovendo di qui, a immaginare una Europa nuova resa più forte e non più debole dalle trasformazioni che viviamo giorno dopo giorno e che non riguardano solo gli stati e i grandi imperi che si stanno dissolvendo ma anche la vita quotidiana degli uomini, il diverso rapporto con la vita e la con la morte, le differenti relazioni tra gli individui, veri e propri sconvolgimenti che bisogna imparare a conoscere e a governare.

Che cosa le ha insegnato Giordano Bruno?

Giordano Bruno mi ha insegnato molte cose: a rompere con le barriere dei saperi acquisiti, a detestare l’abitudine, che è la fine del libero vivere degli uomini, a comprendere la necessità che per difendere la libertà è necessario sacrificare molte cose, nel suo caso anche la vita. Tutto questo però come scelte ordinarie che occorra fare quando è necessario farle. L’immagine di Bruno eroe e martire del libero pensiero non mi ha mai particolarmente appassionato. Bruno però mi ha insegnato anche che i poteri – qualunque potere – reagiscono allo stesso modo quando si trovano di fronte un uomo libero, indipendente, autonomo. Raccomanderei ai giovani di leggersi sia la sentenza con cui Bruno viene comandato a morte dalla chiesa romana, sia la scomunica di Spinoza da parte della Sinagoga di Amsterdam. Colpisce veramente la sintonia fra l’una e l’altra e questo spinge a riflettere sui meccanismo del potere ieri e oggi.

Ha faticato di più a lavorare su Bruno o su Machiavelli?

Ho lavorato con piacere sia su Bruno che su Machiavelli, con una differenza. Machiavelli fu una mia scelta, Bruno fu una decisione del mio maestro Garin che, nonostante i miei dubbi, mi spinse a trasferirmi a Roma e a fare per il Lessico Intellettuale Europeo il mio Lessico di Giordano Bruno. Ma li ho amati entrambi perché hanno lottato entrambi contro l’abitudine e i sensi comuni, sono stati l’uno e l’altro costruttori delle libertà dei moderni.

La Storia è sempre la Storia dei vincitori?

Non credo che la storia sia sempre storia dei vincitori. Questo lo sostengono gli storici al servizio dei potenti, come ci ha insegnato Machiavelli, ma nella storia agisce sempre la voce dei vinti, anche quando sono sconfitti. La storia non è mai lineare, mai, è sempre in movimento e non può essere mai risolta in una prospettiva di tipo provvidenzialistico mettendo sullo stesso piano i vinti e i vincitori. Bisogna studiare sempre coloro che hanno saputo dire no perché il no, l’opposizione, il contrasto all’abitudine è sempre generatore di libertà anche se questo costa sangue, dolore, roghi. Amo molto una battuta di Castellion contro Calvino che difendeva la condanna e l’uccisione di Serveto: “Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è solo uccidere un uomo”. La storia non è una tranquilla ascesa verso il meglio o il progresso, anzi, oggi siamo più indietro, per certi versi, di Kant. La storia è questo cammino doloroso e con essa bisogna fare i conti senza illusioni ma senza arrendersi mai.

Ha studiato diversi costruttori della libertà. Oggi ne vede i distruttori o soltanto gli indifferenti?

Quelli che oggi mi preoccupano maggiormente non sono i distruttori della libertà ma gli indifferenti. L’indifferenza è la stasi, la quiete, la fine. È molto peggio di coloro che si battono contro la libertà, perché sprofonda in una palude che non si lascia né toccare né conoscere, è veramente la morte.

In tanti rappresentano l’agonia della democrazia rappresentativa. Come ricondurla in vita?

Sì, il problema oggi più grave è la crisi della democrazia rappresentativa e l’esplodere della democrazia diretta che genera, come sappiamo dalla storia, quasi sempre dispotismo e potere dei capi. Alla base della crisi dei nostri anni è precisamente questo: la fine della rappresentanza politica e delle forme in cui essa si è strutturata negli anni delle politiche di massa. Rispetto a quel tempo siamo ormai in un’altra epoca e bisogna saperlo. Occorre dunque riformare in modo rigoroso i modi con cui è stata pensata e attuata la democrazia rappresentativa. Ma con tutti i suoi limiti è il miglior metodo di organizzazione trovato dagli uomini per salvaguardare la loro libertà e la loro eguaglianza. E con questo torniamo al problema di Tocqueville da cui siamo partiti.