Vincenzo Vitiello

Vincenzo Vitiello, la filosofia come abito di vita

Davide D'Alessandro

Il filosofo napoletano attraverso Heidegger e Nietzsche, Kant e Benjamin, Hegel e Croce, Vico e Spaventa, de Giovanni e Severino, Europa e Cristianesimo, fenomenologia, topologia e poesia. Tra grandi libri e grandi pensatori, la riflessione su una disciplina che non è una scienza, ma molto di più. Il suo verbo non è essere, bensì dovere

Leggere Vincenzo Vitiello che scrive di Martin Heidegger, ascoltarlo mentre parla del filosofo tedesco, significa farlo tornare in vita, camminargli accanto, interpretare con finezza i suoi alti pensieri. Viene quasi da dire che se si desidera porgere una domanda a Heidegger, basta rivolgerla a Vitiello. La risposta non deluderà. Come non deludono le risposte che vanno oltre Heidegger, che penetrano nel mistero della vita, che mirano a rischiarare la mente di chi alla filosofia (che non è una scienza ma molto di più) e ai filosofi più illuminati ha affidato l'ingrato compito di sciogliere i nodi più stretti. Vitiello non si nega, ha misura, statura e un'opera rilevante, dietro e davanti a sé, per affrontare la sfida.

Dal suo Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità (1976) a oggi cos’è mutato nell’interpretazione del filosofo tedesco?

Con la pubblicazione dei primi volumi dell’Opera Omnia di Heidegger, iniziata proprio nel 1976, abbiamo appreso che molto del cammino di Heidegger, che abbiamo conosciuto attraverso le sue Lezioni universitarie pubblicate ‘dopo’ Essere e tempo, era stato percorso, quando non ‘prima’, durante gli anni di composizione dell’opus magnum. E basti quest’unico esempio: il corso universitario di Marburg, tenuto nel semestre invernale 1925/26, Logik. Die Frage nach der Wahrheit, che ‘anticipa’ ampiamente non solo il libro su Kant del 1929, bensì anche molte tesi su Aristotele e Hegel, venute alla luce molti anni dopo. Molte tesi, preciso, che si inquadrano in quel ‘progetto’ noto come “superamento della Metafisica”, che caratterizzerebbe, secondo la vulgata, il pensiero di Heidegger dopo la “svolta” (Kehre) dall’analitica dell’esserci alla storia dell’essere. Il sottotitolo del mio libro recitava, invertendo la rotta: “Dalla Seinsgeschichte alla Daseinsanalyse”. Qualcuno lo definì paradossale, altri dopo averlo criticato, mi dettero pubblicamente ragione. Mera cronaca senza importanza. Importante è invece quanto Heidegger scrisse in un appunto dei suoi Quaderni neri della seconda metà degli anni Quaranta: «Sein und Zeit»  è stato ben più che il titolo di un libro: resta (bleibt) «l’unico pensiero della mia vita», quello che mi è stato «destinato». Il pensiero, precisa, della «verità dell’essere» cercata, interrogata nella sua essenza anzitutto (zuvor) come Da-sein. Restare (Stehenbleiben) su quest’unico pensiero aveva significato un’«assidua meditazione sulla storia dell’essere, illustrata attraverso l’approfondimento della storia del pensiero». (Schwarze Hefte 1942-48, GA 97, pp. 174-177 e 181).

Si può scrivere Essere e tempo, ma anche i Quaderni neri. Uno psicoanalista parlerebbe di una gigantesca ombra venuta alla luce. Lei?

Heidegger ha certamente vissuto molto intensamente l’esperienza del pensare. Mi spingo a dire che l’ha ‘sofferta’. Ne testimonia un appunto del Tagebuch da lui tenuto nella clinica psichiatrica, dove venne ricoverato dal 17 giugno al 12 agosto del 1945. Scrisse dopo la visita del medico che gli aveva diagnosticato «una situazione di smarrimento, di stallo, una disperazione assoluta che si manifestava nel rifiuto di portare a termine le parole», che quella «situazione gli sembrava del tutto consueta: era il mio modo di vivere, di “sentirmi”, da sempre e soprattutto dai tempi, per me felici (corsivo mio), di Marburg». L’analisi delle Grundstimmungen, e in particolare dell’angoscia, svolte in Essere e tempo, in Che cos’è metafisica?, e nel corso del 1929/30, I concetti fondamentali della metafisica, hanno questo retroterra esistenziale. Ma, detto ciò, sarebbe affatto incongruo voler spiegare con la psicoanalisi il ‘pensiero’ di Heidegger. È il cammino opposto che bisogna seguire: è dalla profondità del pensiero di Heidegger che si deve partire, se si vuol spiegare la sua ‘passione’. Basti anche qui un solo – decisivo – riferimento: a Was ist Metaphysik? In questa Prolusione, che ebbe subito un’eco internazionale, Heidegger compie il gesto decisivo: si libera dalla tirannia della logica, spostando lo sguardo tematico dal contenuto del pensiero all’operare del pensiero. Portando l’analisi filosofica ad indagare i presupposti della logica, piega l’interrogare su se stesso. Il principio logico fondamentale, il principio di non contraddizione non è negato, ma – condotto al suo luogo d’origine: la determinazione – ‘limitato’. Esso vale nell’ambito delle determinazioni che esso stesso produce; non però per quanto è ‘prima’ dell’atto della determinazione, quel ‘prima’ che la stessa determinazione logica presuppone. La dislocazione dello sguardo della filosofia dal contenuto del ‘dire’, del lógos, alla prassi del lógos, ha portato Heidegger a scorgere il profilo di quel continente nascosto che Vico chiamò ingens sylva, l’Indeterminato, che è al fondo d’ogni determinatezza, die lichtscheue Macht, la “potenza che ha in orrore la luce”, il lato oscuro della coscienza, contro cui Hegel lottò tutta la vita per portarla a coscienza.

Ha definito Essere e tempo un’opera compiuta. In che senso?

Nel senso suggerito dallo stesso Heidegger quando nell’Introduzione di Essere e tempo detta il Grundsatz, il principio fondamentale, della sua filosofia: “Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit”, che è l’esatto contrario del principio aristotelico, próteron enérgheia dynámeos. L’antecedenza del possibile – non della potenza: dýnamis è potenza solo se ed in quanto preceduta dall’atto che la ‘determina’; prima dell’atto è pura indeterminatezza: tò aóriston, la definisce Aristotele – l’antecedenza, dicevo, del possibile al reale mette in crisi l’intera episteme occidentale, che sulla Logica di Aristotele poggia, anche quando da Aristotele intende distaccarsi e si distacca. Galilei mette in discussione la fisica di Aristotele e pur le dimostrazioni logiche che quella fisica intendevano provare, non però il principio di non contraddizione. Heidegger, per contro, definisce Da-sein, il ‘luogo stesso del sapere, “nullo fondamento di una nullità”. Perché, dunque, ho sostenuto che Essere e tempo, contro quanto afferma il suo stesso Autore, è un’opera compiuta? Perché, se devo prendere sul serio quanto Heidegger dice, e cioè che il fine dell’opera è la determinazione del senso dell’essere, a me sembra che in Sein und Zeit questo senso sia il nulla. Ed è soltanto ‘dopo’ che Heidegger ‘arricchisce’ il termine ‘nulla’ di un significato ‘positivo’, pareggiando l’essere, in quanto orizzonte dell’ente, epperò non-ente, al nulla. Ma ciò avviene in Was ist Metaphysik?,  ed avviene quando con un ‘salto logico’ – ovvero: senza spiegazione alcuna – l’indeterminatezza dell’angoscia si traduce nella libera apertura dell’essere che accoglie l’ente, ogni e qualsiasi ente. E non a caso l’“angoscia” perde il suo ruolo primario e necessario dopo questa sua ‘traduzione’. Il niente dalla quiete incantata dell’angoscia si muta in niente nientificante senza che noi «veniamo veramente a sapere di questo accadere». La limitazione del nostro sapere al «sapere in cui quotidianamente ci muoviamo» è la classica toppa peggiore del buco, ché l’angoscia non è punto il nostro sapere quotidiano. Il salto resta tale, ohne warum, senza ragione. Nulla a che vedere con l’angoscia di Sein und Zeit, che apriva l’Esserci alla consapevolezza della “possibilità dell’impossibilità dell’esistenza in generale”.

Che cos’è la fenomenologia per Heidegger?

Per un verso è quanto di meglio ha ereditato dal suo Maestro, Husserl, e cioè: la dislocazione dello sguardo filosofico dal contenuto del dire e del pensare alla prassi del lógos. Per altro verso è l’ontologizzazione dello sguardo, ovvero: l’attribuzione di una caratteristica propria di alcune specie di viventi, la vista, a carattere universale dell’essere dell’ente, che è tale in quanto si fa vedere, si mostra. Questa caratterizzazione viene poi ristretta ad una specie soltanto di viventi, l’uomo, in quanto sol esso possiede il linguaggio, il luogo più vero, ossia più ‘evidente’, del mostrarsi dell’essere. Ad evitare questa riduzione dell’essere ad un carattere particolare di un ente ancor più particolare: l’uomo che vede e parla, Heidegger sottrae il linguaggio, come prima la vista, al vedente-parlante, per attribuirla all’essere. Afferma, infatti, che non il linguaggio appartiene all’uomo, bensì l’uomo al linguaggio. Non ritengo che la precisazione di Heidegger, secondo cui Da-sein indica non l’uomo, ma l’essenza, il Wesen, dell’uomo, ciò che fa uomo l’uomo, sottragga l’“essere” alla relatività dell’essente-uomo. Penso, al contrario, che la rinforzi. Così come l’insistenza sull’ascosità, Verborgenheit, originaria dell’essere, e sulla genesi della Verità, Alétheia, dall’oblio, Lethe, non prova affatto il limite della verità e dell’apparenza (Unverborgenheit), al contrario l’estende, in quanto è proprio della verità nel suo mostrarsi dire del suo rapporto con l’ascoso, e della sua origine dall’oblio.   

Heidegger ha compreso Nietzsche meglio di chiunque altro?

Il rispetto non formale del pluralismo ermeneutico, mi impedisce di dire: “meglio” di altri; ma certo più d’altri Heidegger ha messo in luce il carattere a più strati del pensiero di Nietzsche, che è insieme l’interprete acutissimo del mondo contemporaneo ed il pensatore dell’“eterno ritorno”, il filosofo la cui parola ‘ripete’ (wiederholt) la prima parola dell’essere, quella di Anassimandro, e il profeta che narra la storia dei prossimi due secoli. Ciò che sempre si ammira nelle interpretazioni di Heidegger è l’assoluta originalità della prospettiva, e questo vale per Platone come per Aristotele, per Kant come per Schelling, per Rilke come per George; ma vale soprattutto per Nietzsche. Con Nietzsche, Heidegger instaura un rapporto particolare, personale, direi: sembra, talora, che provi difficoltà a distanziarsi da lui, e questo provoca ulteriori analisi, e approfondimenti, e critiche. Con Nietzsche, Heidegger ha lottato tutta la vita, e specialmente negli anni che vanno dal 1936 al 1940, in cui tenne i corsi universitari poi raccolti nei due volumi intitolati semplicemente “Nietzsche”, ad indicare, come scrisse nella Premessa “la cosa in questione nel suo pensiero”, come essa si viene esplicando nel “confronto” (Aus-einander-setzung).

Si è laureato con una Tesi su Benedetto Croce. Da tempo lo definisce “estraneo” a Hegel, tanto da parlare di leggenda in merito al Croce hegeliano. Perché?

Invero fu Croce a dirsi ”non hegeliano”; e giustamente. Dalla sua ‘interpretazione” di Hegel non s’apprende nulla né sulla Fenomenologia dello spirito, né sulla Scienza della logica, e quanto all’Enciclopedia, che pur tradusse, non mi sento di accogliere il suo criterio di leggere Hegel senza fermarsi vanamente sui ‘paragrafetti’, ma prendendo ad esempio il cane di Rabelais, bestia filosofa, che masticava l’osso or qua or là per succhiarne il midollo.

È arrivato, e non è il solo, alla filosofia dalla giurisprudenza. Da che cosa si è sentito chiamato?

Mi iscrissi all’Università nel lontano 1953, agli albori di quel miracolo economico italiano che avrebbe sfiorato appena il meridione. Nella città, dove sono nato e ho vissuto, s’andava affermando il populismo retrivo del partito monarchico di Achille Lauro. Chi a scuola s’era educato ai valori della Resistenza non poteva non prendere posizione. Ricordo ancora i duri scontri tra “monarchici” e “comunisti” che avvenivano ogni giorno in classe. Si ruppero amicizie nate molti anni prima proprio tra i banchi di scuola. Cominciai a leggere, su consiglio del professore di filosofia, “Il mondo” di Mario Pannunzio, ero insomma un “liberale di sinistra”, come allora si diceva, ed io pomposamente mi dichiaravo. Pencolando tra filosofia e politica, fui illuminato da una frase di Piero Gobetti, che seguendo ‘criticamente’ la risoluzione crociana della filosofia in storia, si chiedeva: “Se la filosofia è storia, perché la filosofia?”, ch’io tradussi così: “se la filosofia è politica, perché ancora filosofia?” La scelta della facoltà era decisa: “giurisprudenza”. È lo studio del diritto, l’analisi dell’ordine che regge le società umane – mi dicevo – che permette d’essere insieme uomini ‘pratici’, attivi nel mondo, e ‘teorici’, consapevoli dei fini che si perseguono. Diritto, non morale, dunque, e cioè: leggi concrete, non astratte. Presto lo studio del diritto mi annoiò. Tornai a studiare filosofia sui testi classici. Mi laureai in “Filosofia del diritto” con una tesi su “Libertà e giustizia in Benedetto Croce”, un tema allora, siamo alla fine degli anni Cinquanta  molto dibattuto in Italia (basta ricordare la polemica tra Croce e Calogero), insieme con l’altro sulla differenza tra “Liberalismo e Liberismo”, che vedeva schierati su fronti opposti Croce e Einaudi. Nella tesi mi schierai contro Calogero, ma a favore di Einaudi. Dopo la laurea passai un’estate infame a studiare diritto civile, penale e amministrativo per prepararmi al concorso in magistratura. Intanto avevo presentato domanda per una borsa di studio all’“Istituto per gli studi storici” fondato da Benedetto Croce. Fu la mia fortuna: ottenni la borsa – e mi liberai dal “diritto”. Al quale sarei tornato molti anni dopo, con diverso animo e per motivi affatto diversi. 

Che cos’è filosofia?

Non credo si possa dare una risposta valida per tutti. Fichte sosteneva che ogni filosofo ha la filosofia che meglio corrisponde al suo carattere. Oggi, insisto sull’“oggi”, sono portato a dargli ragione. La filosofia, infatti, non è una scienza, ma un abito di vita. Affermazione, questa, gravida di significati – più di quanto si possa immaginare.

Cerchiamo la filosofia o ne siamo cercati?

In filosofia cercare è tutto: cerchiamo perché non siamo. È come l’imperativo morale: lo attua solo chi nell’attuarlo sente di dover sempre ancora attuarlo. Il verbo della filosofia, come della morale, non è “essere” (sein), ma “dovere” (sollen).  

Che cos’è topologia?

Una pratica ermeneutica prima che una teoria. Ed una pratica legata ad un abito di ‘lettura’ affatto personale: mi è impossibile leggere Aristotele con occhi diversi da quelli che mi fanno leggere Hegel o Heidegger. C’è una contemporaneità nella filosofia – ma non solo in questa – che è alla base della sua ‘storia’. Come amo dire, esemplificando: Hegel è ‘contemporaneo’ di Agostino, più che di Schelling, e questi di Plotino più che di Hegel – en philosophe, beninteso; ché poi i due – Schelling e Hegel – si scambiavano lettere amicali e critiche feroci tra loro e non con Plotino e Agostino. È che il tempo storico è costruito a strati, non ha una sola dimensione. Quello che Kant considerava ungereimt, insensato, la contemporaneità dei vari tempi, è un dato d’esperienza; ungereimt è solo la riduzione di ogni tempo alla successione lineare “passato-presente-futuro” del tempo fisico-meccanico. Peraltro proprio da Kant apprendiamo la differenza del tempo ‘morale’ dal tempo ‘fisico’.  

Che cosa risponde all’amico Biagio de Giovanni quando si chiede se la conclusione “morale” della topologia non approdi alla figura dell’“anima bella”?

Rispondo che è un pericolo reale, ma non necessario. La coscienza – che dico ‘cristiana’ riferendomi alla sua più alta origine – di essere nel mondo (en tô kósmo), ma non dal mondo (ek toû kósmou), impone di ri-pensare il rapporto finito-infinito sino alla possibilità estrema, quella che solo con un ossimoro può essere espressa: la possibilità che domani non ci sarà domani. Un pensiero che, sorto in me in anni lontani, quando scrissi Utopia del nichilismo (1983), non mi ha più abbandonato. È all’origine del mio Cristianesimo senza redenzione (1995). “Anima bella?” Lo sarebbe, se fosse compiaciuta di sé. Ma “senza redenzione” dice insieme: “senza consolazione”.

A che punto è il suo confronto con Emanuele Severino. Che cosa la convince e cosa no del suo pensiero?

Il mio dialogo con Severino è iniziato molti anni fa, negli anni settanta del secolo scorso, quando lessi, la prima volta, la Struttura originaria; ve n’è traccia già nel mio libro su Heidegger del 1976, che già nel titolo, Il nulla e la fondazione delle storicità, manifesta l’opposta direzione di pensiero. Nel 1980 apparve il suo capolavoro, Destino della necessità, e poco dopo ebbi la fortuna e il piacere di incontrarlo di persona. Il dialogo si fece più stretto, e, almeno per me, ‘necessario’. Non si può restare indifferenti davanti ad un pensiero che ha portato la filosofia occidentale, la metafisica dell’essere, al suo esito estremo. Con Severino non sono possibili, non dico ‘compromessi’, ma ‘mediazioni’; pertanto più lo leggevo, più ero colpito ed affascinato dal rigore della sua logica, dalla consequenziarietà del suo discorso, più me ne discostavo. L’ultimo esito del nostro ‘confronto’ è il libro Dell’essere e del possibile dello scorso anno, che raccoglie scritti suoi e miei dal 2005 al 2017. Cosa debbo ad Emanuele Severino? Il dono d’avermi ‘costretto’ ad uscire dal cerchio fatato, e fatale, del verbo “essere”.

Qual è il legame tra filosofia e poesia e quali i filosofi e i poeti che più la inquietano?

Rispondo cominciando dalla fine. I poeti che più mi inquietano sono – limitandomi all’estremo –Celan e Zanzotto, Gadda tra i romanzieri, Kandinskij e Pollock, tra i pittori. Per i filosofi non riesco proprio a limitarmi, per un verso o per un altro, sono portato a dire: tutti quelli che studio. Oggi il mio impegno maggiore è il lavoro su Kant, con la mestizia di non sapere se riuscirò a terminarlo. Quanto alla prima domanda sul rapporto tra filosofia e poesia, ribadisco la mia convinzione, ragionata in vari testi, e specialmente ne I tempi della poesia. Ieri/Oggi (2007), e cioè che il linguaggio più adeguato al nostro tempo è quello della ‘poesia’ (in senso largo: dell’arte), che parla della crisi in cui viviamo con la lingua della crisi, laddove la filosofia – per sforzi che abbia fatto e faccia – parla della crisi ancora col linguaggio di Aristotele.

Quali sono i motivi del tramonto della Teologia politica?

La crisi del rapporto sapere-potere che è stato il principio che ha retto la scienza e la politica della storia dell’Occidente, dalla Grecia classica sino a Nietzsche. La “volontà di potenza” non ha invertito il rapporto, l’ha spezzato. L’esito è sotto gli occhi di tutti.

Anche il tramonto dell’Europa è fatale?

Non è fatale, è accaduto. Da un secolo almeno. Con la I guerra mondiale Europa è emigrata oltre Atlantico. L’Europa d’oggi – l’appendice occidentale del continente asiatico – è solo una copia della sua brutta copia ‘atlantica’. Se non una “brutta” copia di questa.

Quanto è utile ripensare il Cristianesimo?

Necessario, più che utile, se vogliamo ancora ‘sperare’ nel futuro. Si tratta di pensare il cristianesimo come la religione che riconosce la religiosità di tutte le religioni: tutte non soltanto di quelle ‘monoteistiche’ sorte nell’area mediterranea. Si tratta di pensare la religione come accoglienza e non come conflitto tra fedi opposte. È una speranza non astratta, se recentemente un teologo cattolico della levatura di Bruno Forte, investito tra l’altro di alta responsabilità ecclesiale, si è rivolto ai credenti di altre confessioni, chiamandoli “cristiani di altre religioni” (Esercizi spirituali sui quattro Vangeli, Cinisello Balsamo [Mi] 2017, p.35). È la speranza in cui abbiamo bisogno di sperare, se ancora pensiamo di poter avere futuro “umano”, ove nessuna terra è possesso esclusivo di un singolo, uomo o popolo che sia, ma ciascuno si sente, in ogni luogo, ‘ospite’ e mai ‘padrone’. La terra è un dono non una proprietà. Dono che si rispetta coltivandola. Per sé? per gli altri? Per la terra. Per la terra che tutti ci accoglie.

Dove risiede l’attualità di Bertrando Spaventa?

Nel suo rigore filosofico, che fu in lui abito morale. Con Hegel, il suo vero Autore, lottò tutta la vita, per capirlo sino in fondo, senza pretesa alcuna di separare in lui il “vivo” dal “morto” o di “riformarne la dialettica”, perciò gli riuscì quello che ad altri non era riuscito: andare con Hegel anche oltre Hegel, giungendo alla radice del pensiero del filosofo tedesco, a quella “potenza che ha orrore della luce” che resta l’incatturabile (dal pensiero) fonte di ogni pensiero, se già il solo nominarla “essere” è dir “troppo”. Spaventa ‘vide’ il limite della logica, della filosofia, del pensiero, senza perciò stesso superarlo – come invece sosteneva Hegel. L’attualità di Spaventa? Non la filosofia come interpretazione, ma l’interpretazione che si fa filosofia.

L'immagine infranta. Linguaggio e modo da Vico a Pollock (2014) termina con una domanda angosciante. Come risponde?

Immagino lei si riferisca alla domanda se c’è alternativa al gesto finale dell’Empedocle hölderliniano, ‘ripetuto’ da Pollock e Celan, ancorché per ragioni, o meglio: per ‘patimenti’ diversi. Invero una risposta l’avevo ‘tentata’, per dare un fondamento adeguato a noi Figli della Terra al “tu non ucciderai” (Lo tir’zach) del comandamento antico. Avevo scritto che speravo non in “una nuova innocenza”, ma in “un diverso modo di sentire il morso del serpente”. E cioè, aggiungo ora, con quella pietas, che secondo Vico è necessaria per esser “savi”.

Dopo Vico, quale grande filosofo vorrebbe intervistare? E per chiedergli cosa?

Kant. Centrerei l’intervista sulla “morale”, a mio avviso l’aspetto più problematico ed inquietante del pensiero kantiano. Certo: il più attuale, perché il più estraneo alla coscienza del nostro tempo.  

Il segreto della vita è sempre di vivere l’istante per quello che è o c’è altro?

Rispondo con Benjamin: per gli ebrei “ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva (konnte) entrare il messia”. Insisto su questo “poteva”. Che, ribadisco, non dice ‘potere’ o ‘potenza’ – dice: “possibilità”. Qui anche dono. Il dono possibile.