Carlo Sini

Carlo Sini, la vita in noi

Davide D'Alessandro

I libri del filosofo bolognese, allievo di Enzo Paci, attraversano gli ultimi decenni lasciando segni indelebili e ricordandoci che la verità sta sempre nella relazione. Il “suo” Spinoza è diventato il nostro, la misura del filosofare senza cedere mai alle tentazioni modaiole

Se la vita, per Chauncey Wright basta a sé stessa, leggere e riflettere con Carlo Sini non basta mai. Il filosofo bolognese, allievo di Enzo Paci, ci ha fatto scoprire l’importanza decisiva di Charles Sanders Peirce; ci ha insegnato la misura del filosofare senza cadere negli eccessi, senza cedere mai alle tentazioni modaiole; ci ha spiegato, con i suoi scritti, la fenomenologia e l’ermeneutica; ci ha tenuti sul logos; ci ha fatto studiare il silenzio e la parola, i segni dell’anima, la filosofia e la scrittura, il comico e la vita, l’uomo, la macchina e l’automa; ci ha fatto sfiorare la verità attraverso Spinoza, il tornitore di lenti di Amsterdam, tra i più grandi filosofi di sempre.

 

Ha scritto che “è impossibile mantenere la stessa visione del mondo dopo aver letto Spinoza”. Che significa essere uno spinozista?

Assumere l’uomo forte come condizione dell’uomo libero. L’uomo forte si propone di conoscere quanto basta per essere felice. E quanto basta consiste anzitutto nel riconoscere che: non conosciamo le cause ultime che hanno generato il nostro corpo; idem per la cause profonde dei nostri pensieri. Quindi, liberi dalle superstizioni, possiamo dedicarci alla coraggiosa accettazione delle leggi della natura e del destino; e poi alla attiva creazione di una società di esseri umani liberi da pregiudizi e da violenza.

 

Il Dio come divina ragione del tutto è l’unica soluzione?

Non è una soluzione, è una fantasia che crea ulteriori problemi. Diceva Peirce: porre una simile soluzione significa certo mostrare consapevolezza della profondità del problema; nel contempo, porla non serve a nulla, perché non spiega alcunché. Quanto a Spinoza, il suo Dio non ha pretese di spiegazione, cosa unicamente umana, troppo umana.

Abbiamo più bisogno della sua Etica o del suo Trattato?

Non c’è scelta; le due cose sono le due facce di un’unica soglia e vanno consultate insieme. La natura è la condizione della politica, la politica è la condizione della educazione di una natura “umana”.

 

Che cosa vuol dire verità pubblica?

L’espressione sembra alludere alle credenze condivise dai cittadini o membri di una comunità (da tutti, da alcuni, dai più, come diceva Aristotele). Si tratta dunque di verità provvisorie, come provvisorie sono sempre le credenze.

 

Che cosa intende quando sostiene che la verità è relativamente assoluta?

Intendo porre uno stretto collegamento tra la credenza ritenuta vera e l’insieme infinito di relazioni che la rendono possibile. Per esempio, se fossi nato nell’antico Egitto non avrei motivo di credere che esistano galassie e buchi neri, come oggi invece credo, in relazione a tutto ciò che mi capita di essere: italiano, del XXI secolo, laureato, appassionato di sapere filosofico e scientifico ecc. ecc.

 

Lo specialismo è la tomba della filosofia?

Lo specialismo appartiene alle scienze in quanto le loro pratiche sono sempre relative a strumenti esosomatici particolari (per es. il cannocchiale). Lo strumento della filosofia è invece il discorso, la cui natura è preliminare a ogni sapere definito e specialistico. Il che non significa che sia generico. Il suo problema è il modo in cui abitare il sapere e il limite costitutivo che lo accompagna. In altre parole: come accettare che l’esperienza della verità coincida con il transito in errore delle sue figure. La mia, appunto. Potrei esprimermi figurativamente così: la verità soffia dove vuole, non dove voglio io; ma ciò che il mio volere vuole è la mia appartenenza al destino e alla via della verità, intesa dunque come evento, non superstiziosamente come significato: cioè come evento del e nel significato.

 

Come ha fatto la filosofia ad assorbire tutto il suo narcisismo?

Ma l’ha fatto?

 

Non tutti sanno che ha insegnato anche all’Università dell’Aquila. Che ricordo ne ha?

Era una Università libera, in attesa di statizzazione, che poi ottenne. Tutto era un po’ alla buona, ma genuino e sincero. Facemmo, credo, un buon lavoro, distrutto in pochi attimi notturni (due miei allievi avrebbero potuto trovarsi coinvolti per una questione di ore). Mi piacerebbe capire come se la mette chi crede nella divina provvidenza, ma lasciamo stare.

 

Di recente ha dedicato un libro significativo alla figura di Enzo Paci. Che cosa ha rappresentato per lei e per la cultura italiana?

Ha liberato la cultura italiana dalla chiusura del fascismo, aprendoci, già negli anni ’40 del secolo scorso, al mondo, come aveva cominciato a fare Antonio Banfi, il maestro suo e della scuola di Milano. Io penso di essere l’ultima conseguenza di quella storia, spero non indegna della loro tradizione. Da Paci ho imparato così tanto che non riesco più a distinguerlo nettamente da ciò che sono o che credo di essere.

 

Paci le rimproverò di essere passato da Marx e Husserl a Nietzsche e Heidegger. Perché lo fece?

Per la questione del soggetto, inteso come l’irrevocabile che ognuno è, ma di cui nessuno propriamente sa. Richiamato dall’Aquila a Milano sulla cattedra di Filosofia teoretica seconda, avevo iniziato a confrontarmi con Paci, il mio maestro, sulla questione e sui suoi relativi dubbi e interrogativi. Dovevamo vederci a cena, in una prossima settimana. Invece quell’estate se ne andò all’improvviso, lasciandomi solo a sbrogliarmela da me. Non saprò mai cosa ne sarebbe derivato.

 

I maestri vanno uccisi o risparmiati?

Prima di tutto vanno riconosciuti (e non sono molti a saperlo fare), perché loro, se sono davvero maestri, non possono riconoscersi da sé. Sono sempre gli allievi a battezzarli e poi a doverci fare i conti. Ne so qualcosa.

 

Heidegger resta Heidegger anche dopo i Quaderni neri?

Il significato di ogni vita, ciò che ognuno è, lo possono dire solo gli altri. Così osservò Peirce e sono d’accordo. Ognuno è le sue conseguenze future, sino a che ce ne sono. Per Heidegger per ora ce ne sono molte. Sui Quaderni neri si è fatta molta confusione, si sono incontrati banali interessi editoriali e giornalistici e banalissimi narcisismi professorali; perciò preferisco tacere.

Chi è stato l’ultimo grande filosofo?

Per rispondere dovrei sapere chi stabilisce queste graduatorie, qual è il loro senso e perché si dovrebbero fare. Ma no lo so.

 

Con il pensiero di Emanuele Severino ha avuto una dialettica cordiale e vivace. Che cosa continua a non convincerla?

La sua logica dell’ente, che io vedo iscritta nella pratica della scrittura alfabetica. Solo lì esistono “enti” definiti (il fuoco, la cenere) e il loro problematico oscillare tra essere e divenire. Questa pratica della filosofia non è in grado di chiarire le nostre idee di copernicani e darwiniani, potremmo dire ancora una volta con Peirce.

 

Qual è l’importanza di Derrida nella filosofia contemporanea?

L’avere inteso la relazione profonda tra segno, scrittura e verità “logica”, con un riferimento misto a Husserl e a Heidegger. Ecco, io direi (ma ne sono responsabile), un “grande” filosofo.

 

Quando Peirce diceva che “il significato della tua vita non appartiene a te ma agli altri”, che cosa intendeva?

Che si tratta sempre, come diceva Nietzsche, di diventare ciò che si è. Mentre sei impegnato a diventarlo (che tu lo sappia o no) non puoi anche esserlo: a questo ritratto definitivo si danno da fare, eccome, gli altri, mentre sei in vita e poi dopo.

 

Ha detto che la filosofia è sostanzialmente due cose: esercizio di saggezza e ricerca della verità. Dove riesce meglio?

Quando fa dell’una l’occasione per comprendere l’insufficienza dell’altra.

 

Perché si ritorna all’Inizio soltanto quando si percepisce che si avvicina la Fine?

Perché abbiamo sempre bisogno di sapere perché, di trovare motivi per come è andata. In una meditazione zen si potrebbe però osservare: tornare all’inizio è sostanzialmente un pensiero; lascialo passare, come tutto passa, e vedrai che va bene così.

 

Decidiamo noi o decide la vita per noi?

Decide la vita in noi: ne siamo i portatori, con tutto il peso della responsabilità e del rimorso e la sensazione che ci sia stata fatta una violenza o un’ingiustizia. Ma infine, direbbe Nietzsche, che importa di te? Dì la tua parola e infrangiti in essa.

 

La vita, per Chauncey Wright, basta a sé stessa. Per lei?

Alla mia età è fin troppo.