Salvatore Veca

Salvatore Veca, l'importanza della filosofia

Davide D'Alessandro

Maestro nella riflessione acuta su ciò che non si lascia accostare con superficialità, da molti anni lavora ai prolegomeni di una teoria della giustizia globale. Per gettar luce sulla natura del problema e per tentare una soluzione, la sua indagine si avvale della tensione fra l’esplorazione di connessioni e la coltivazione di memorie

Laurearsi sotto la guida di Enzo Paci e Ludovico Geymonat è un bel laurearsi. Sono passati tanti anni da quel giorno luminoso, ma Salvatore Veca non ha nulla da rimpiangere. La sua immaginazione filosofica lo ha condotto dalla teoria della conoscenza e dell’epistemologia alla filosofia della politica, nella prospettiva della teoria normativa, passando per il lungo corpo a corpo con il pensiero di Karl Marx. Ha pensato e scritto tanto, Veca, ed è maestro nella riflessione acuta su ciò che non si lascia accostare con superficialità. Ho amato alcuni suoi libri più di altri, alcune sue intuizioni più di altre, alcune sue tesi più di altre, ma sempre l’ho osservato, seguito e letto perché con la sua stoffa si collezionano i vestiti del filosofo e si rende …giustizia a una disciplina perennemente in bilico tra banalità e profondità. Lo spirito filosofico di Veca è intatto, il suo lavoro sulla cartografia filosofica continua a esplorare nuovi orizzonti di possibilità, poiché un mondo senza la filosofia, egli ricorda, sarebbe terribilmente povero. Nel corso del tempo ho dialogato in silenzio con i suoi libri, li ho immaginati e ruminati, persino attesi per trovarvi contraddizioni e ir-realizzazioni. Adesso ho voluto ascoltarlo per ricevere le parole di oggi, senza dimenticare quelle di ieri. Ho tra le mani Le cose della vita. Congetture, conversazioni e lezioni personali. È un libro del 2006, ma un libro dove emergono le questioni centrali dell’esistenza è un libro per sempre. Amiamo entrambi le interviste immaginarie e quella che segue, pur non essendola, lascia tanto a chi desidera immaginare. E meditare.

Ho letto la sua intervista immaginaria a Marx. Io ne ho fatta una a Machiavelli. In questo momento, alla nostra Italia, servirebbe più il primo o il secondo?

Sono convinto che, in tandem, servirebbero entrambi. Ma mi chiedo se non dovremmo impegnarci in esercizi di interviste immaginarie a Montesquieu a proposito del teorema della separazione dei poteri, a Voltaire a proposito della virtù della tolleranza dei figli della fragilità, a Beccaria a proposito del senso e della proporzionalità della pena. O, forse e previamente, se non sarebbe utile e opportuna per la nostra Italia la lettura di un buon libro di storia, come ha suggerito Liliana Segre.

Ha detto che il problema della Sinistra è che si alza tardi al mattino. Che cosa è rimasto di quando si alzava presto?

Quanto è rimasto della sinistra, di quando si svegliava presto, è un grappolo elementare di valori che hanno orientato in una vicenda piena di luci e di ombre l’azione collettiva di riforma sociale, nella direzione dei diritti e della equità. Quei valori sono come in attesa di risvegli. In attesa di una loro riformulazione in tempi drasticamente mutati. Ho cercato di fare qualcosa del genere nel mio ultimo libro dal titolo vagamente morettiano, Qualcosa di sinistra. Idee per una politica progressista.

Che cosa risponde a chi sostiene che Destra e Sinistra sono ormai parole vuote?

Risponderei così: Donald Trump mi sembra piuttosto lontano da Bernie Sanders. E la stessa distanza intercorre fra Jair Bolsonaro e gli eredi di Lula. O fra Pedro Sanchez e gli eredi di Aznar. Fra il sindaco di Londra, Sadiq Aman Khan, e la premier Teresa May. O fra Matteo Salvini e Roberto Saviano. Fra il sindaco di Instanbul, Ekrem Imamoglu, e il premier Recep Erdogan. Fra imprenditori politici della paura impegnati nel tirar su muri e imprenditori politici della speranza impegnati nel costruire ponti. Fra le politiche della chiusura e le politiche dell’apertura.

Che cosa vuol dire essere un liberale di sinistra?

Un liberale di sinistra è uno che assegna priorità all’uguale sistema delle libertà delle persone su altri valori sociali. Ma non si ferma lì. Si chiede se l’uguale libertà abbia uguale valore per le persone. Il valore dell’uguale libertà può essere maledettamente disuguale per le persone. E ciò è al cuore della questione sociale, vecchia e nuova. E ciò sta a cuore al liberale di sinistra. Sullo sfondo, entro la nostra tradizione, la acuta diagnosi del giovane Marx nella sua Questione ebraica: l’uguaglianza dei diritti e delle libertà nel cielo della cittadinanza e la disuguaglianza del vantaggio e  dello svantaggio sulla terra della società. Un liberale di sinistra ha a molto a cuore l’articolo 3 della nostra Costituzione ed entrambi i suoi commi, così come è leale alla Carta dei diritti fondamentali di Nizza, incentrata sull’idea di uguale dignità delle persone.

Continua a scorgere ancora il fine della politica o ne teme la fine?

Il fine della politica resta perspicuo e funge da stella polare per il giudizio, il discorso e il provvedimento. Naturalmente, la questione della fine della politica chiama in causa le trasformazioni e le metamorfosi, di cui siamo osservatori e partecipanti, dei rapporti fra i differenti poteri: in particolare, fra il potere politico e i poteri sociali quali quello economico o, più precisamente, finanziario e quello religioso. Si osservi che la relativa debolezza dell’esercizio di autorità politica rispetto ai poteri sociali dipende dal fatto che il potere politico ha effetti entro la costellazione nazionale, mentre i poteri sociali sono ubiqui e si muovono entro la costellazione postnazionale, per dirla con Jürgen Habermas. Da questa osservazione dovremmo trarre conseguenze che hanno a che vedere con il fine e la fine della politica.

Riesce a spiegare in poche righe la grandezza di Una teoria della giustizia di Rawls?

La grandezza del capolavoro di John Rawls, Una teoria della giustizia, dipende dal suo carattere architettonico e sistematico. Rawls ha istituito il paradigma delle teorie della giustizia mirando a individuare i principi o i criteri di giustizia soggiacenti a una concezione del senso di giustizia proprio della cultura pubblica di società democratiche. In questo modo, la teoria contrattualistica della giustizia sociale come equità ha aperto lo spazio della controversia e del disaccordo fra concezioni alternative di giustizia. Basta pensare, in proposito, al riconoscimento di uno dei critici più severi e acuti dell’opera di Rawls, il libertario Robert Nozick. In Anarchia, Stato e utopia Nozick ha sostenuto che dopo la teoria di Rawls chiunque faccia filosofia politica ha il dovere di prenderla in esame e di discuterla o di esplicitare le ragioni per cui non lo fa.

È possibile una giustizia globale? si chiede Thomas Nagel. Che cosa risponde?

A Tom Nagel ho risposto che una giustizia globale è terribilmente difficile da conseguire. Ma non trasformerei inevitabilmente le cose difficili in cose impossibili. Da molti anni lavoro ai prolegomeni di una teoria della giustizia globale e, come avevo indicato nelle dieci lezioni de La bellezza e gli oppressi del 2002, la questione è tanto difficile quanto ineludibile. Non possiamo accettare che la virtù della giustizia resti inchiodata entro i confini di una qualche costellazione nazionale e che i processi di globalizzazione erodano o azzerino diritti ed equità per chiunque, ovunque gli o le accada di avere una vita con tante altre e altri da vivere. Nel suo opus maius, Il diritto di avere diritti, Stefano Rodotà aveva formulato la tesi di una costituzionalizzazione della persona in una prospettiva globale. Con tutta l’eco del diritto cosmopolitico di Per la pace perpetua di Kant e della civitas maxima di Kelsen.

È più facile accostarsi al bene o allontanarsi dal male?

Spinoza sostiene che il male è il preclusore di qualsivoglia bene. Ho richiamato questa tesi spinoziana nella mia proposta teorica a proposito di diritti umani fondamentali. Penso ai diritti come a uno scudo protettivo contro il male. Ma quando penso al bene, viene in primo piano il detto terenziano: humani nihil a me alienum puto. Il dominio del bene per gli esseri umani è uno spazio plurale in cui le persone perseguono una essenziale varietà di beni. Questo, e non altro, è lo spazio del pluralismo dei valori caro a Isaiah Berlin. Che non equivale a relativismo. Come diceva Samuel Beckett, il male ha invece una sua “monotona centralità”. Per questo, il discorso sui diritti umani come scudo nei confronti del male non si basa sulla promessa del bene quanto piuttosto sulla memoria del male. Del male assoluto della Shoah nel secolo breve, alle nostre spalle.

Ha scritto che è falso dire che non c’è alternativa. Qual è quella possibile?

Il mantra del “non c’è alternativa” è pervasivo, ma non è irresistibile. Albert Hirschman l’aveva detto: non si dà circostanza politica e sociale in cui non si dia una qualche possibilità alternativa. Naturalmente, perché abbia luogo l’esplorazione di possibilità, dobbiamo presupporre che l’ombra del futuro sul presente – come si dice in teoria dei giochi – sia estesa e non contratta o azzerata. Se restiamo nella trappola del presentismo o della dittatura del presente, è molto difficile che abbiano luogo esercizi di immaginazione politica e sociale. Se prendiamo sul serio gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’agenda Onu 2030, nella prospettiva di una giustizia intergenerazionale possiamo mettere a fuoco linee d’azione alternative. Un solo esempio: il caso globale dello spreco alimentare. Più del 30% del cibo è sprecato o nella filiera della distribuzione o in quella del consumo. Questa è un’ingiustizia radicale. Ma sappiamo che lo spreco può essere ridotto, sia in virtù di politiche e di scelte collettive, sia in virtù di condotte individuali. C’è alternativa.

Per descrivere una società giusta scelse, in Dizionario minimo, dodici parole. Ne aggiungerebbe qualcuna?

Sì. Aggiungerei due parole: Pianeta e Umanità. E lo slogan appropriato sarebbe del tipo: una sola umanità e un solo pianeta, sino a prova contraria. Come sostiene Greta Thunberg, non c’è un pianeta B. E ciò ha a che vedere con i molti volti della sostenibilità, nel senso di Jeffrey Sachs. In una concezione olistica e multidimensionale dell’idea di progresso sociale e di sviluppo umano come libertà delle persone, nel senso di Amartya Sen.

Con la sua nipotina Camilla è andato alla scoperta della filosofia. Qual è il contributo che può dare in un tempo così complesso?

Ciò che so, a proposito del contributo che la filosofia può dare nei nostri tempi complicati, è che si tratta più o meno dello stesso contributo che essa ha dato in quel repertorio di possibilità che è il passato. Il passato è un altro presente. So che è così, anche se non sono bene come lo so. Forse lo sento. In ogni caso ho l’impressione che un mondo senza filosofia sarebbe un mondo più “povero”. Proveremmo un’esperienza di perdita e dissipazione. Spero che anche mia nipote Camilla sia d’accordo.

Charles Wright Mills scrisse L’immaginazione sociologica, lei filosofica. Che immaginazione è?

Nella mia prospettiva, l’immaginazione filosofica si mette in moto grazie alla tensione fra due manovre intellettuali che caratterizzano in tandem l’indagine filosofica nella varietà dei suoi stili. Assumiamo che qualcosa sia per noi un genuino problema in un qualsivoglia ambito della nostra ricerca o delle nostre vite. Per gettar luce sulla natura del problema e per tentare una soluzione, l’indagine filosofica si avvale della tensione fra l’esplorazione di connessioni e la coltivazione di memorie. Fra il tentativo di immergere il problema in una rete concettuale di alta generalità e astrazione e quello che chiama in causa il grande repertorio, come amava dire Paul Ricoeur, della sua tradizione nel tempo. La tensione o la circolarità fra le due manovre innesca l’immaginazione filosofica.

Un mondo sembra finito e un altro non ancora nascere. Come lo immagina?

Noi siamo osservatori e partecipanti di un’epoca di passaggi e transizioni. Impegnarsi in profezie o predizioni non è un’impresa appropriata alla paziente indagine filosofica. Come ci ha suggerito Michel Foucault a proposito della risposta kantiana alla questione di che cosa sia Illuminismo, siamo piuttosto indotti alla disciplina paziente dell’indagine critica sul presente, per dare spazio, lo spazio giusto, all’impazienza della libertà.

Per David Hume, “una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere”. Ne vede tanta in giro?

Nelle mie ricerche filosofiche ho individuato nella condanna delle persone alla solitudine involontaria il promemoria del male sociale e politico per eccellenza. A ciò ho dedicato, più di vent’anni fa, una parte della terza Meditazione di Dell’incertezza. Le nostre società sembrano a me macchine che secernono sistematicamente microcondanne alla solitudine involontaria per le persone. Il peggior castigo, come ha sostenuto Hume nel suo classico Trattato sulla natura umana.

In Le cose della vita traccia alcuni ritratti di personalità che hanno in qualche modo lasciato un segno nella sua vita. Chi più di ogni altro e perché?

Marco Mondadori, senza dubbio. Marco è stato un grande logico ed epistemologo. Mi ha insegnato cose molto importanti a proposito della natura dell’indagine filosofica. Marco è stato il mio più grande amico. E noi abbiamo intrecciato vite filosofiche e non filosofiche, con un buon bicchiere di whisky, conversando con fervore per ore intorno a molte questioni logiche, etiche e politiche e tacendo per un po’ solo di fronte a tramonti in cieli alla Turner, come Marco amava dire.

Che cos’è e quanto è importante l’incompletezza?

L’idea di incompletezza, come ho cercato di mostrare nel saggio del 2011, si applica in più di un dominio. Nel dominio dei valori, nel dominio delle nostre giustificazioni dei valori, nel dominio dell’interpretazione di testi e opere, nel dominio della dimostrazione. In quest’ultimo dominio, lo spettro di Kurt Goedel mi ha perseguitato per almeno tre anni, mentre ero alle prese con la ricerca. Per saggiare l’importanza dell’incompletezza, possiamo ricorrere a un semplice esperimento mentale: chiediamoci come sarebbe per noi un mondo saturo nella varietà delle sue versioni. La ricerca, in quel caso, avrebbe fine.

Che cos’è e quanto è importante l’incertezza?

Quando ci interroghiamo sulla natura e sull’importanza dell’incertezza nelle nostre vite, noi ci mettiamo alla prova con la variazione, più o meno accelerata, del confine fra certezza e incertezza. Riprendiamo l’idea del semplice esperimento mentale: chiediamoci come sarebbe per noi un mondo in cui l’incertezza avere valore zero. Chiediamoci poi come sarebbe per noi un mondo in cui l’incertezza avesse valore uno, assumendo che la nostra metrica vada da zero a uno. Il primo mondo sarebbe un mondo del tedio della certezza, affine a un mondo saturo. Nel secondo mondo, noi semplicemente ci perderemmo e perderemmo noi stessi. E ciò rende conto della natura e dell’importanza dell’incertezza.

Chi è l’intellettuale? Ha ancora una funzione? In Italia si rivolge più al potere o all’opinione pubblica?

L’esercizio della funzione intellettuale, come usava dire Umberto Eco, subisce variazioni e metamorfosi dovute al mutamento del paesaggio sociale. Sia i modi di esercizio del potere sia la fisionomia dell’opinione pubblica sono drasticamente mutati rispetto ai modelli ereditati dal secolo alle nostre spalle, in cui la funzione intellettuale ha avuto un ruolo perspicuo sia nei confronti del potere sia nei confronti dello spazio pubblico. Non ho una visione apocalittica, in proposito. Penso solo che chi sia dedito alla professione o, meglio, alla vocazione intellettuale debba oggi abbozzare il proprio gesto di “teoria” come un gesto, semplice, elementare e responsabile, di “autonomia”. Mettere messaggi nella bottiglia o, come preferisco dire, scrivere lettere al mondo (che in genere non risponde), come ci ha insegnato la grande Emily Dickinson.

Ha detto che ci sono i libri che insegue, i libri che le vengono incontro e i libri che la accompagnano. Me ne indica tre?

Un libro che mi insegue: Les fleurs du mal di Charles Baudelaire. Un libro che mi viene incontro: A Theory of Justice di John Rawls. Un libro che mi accompagna: Les Essais di Michel de Montaigne.

Si laureò con una Tesi sull’epistemologia kantiana. Oggi su quale Tesi deciderebbe di impegnare il destino di studioso?

Nel mio libro, Il senso della possibilità, riprendo le mosse dalle ricerche sulla modalità in Kant. Penso che, in questo caso, potrei far mia la celebre massima di Edith Piaf, No, je ne regrette rien!