Niccolò Machiavelli e l'edizione Bompiani di "Tutte le opere"

Niccolò Machiavelli, l'Opera di tutte le opere

Davide D'Alessandro

Nella monumentale edizione Bompiani, con l’incisivo lavoro introduttivo di Michele Ciliberto, oltre tremila pagine per dirci tutto sull’esperienza strepitosa e tragica, strepitosa perché tragica, dell’inimitabile Segretario fiorentino

Monumentale. È l’Opera di tutte le opere. Niccolò Machiavelli, Tutte le opere, secondo l’Edizione di Mario Martelli (1971), edito da Bompiani, con l’introduzione di Michele Ciliberto e il coordinamento di Pier Davide Accendere, rientra nel novero degli accadimenti editoriali epocali, un evento, poiché raccoglie, unisce, dà corpo alla grandezza del Segretario fiorentino, di chi cinquecento anni fa divenne classico prima di diventare uomo, poiché dell’uomo colse, meglio di chiunque altro, il buio ancestrale che gli si annida dentro, che lo stringe alla gola, che lo divora.

Ne scrivo quasi a un anno dall’uscita. L’ho dovuto prima sfogliare e assaporare, poi gustare, infine digerire. Eppure, non mi sembra che vi sia altro da fare che tacere di fronte a cotanta bellezza di materiali, alla forza che quotidianamente esprimono, basta tenerli a portata di mano e aprirli a caso, quando si conviene, per trarne un nutrimento supremo. Machiavelli non delude mai. Il suo sguardo raggiunge tutti gli sguardi, ti legge mentre lo leggi, ti suggerisce mentre lo interpelli, ha la carica devastante della realtà effettuale delle cose.

Le oltre tremila pagine, introdotte da Michele Ciliberto, sono impreziosite da una imponente rassegna bibliografica curata da Alessandro Arienzo, Artemio Enzo Baldini e Claudia Favero e dalle singole prefazioni, tutte perfettamente calibrate e degne di citazione: Lucio Biasiori alle Legazioni e alle Lettere; Robert Black agli Scritti storici; Alessandro Campi a Dell’arte della guerra; Paolo Carta ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio; Maria Pia Sacchi Mussini agli Scritti letterari in poesia; Giorgio Scichilone agli Scritti politici minori e al Principe; Pietro Trifone agli Scritti teatrali; Carlo Varotti agli Scritti letterari in prosa.

Michele Ciliberto, che pennella un ritratto del Machiavelli riformatore e utopista, inizia da Firenze: “Niccolò Machiavelli fu in primo luogo, e si sentì sempre, un civis florentinus: dall’inizio alla fine, Firenze fu il centro, diretto o indiretto, della sua esperienza umana, intellettuale, politica. Una città difficile, ciarliera, pettegola, anche crudele – come ebbe modo di sperimentare sulla propria pelle, in prima persona – capace di accendersi per le cose più strane, ‘calamita di tutti i ciurmatori del mondo’, ‘di parlare avida e che le cose dai successi e non dai consigli giudica’; abitata da un popolo, quello fiorentino, acuto, ‘sottile interpetre di tutte le cose’, ma chiuso, secondo Machiavelli, in una contraddizione che ne genera, infine, la rovina: tanto incapace di essere libero quanto refrattario alla servitù. Questa Firenze fu la patria alla quale restò sempre fedele, e lo rivendicò con impeto nei momenti difficili: ‘Io credo – scrive nel Discursus – che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che voluntariamente è loro dato dalla loro patria: credo che il maggiore bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria’. Per questa patria – e per il bene comune, in opposizione frontale alle ‘sètte, le quali sono la rovina di uno stato’ – Machiavelli si impegnò lungo tutta la sua vita, sforzandosi anche di riformare lo Stato con proposte di istituti che ne garantissero la stabilità, come prima di lui avevano fatto grandi filosofi come Aristotele o Platone o grandi legislatori quali Solone e Licurgo. Quei filosofi e quei legislatori con cui avrebbe preferito andare all’inferno, piuttosto che con ‘i beati del Paradiso’, perché, nella loro vita, essi avevano guardato alla terra, non al cielo, e si erano interessati delle repubbliche, degli Stati, del vivere civile”.

Ciliberto, scrivendo di Machiavelli, non può dimenticare il “suo” Bruno e lo eleva a discepolo del fiorentino, che “è un rappresentante tipico, per quanto originalissimo, della civiltà umanistica e rinascimentale, e occorre averlo presente per evitare discussioni tanto noiose quanto inutili. Per Machiavelli è naturale parlare di politica, scrivere testi storici destinati a rivelarsi fondamentali, elaborare progetti di riforma dello Stato, e, al tempo stesso, dedicarsi alla Mandragola, curandone anche la parte musicale, oltre che la scelta degli attori e la rappresentazione. Sotto questo profilo è simile a un altro grande esponente di quella civiltà, Giordano Bruno, che di Machiavelli può essere considerato, per molti aspetti, un sodale, una sorta di discepolo ideale”.

Ciliberto tratteggia i caratteri peculiari della personalità di Machiavelli, l’importanza dell’ironia, dell’amicizia, la capacità di saper entrare nella testa altrui, la consapevolezza di andare controcorrente: ”La concezione che Machiavelli ha della politica, e che sviluppa nelle sue opere più importanti, è imperniata sulla razionalità degli interessi concreti, materiali, da cui germina una analisi serrata dei rapporti tra le forze in campo e delle reciproche possibilità di azione e di successo. Il terreno è questo, e se si accenna ad altri elementi più ambigui ed oscuri, essi restano sullo sfondo del quadro: incisi, parentesi, senza mai toccare, tanto meno diventare, il centro del discorso. Del vincolo dell’Amore, in termini neoplatonici, non discorre mai: l’amore gli interessa, ma su un altro piano. La mente di Machiavelli è estranea a questo tipo di problemi e se ne tiene volutamente distante: il che significa che non li ritiene rilevanti ai fini del suo metodo e del suo ragionamento. Ma c’è un altro elemento che tiene lontano Machiavelli dalle posizioni di tipo ermetico – da Pico fino a Bruno. Parla a volte di ‘uomo immagine del mondo’ (a conferma della circolazione del motivo), ma è completamente estraneo, anche in questo caso, alla concezione ermetica dell’uomo come ‘grande miracolo’, e alla tesi pichiana secondo cui l’uomo, essendo indeterminato, può scegliere di salire in alto oppure di scendere in basso e farsi bestia, ripresa da Bruno nello Spaccio dove afferma che l’uomo può farsi ‘dio de la terra’. Per Machiavelli l’uomo può scegliere assai poco: è vincolato alla sua natura, non vede al di là del proprio naso, non può, certamente, dominare le stelle, come si illudeva di poter fare Tolomeo: sono tesi che propone già nei Ghiribizi al Soderino, scritti nel 1506, uno dei suoi primi testi teorici, riprendendole in tono affine sia nel Principe che nei Discorsi”.

Pregnanti sono le pagine che Ciliberto dedica alla concezione che Machiavelli ha della religione, “la sua indifferenza per la religione come esperienza spirituale, e lo sguardo – anzi, il ghigno – con cui considera i suoi esponenti, dai capi fino ai gregari, i frati, i preti. C’è disprezzo, visibile, nell’occhio che li guarda: Timoteo, nella Mandragola, è la quintessenza del frate, dell’uomo di Chiesa; è il punto estremo in cui si manifesta la crisi dell’epoca, secondo un caratteristico paradosso, in cui agisce nuovamente quel ‘pensare per contrari’ che scandisce le analisi di Machiavelli: quelli che dovrebbero indicare la strada del paradiso sono agenti infernali, quanto di peggio esprime il tempo: anzi sono causa essenziale della crisi morale e civile che travaglia l’Italia e anche Firenze. È il motivo dialettico del rovesciamento, già visto altre volte in azione. Ma proprio questo modo di pensare consente a Machiavelli di articolare il suo ragionamento. L’indifferenza che rivela per la religione in quanto esperienza spirituale non risolve infatti la sua concezione del fenomeno religioso, di cui sottolinea invece l’importanza decisiva nella fondazione e nello sviluppo degli Stati. È un motivo che attraversa tutta la sua opera, ma che è svolto in modo organico anzitutto nel primo libro dei Discorsi, discorrendo della religione dei Romani e della funzione di Numa Pompilio. La religione, intesa come ‘vincolo’, è fondamentale per lo Stato, sia esso un regno o una repubblica. Essa rappresenta la struttura originaria di un ‘vivere civile’, il nucleo di valori nei quali tutti i cittadini di uno stato si riconoscono, al di là delle differenze sociali e politiche”.

Si perda pure, il lettore, senza fretta, meditando lungamente sul Principe e sui Discorsi. Sono le opere di tutte le opere, sono il frutto eterno di un uomo che morì sconfitto senza perdere se è vero, dopo cinquecento anni, che ancora a lui facciamo ricorso per illuminare il fondo buio del potere, per cogliere segnali che dalla Storia possano aiutarci a gestire e governare il presente. Per Ciliberto, Machiavelli “morì sconfitto, ma anche di questo era stato del tutto consapevole, senza essere in genere riuscito a fare quello che aveva pensato, e che riteneva fosse giusto fare. Lo dice in modo aperto, e lo vedremo, alla fine dell’Arte della guerra con le parole di Fabrizio Colonna. Nella sua vita poche volte, e quasi mai dopo il 1512, era riuscito a fare quello che avrebbe voluto; in effetti era stato a suo modo presbite: aveva visto da lontano, e bene, quello che sarebbe accaduto, senza però riuscire a indirizzare e governare gli eventi nella direzione che avrebbe voluto, sapendo che era quella giusta. Sta qui il carattere tragico della sua esperienza umana e politica: nell’essere convinto di sapere cosa si dovesse fare e nell’impossibilità di poterlo fare. Sapeva di avere le idee, i programmi, ma non le forze – le armi – per poterli realizzare”.

La conclusione di Ciliberto, al termine di un’introduzione scritta e “vissuta”, è la misura di una strepitosa e tragica esperienza, strepitosa perché tragica, un lascito su cui continuare a riflettere e a meditare quando ormai mancano soltanto nove anni al cinquecentenario dalla morte di un uomo che, dopo la morte, come accade ai grandi, grande è stato universalmente riconosciuto: “Machiavelli appartiene a un altro mondo; guarda invece all’uomo – o al soldato – in carne ed ossa, cogliendolo nella dimensione feriale, quotidiana, e intreccia, in modo consapevole, biografia e storiografia. E lo fa congiungendo, in modo diretto, l’una e l’altra alla propria esperienza umana e intellettuale, proiettandole nello specchio di una meditazione autobiografica, che attraversa come un filo rosso tutta la sua opera. Si può dire che non c’è pagina in cui non si intraveda lo sguardo, o il ghigno, dell’autore, anche quando, cercando di prendere le distanze da una materia troppo bruciante e coinvolgente, si rappresenta nella figura di Fabrizio Colonna consegnando a lui riflessioni che, in prima persona e senza mediazioni, non sarebbe mai riuscito a fare – essendo troppo abituato a gettare su se stesso uno sguardo ironico, e disincantato, per cercare di ripararsi dai colpi della fortuna. A lui, dopo aver esposto il suo programma, affida alla fine dell’Arte della guerra, come in una sorta di testamento, il ritratto più autentico di se stesso, delle illusioni nutrite, delle sconfitte subite, lasciando cadere il velo con cui aveva imparato a dissimularsi”. Con queste inimitabili parole: ”io mi dolgo della natura, la quale o ella non mi dovea fare conoscitore di questo, o ella mi doveva dare facultà a poterlo eseguire. Né penso oggimai, essendo vecchio, poterne avere alcuna occasione [...]. E veramente, se la fortuna mi avesse conceduto per lo addietro tanto stato quanto basta a una simile impresa, io crederei, in brevissimo tempo, avere dimostro al mondo quanto gli antichi ordini vagliono; e sanza dubbio o io l’arei accresciuto con gloria o perduto sanza vergogna”.