Robespierre

Maximilien de Robespierre, anima ed enigma della Rivoluzione

Davide D'Alessandro

Il libro di Jean-Clément Martin ricostruisce una figura complessa con i successi, le esitazioni e i fallimenti che lo hanno reso un perfetto capro espiatorio. È accostabile a Napoleone, “perché ciascuno qualifica un periodo altrettanto eccezionale della storia di Francia”

Nel panorama editoriale italiano ci sono straordinarie Collane tra storia, filosofia e politica, ma una più di tutte m’esalta: “Profili”, della Salerno Editrice. Ho ancora nella mente il magnifico “Lutero” di Silvana Nitti, perla dell’annata speciale 2017, ma gli ultimi giorni li ho trascorsi in compagnia di Robespierre, di Jean-Clément Martin, e di Campanella, firmato da Saverio Ricci. Ne scrivo separatamente, come i periodi storici impongono, anche per onorare due volte la Collana, per farli vivere insieme a distanza di pochi giorni, per consentire al lettore ancora lontano di avvicinarsi e di accostarsi senza guardare i titoli, ma scoprendo l’opera d’insieme, i protagonisti della cultura, del pensiero, di una storia viva e distante da una contemporaneità deludente e misera. Deludente di idee, misera di esempi, pressoché priva di spessore, salvo rarissimi e nobili casi, incapace di fornire nutrimento intellettuale. Dobbiamo volgere lo sguardo indietro per guardare avanti, non per nostalgia verso un passato che non passa, non per fissazione verso lo specchietto retrovisore, ma per cercare luce, luce che illumini i nostri passi stanchi.

Apro Robespierre e trovo una domanda centrale, capitale: “Come è mai possibile che un uomo la cui esistenza si riduce a così poca cosa, che visse senza denaro e senza relazioni importanti, che mai ottenne poteri eccezionali, sia riuscito a conquistare un ruolo tanto cruciale?”. Martin, a un’altra celebre domanda formulata da Marc Bloch: “Robespierristi, anti-robespierristi, vi supplico umilmente: diteci soltanto chi fosse Robespierre?”, ne aggiunge una più singolare: “Diteci che cosa ne avete fatto, per quale motivo è stato considerato come un uomo diverso dai suoi contemporanei, destinato a un percorso unico e non paragonabile a quello di tutti gli altri?”.

Il libro s’incarica di spiegare articolando, di formulare risposte, di tessere una trama tra il poco noto e il molto ignoto. L’autore vuole mostrare come “Robespierre fosse partecipe della propria leggenda, come si distinguesse da tutti i giovani che lo attorniavano e che gli furono amici e colleghi, eventualmente rivali, persino sue vittime o suoi carnefici. Si vuole chiarire come sia diventato un’icona e una guida, seguita e invidiata, prima di essere proiettato nella Storia quale esempio di rivoluzionario sanguinario”. C’è un fuoco che arde ancora, bastarono soltanto trentuno anni per accenderlo e non consentire più che fosse spento, per lasciare una traccia indelebile. Martin ricostruisce con dovizia di particolari i primi passi, disegna il ritratto credibile di un giovane notabile, traccia l’ingresso in politica, il tempo dello scontro e il suo atteggiamento nazionale: “Non era per nulla preoccupato della crisi che dalla fine del 1788 affliggeva il paese, dove l’aumento del prezzo del pane aveva portato alle proteste popolari e nella sua regione, come in molte altre, i contadini avevano saccheggiato i granai o avevano messo sotto controllo la circolazione dei cereali”. Poi, da Robespierre all’incorruttibile, il vento muta, si formano le prime reti di relazioni, si va alla ricerca di un ruolo, i suoi discorsi iniziano a impressionare aula e giornali, diviene il principale oppositore alla legge marziale, un oratore di rottura, l’incorruttibile amico del popolo, il capo dei giacobini, pur con evidenti limiti politici.

Martin dedica due capitoli alla guida, a quella contestata e a quella incerta, prima di giungere alla prova del potere (luglio 1793 - aprile 1794) e all’idolo abbattuto. La biografia si fa cronaca spietata di una morte infame: “Robespierre partì con gli altri condannati verso le 4 del pomeriggio, con l’abito blu che era stato tanto notato il 10 giugno in occasione della festa all’Essere Supremo, su una barella, il volto livido, gli occhi chiusi, la testa bendata. Sdraiato su un tavolaccio, con una chiave tra i denti per tenere la mascella fracassata, agonizzò per circa 17 ore, durante le quali rimase impassibile di fronte ai commenti e ai sarcasmi degli spettatori passati a guardarlo”.

Ragionando sull’anima e l’enigma della Rivoluzione, Martin definisce Robespierre l’alter ego di Napoleone, “dittatore autentico e gran comunicatore. Ma quest’ultimo curò nel minimo dettaglio la costruzione della propria leggenda, mentre Robespierre l’ha involontariamente subita: i due però sono accostabili, perché ciascuno qualifica un periodo altrettanto eccezionale della storia di Francia, la Rivoluzione l’uno e l’Impero l’altro, e finiscono così per dare senso alla storia del mondo”. Quella storia degli umani che hanno sempre bisogno, presto o tardi, di un perfetto capro espiatorio. Chiude Martin: “Anche in questo caso la sua vicenda non è affatto particolare. I Girondini e anche se a minor titolo gli hebertisti, oppure Danton, ma soprattutto Carrier, che raggiunse Robespierre nell’obbrobrio, vennero tutti gettati in pasto alle belve quando l’urto dei partiti e delle fazioni lo richiese. Robespierre subì però la cosa nel momento più difficile, fu subito confuso con un sistema, quello del Terrore, inventato per l’occasione e tramite una propaganda spudorata lo si rese colpevole delle peggiori atrocità”.

Robespierre ha avuto debolezze e grandezze per meritare di indossare l’ultimo abito. È ancora tra noi perché la storia la scrive il vincitore, ma la fanno il vincitore e il vinto. Robespierre seppe incarnare l’uno e l’altro. Con i successi, le esitazioni e i fallimenti, come recita il sottotitolo di un libro che resterà caro a chi saprà apprezzarlo.