Alessandro Moscè

Alessandro Moscè, il diario e l'anima

Davide D'Alessandro

Si può scrivere anche stando fermi, in un luogo sperduto della provincia italiana, essere giovane, ma sentire il mondo, percepirlo in tutti i suoi colori, coglierne le pieghe dolorose e sul mondo riversare il proprio dolore, il proprio sentimento della fatica di vivere

Si può viaggiare stando fermi, viaggiare con la fantasia, alimentare i ricordi e affidare alla scrittura il compito ingrato di fermare il tempo, di metterlo a riposo, mai a tacere. Ci sono molte pagine vivide nel libro di Alessandro Moscè, Il viaggiatore residente, edito nel 2009 da Cattedrale, alcune meno convincenti, ma tutte a darci il profilo e la densità di un’esistenza piena, mai banale, arricchita dall’incontro con l’altro, che sia poeta, ragazza, celebre o nessuno, che importa? È proprio vero: siamo ciò che leggiamo. Moscè scrive ciò che legge, ma ciò che legge è anche ciò che vive, che ha vissuto, anche se ciò che ha vissuto non smette di vivere, è dentro di lui e lo trasmette al lettore.

Anch’io ero ragazzo quando morì Luciano Re Cecconi, il casco biondo della Lazio di Chinaglia. Morì per uno scherzo banale divenuto tragedia. Anch’io, senza conoscere Moscè, pur essendo juventino dal parto, ero affezionato a quella Lazio, perché mio padre ne era e ne è tifoso. Non avevo più pensato a Re Cecconi, a Frustalupi, a Garlaschelli, a Wilson, ma le pagine di Moscè mi hanno detto che quando quelle pagine furono vissute, le vivemmo insieme, magari in luoghi separati, ma insieme. Anch’io leggo poesia e quasi tutti i poeti di Moscè sono i miei, il verso caldo di Piersanti, comune amico, la grandezza del romanziere Bevilacqua, la sua scrittura infuocata eppure tersa.

Si può scrivere anche stando fermi, in un luogo sperduto della provincia italiana, essere giovane come Moscè (1969), ma sentire il mondo, percepirlo in tutti i suoi colori, coglierne le pieghe dolorose e sul mondo riversare il proprio dolore, il proprio sentimento della fatica di vivere. E pensare persino a Dio, accostarlo e allontanarlo, ricrearlo attraverso i viandanti che trovi per strada, protagonisti del tuo racconto che si fa vita, della vita che si fa racconto finendo sui libri. Ci sono le storie ad animare il diario e l’anima, essendo il diario la voce dell’anima. Un’anima, quella di Moscè, che ha conosciuto il dolore, il dolore della malattia e forse della guarigione. Scrivo forse, perché la guarigione non è di questa vita. Di questa vita, e dell’altra, di quella che abbiamo vissuto, mentre distratti volgevamo lo sguardo altrove, è soltanto la scrittura.

Pirandello ci ha detto che la vita o la si vive o la si scrive e che lui non l’ha mai vissuta, se non scrivendola. Aveva capito tutto. Più di tutto. Anche Moscè si è messo sulla stessa strada. Da viaggiatore residente.