Umberto Piersanti. Foto di Serena Campanini ed Elisabetta Baracchi

Umberto Piersanti, la forza del dolore

Davide D'Alessandro

Il sapore dell'esistenza passa attraverso il suo gusto amaro. Da Natoli a Borgna, da Sbarbaro al poeta d'Urbino, padre di un ragazzo autistico, note sull'humana conditio, "un graticcio sotto il pavimento che non vedi ma ci puoi sprofondare"

Ha ragione Zygmunt Bauman quando sostiene che “la vita adessista non vuole acquisire o collezionare, ma solo rottamare”, poiché è chiamata a consumare e a consumarsi, la nostra vita, quella di oggi, che fugge ancor prima di essere chiamata vita. La durata sgomenta. Ciò che dura è destinato ad arrecare dolore, ma può dirsi ancora uomo un uomo senza dolore? Non c’è lui stesso dentro quel dolore, il sapore della sua esistenza, l’ardire di un progetto? Non finisce anche l’amore senza il dolore?

Da cosa nasce la filosofia? Che cosa la genera, rendendola indispensabile? Risponde Aristotele: “Nasce da Thauma”. In tanti, forse in troppi, secondo Emanuele Severino, traducono il termine greco con meraviglia, ma per il filosofo bresciano è traduzione debole e banale. Thauma vuol dire paura, terrore. Di cosa? Dell’infelicità, del dolore, della morte. È Salvatore Natoli a raccontarci le forme del patire nella cultura occidentale, l’esperienza del dolore, perché il dolore si conosce per esperienza. A sua volta, è Eugenio Borgna a raccontarci la malattia, la chiusura, la dissociazione dal mondo, il calvario schizofrenico. Ancora. È Camillo Sbarbaro a raccontarci la sua forza: "Ma la mia vera vita con te viene / perché quando non soffro neppure vivo". Scrive Natoli: "Se della dolcezza dell’amore Dante ci dice che 'ntender no la può chi no la prova', a maggior ragione questo si deve dire del dolore: tuttavia nella sofferenza non vi è solo disequazione tra il tipo di esperienza e la comunicazione, ma vi è una recessione della comunicazione stessa. Il rischio non è il fraintendimento, ma il muto patire che strettamente si imparenta alla morte".

Eppure, nessuno ha saputo parlarmi e trasmettermi del dolore quanto Umberto Piersanti, poeta d’Urbino, padre di un figlio autistico, oggi verso i trent’anni. Me lo ha sussurrato timidamente con i versi che più amo ("figlio che giri solo nella giostra / quegli altri la rifiutano / così antica e lenta / ma il padre t’aspetta / sgomento ed appartato dietro il tronco / che il tuo sorriso mite t’accompagni / nel cerchio della giostra / nella zattera dove stai senza compagni"), ma anche con il suo silenzio, col suo non volerne parlare. Jacopo, per dirla con Carl Delacato, è lo straniero dell’ultima frontiera, è il sorriso a strappi di un adulto che non sa. Nuota Jacopo, corre Jacopo. La sua vista non ha limiti. Il suo orizzonte è senza tempo, a lui che ha il dolore annidato dentro, è risparmiata almeno la cognizione del tempo, il dolore del tempo. Scrive il padre, ormai oltre i settant’anni, "il tempo ch’è passato / lo misuri dall’occhio che ti lacrima / e non sai / e il cuore ti trema se l’aspetti / ti tremano le mani / se la spogli".

Il padre che aveva conosciuto la prima forma di dolore da bambino, il giorno in cui era tornato a casa con un due in matematica: "Una di quelle volte c’era un piatto di fagioli bellissimo, fumava che fuori faceva freddo: e mi dicevo che il due non mi doveva togliere quel piacere dei fagioli e li mangiavo lento per non pensare. Poi bevevo il vino piano, mangiavo anche la carne, piluccavo gli ossi e li succhiavo. Debbo – mi sono detto – restare calmo e godere i fagioli anche se vado a ottobre: ma non riuscivo a staccarmi lo scuro e percepivo il sapore ch’era buono solo passando in mezzo a questo buio, traversandolo lento. Sentivo il buco che avevo dentro e che avrei ritrovato sempre nella vita coi dolori, un buco che sarebbe stato più profondo, ma che cessava, fino a quando, molto più tardi, rimase lì per sempre, anche se a tratti mascherato, come un graticcio sotto il pavimento che non vedi ma ci puoi sprofondare".

Nessuno come Piersanti mi ha consegnato l’immagine del graticcio per dire della humana conditio, del nostro limite, della nostra precarietà. Ma c’è Jacopo a ricordarcelo in ogni istante, a noi sazi di tutto e felici di niente, "ma ti debbo Jacopo ritrovare / così m’alzo / brancolo nella nebbia / ti cerco ancora". Jacopo è la misura del nostro dolore. Portarlo nella mente e nel cuore, tenerlo accanto a noi, a noi che non è dato inseguirlo sul lungomare di Porto Sant’Elpidio, aiuta. È quel dolore che ci salva dal non averlo. Sapere di quel dolore. Il dolore di una vita in attesa della fine. Del dolore e della vita.