Albert Camus

Albert Camus, il quesito fondamentale della filosofia

Davide D'Alessandro

Il senso della vigilanza, dell’attenzione, degli occhi aperti, dello sguardo su sé stessi e sul mondo, sono il nucleo vitale della sua opera

«Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». È l’incipit di Il mito di Sisifo, saggio suadente e complesso di Albert Camus, lo scrittore e filosofo francese vincitore del Nobel a quarantaquattro anni e scomparso soltanto tre anni dopo, il 4 gennaio 1960, con un banale incidente d’auto. Non è poco per chi, sul canone assurdo dell’esistenza umana, pose le basi del suo argomentare filosofico. Come il portiere, ruolo che Camus ricoprì nelle adorate partite di calcio (“Tutto quel che so della vita l’ho imparato dal calcio”), prima difende la propria porta, poi rilancia per insidiare quella avversaria, così le sue pagine sono intrise di una riflessione stringente sulla condizione alienante dell’uomo, sull’inesorabile chiamata a misurarsi con il vuoto, con il buio, con il niente, con le tante insidie e i tanti gol che la nostra anima è costretta a subire, ma anche con la possibilità di una soluzione, di una svolta, dopo l’abisso e la rivolta, rivolta qui intesa come re-azione, come ricerca di nuove vie in cui inoltrarsi, tenendo per mano la fiaccola della solidarietà. Difesa e rilancio anche come risposta a chi ha voluto marcare il suo pensiero con l’accento del pessimismo. Ma qui non siamo a Sartre. Siamo oltre. O, semplicemente dopo.

Scrive Camus: «Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore che nega gli dèi e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice».

Immaginarlo felice dopo le tante fatiche, le tante cadute, le tante opere prive, apparentemente, di senso. Alla “peste”, che può anche assumere le sembianze della dittatura, si può accostare la “cecità” di un altro Nobel, Josè Saramago. C’è sempre l’uomo, alla base. Con gli occhi spenti, addormentati, chiusi. Ma nel loro fondo, la possibilità di una luce, per quanto fioca, di speranza, di cambiamento, di salvezza. Di libertà, per dirla con Roberto Escobar. L’uomo con le sue miserie e le sue grandezze, che può trovare solo in sé stesso e nella capacità di relazione, di legame (e di solidarietà), forza e lucidità per continuare il cammino, senza pensare e attendere il trascendente. Il senso della vigilanza, dell’attenzione, degli occhi aperti, dello sguardo su sé stessi e sul mondo, sono il nucleo vitale dell’opera di Camus. Che cosa conta, dopo oltre cinquant’anni, ripercorrere i dissapori e il distacco dai sartriani, come ha fatto Bernard-Henri Lévy? Conta restituire al pensatore francese l’essenza del suo pensiero, riaccendere i riflettori sul limite dell’umano, da egli sempre evocato, con l’ansia tremebonda di sorvegliare la propria area, di non lasciare la porta sguarnita, di parare ciò che ci si pone incessantemente davanti e di rilanciare. In una parola: di combattere. Senza mollare. E di esserci. Di essere-con. Di con-esserci. Come nel calcio. Metafora della vita. Verità della vita.

 

Di più su questi argomenti: