L'Europa e qualche consiglio utile per la campagna elettorale

Matteo Scotto

Ai cittadini non servono motti da guardia e ladri, ma qualcuno che racconti in modo comprensibile quella cosa molto complicata, molto noiosa e tuttavia fondamentale che è l’Unione europea.

All’alba di una campagna elettorale che come sempre in Italia si preannuncia la peggiore di tutti i tempi, prima di salire sul ring sarebbe il caso di chiarire un paio di questioni su qualcosa che riguarda tutti e anche da molto vicino: l’Europa. Anzitutto è sacrosanto che l’Unione europea occupi finalmente uno spazio prioritario nella competizione politica tra i vari partiti in corsa. Quest’ultimi, come qualche cane sciolto ha già saggiamente iniziato a fare, dovranno prendersi tuttavia la briga di spiegare all’italiano medio in modo comprensibile come e in quale Ue vogliamo stare. Diciamoci la verità, fino in fondo e una volta per tutte. Chi ancora oggi se ne va in giro a parlare di sovranismo, millantando di volersi riprendere una sovranità perduta, o è un extraterrestre telefono-casa approdato da Marte sulla Terra, o è uno che racconta un sacco di balle. Per l’Italia, il treno europeo, è l’unica alternativa possibile. Siamo un paese fisiologicamente propenso e protetto dall’export, con un bisogno incommensurabile di ammodernarsi, sprovincializzarsi e di guardare cosa succede un po’ più in là dal nostro naso. Ci caratterizza una propensione intrinseca alla malagestione delle finanze pubbliche che necessita per forza di cose di vincoli esterni (evviva il Fiscal Compact!); non in ultimo, il vecchio stivale è oggi geograficamente esposto all’area geopolitica più critica del globo, quella del Mediterraneo, la cui crisi è nostra precisa responsabilità storica di “europeizzare”, per evitare di esserne travolti più di quanto già lo siamo. La democrazia, per come l’abbiamo conosciuta, vale a dire segregata nello Stato nazionale, è finita già da un pezzo e evolversi non significata rinunciare alla democrazia, ma sviluppare nuove soluzioni entro cui reinterpretarla e anzi rafforzarla. Chiunque, con un briciolo di grano salis, tutto ciò può e dovrebbe sforzarsi di capirlo, lasciando perdere chi prova a vendergli le banane al posto delle pere. Esclusi dunque gli ultimi fanatici — per fortuna ormai in via di estinzione  — di un sovranismo che, come dice giustamente qualcuno, per il caso italiano non è oltretutto mai esistito, resta da vedere qual è l’offerta politica che rimane riguardo i temi europei. La moda degli slogan, pratica introdotto di recente nella politica italiana, fa venire il voltastomaco e andrebbe abolita da domani mattina. “Europa sì, ma non così”, “Europa sì, anche così”, “No all’Europa delle monetine”, sono motti da guardia e ladri che non solo confondono e innervosiscono i cittadini, ma che non spiegano nulla di quella cosa molto complicata, molto noiosa e tuttavia fondamentale che è l’Unione europea. Come tutti gli addetti ai lavori sanno, a suon di slogan a Bruxelles l’Italia non ha vinto una battaglia che sia una, compresa quella sull’Ema, l’agenzia del farmaco che andava ricollocata dopo Brexit, persa, a differenza di cosa ci raccontano, più per debolezza politica che per malasorte. Se c’è una cosa a cui dieci anni di crisi sono serviti, è quella di aprire l’orizzonte europeo a molti cittadini, i quali ora si meritano qualche spiegazione in più di qualche coro da stadio. Questa tornata elettorale dovrebbe prendere coscienza della sensibilità europea di un paese, l’Italia, che è maturato, non sta andando poi così male, ciò nonostante ha ancora qualche difficoltà a non lasciarsi abbindolare dal Casanova di turno. Agli elettori, quando si parla di Europa, andrebbe raccontato di che cosa l’Unione europea dovrebbe occuparsi, come dovrebbe farlo meglio, quali sono le modalità per favorire la  partecipazione a tale dibattito e quali istituzioni europee andrebbero rafforzate per promuovere un’Unione europea che sia anche dei cittadini e non solo degli Stati. Chi si esimerà dall’affrontare con questa serietà il confronto elettorale sulle questioni europee, darà ragione a quella che Claudio Cerasa chiama giustamente l’Italia della rabbia, quella pessimista e convinta che nulla potrà mai cambiare. Chi invece dimostrerà che l’Italia può essere al pari degli altri grandi paesi europei e ha imparato a prendersi le proprie responsabilità politiche davanti ai propri elettori, starà dalla parte dell’orgoglio, vale a dire dalla parte del 50 per cento degli italiani che crede possibile un paese migliore in cui vivere.