Trame al Cremlino
Putin definisce Orbán “la voce ragionevole” dell'Ue e lavora con lui per spezzare l'unità degli alleati di Kyiv
Nel pieno di dieci giorni di caos diplomatico, il premier ungherese si presenta al Cremlino dando un assist perfetto a Putin, che usa l'Ungheria per infilarsi nelle crepe occidentali e spezzare l’unità degli alleati
Questi dieci giorni di caos diplomatico, di piani di pace paralleli e non condivisi tra le parti, di scontri dentro l’Amministrazione americana, di scorno europeo, di fitte trame tra russi e americani, di pressioni inusitate sull’Ucraina e di bombe russe incessanti non potevano concludersi in modo più rotondo: il premier ungherese Viktor Orbán, l’europeo meno europeista e più filorusso della compagnia, è andato a incontrare Vladimir Putin al Cremlino. La strategia russo-americana che vuole imporre a Kyiv un accordo capestro ha tra i suoi obiettivi quello di spezzare l’unità europea, e così il presidente russo ha accolto gongolante Orbán definendolo “la voce della ragione dell’Europa”.
“La voce della ragione” aveva subito appoggiato il piano di pace in 28 punti presentato dagli Stati Uniti la settimana scorsa, anche se tutti gli altri europei si sono mossi per emendarlo e anche se lo stesso Putin andava dicendo di non averlo né visto né valutato. Da allora il piano è stato modificato nei colloqui tra americani, europei e ucraini, ma Orbán ha dichiarato che l’Ue ha “sabotato” la proposta originale perché non vuole la pace. Il premier ungherese sì che la vuole, la pace fasulla di cui tutti van parlando, e davanti a Putin si è lamentato – poverino – delle conseguenze negative della guerra (scatenata dall’uomo che aveva di fronte) sull’Ungheria, che per quanto possano essere serie non sono nulla di fronte alle bare e ai funerali e alle macerie che scandiscono le giornate ucraine. Ma a Putin non pareva vero di poter ospitare un leader europeo tanto accomodante (la settimana prossima accoglierà l’inviato americano Steve Witkoff che è ancora meglio), quindi ha sottolineato la “posizione equilibrata” del premier ungherese. Il quale non era al cospetto di Putin – per la quattordicesima volta – con la mente sgombra dalle preoccupazioni: in mezzo a due leader rapaci, Donald Trump e Vladimir Putin, non si può certo stare tranquilli, per di più che lo stato dell’economia ungherese non è buono e anche se sta in piedi grazie ai fondi europei (Orbán divora perversamente la mano che lo nutre), la corruzione che affligge il paese dopo il decennio orbaniano rosicchia via benessere, e in Ungheria non ci sono certo agenzie anticorruzione libere e un tantino spericolate come ci sono in Ucraina.
All’inizio di novembre gli Stati Uniti hanno concesso all’Ungheria un’esenzione dalle sanzioni per l’utilizzo di petrolio e gas russi, dopo che Orbán ha insistito per ottenere una proroga durante la sua visita alla Casa Bianca con Trump a Washington (dopo la visita il premier ungherese aveva detto di aver ottenuto un’esenzione permanente, ma il dipartimento di stato americano ha fatto sapere che dura un anno). Orbán ha anche fatto una cosa potenzialmente sgradita a Putin: ha firmato un patto di cooperazione in materia di energia nucleare con l’America per acquistare combustibile e tecnologia per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi a Paks I, un impianto di fabbricazione russa che si trova a sud di Budapest. La russa Rosatom sta ampliando l’impianto: è un progetto iniziato nel 2014 che però poi è stato più volte ritardato. Secondo il ministero degli Esteri, l’Ungheria ha importato dalla Russia 8,5 milioni di tonnellate di petrolio greggio e più di 7 miliardi di metri cubi di gas naturale. Ha bisogno insomma delle risorse russe, e Putin lo ha rassicurato dicendo che il commercio bilaterale era diminuito lo scorso anno del 23 per cento a causa delle “restrizioni esterne”, ma si è ripreso del 7 per cento nel corso del 2025.
I timori di Orbán sono stati fugati e così ha potuto rilanciare la sua iniziativa di pace, che è quella che ha presentato anche a Trump all’inizio del mese: un vertice a Budapest tra il presidente russo e quello americano. Putin ha detto che gli interessa l’idea, ma la scorsa volta – a ottobre – quando l’ipotesi Budapest aveva preso quota, una conversazione preparatoria tra il segretario di stato americano, Marco Rubio, e il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, era andata talmente male che non se n’è più parlato.
Per Putin mettere piede in Europa sarebbe un colpo eccezionale oltre che un passo avanti nel suo progetto di disintegrare l’unità europea e con essa il sostegno all’Ucraina. Gli europei lo sanno bene e si erano molto allarmati all’idea di un vertice sul loro territorio, ma una volta scampato il pericolo imminente se ne sono dimenticati. Così si sono ritrovati, in questi ultimi giorni, a dover correre ai ripari dal punto di vista diplomatico – il cancelliere tedesco, Friedrich Merz, ha scoperto dell’esistenza del piano in 28 punti leggendolo, come tutti noi, sul sito Axios – e a dover rispondere alla domanda cruciale, che sciaguratamente in dieci mesi non ha ancora trovato risposta: è pronta l’Europa a sostenere l’Ucraina senza Trump? Orbán si infila in queste incertezze, fa il gioco di Putin e quello di Trump, che in questo momento è lo stesso, contribuendo così non soltanto a dividere l’Europa ma anche a dividere gli americani dagli ucraini, l’altro grande obiettivo della Russia.