Sisi, Trump, al Thani e re Abdallah a Sharm el Sheikh (foto Getty)

vecchie battaglie

Trump vuole inserire i Fratelli musulmani tra i gruppi terroristici

Luca Gambardella

L'Amministrazione americana è pronta a sanzionare il movimento islamista "che sostiene Hamas e Hezbollah". Gli alleati arabi esultano

Con un ordine esecutivo firmato lunedì, Donald Trump rilancia una delle sue vecchie battaglie, quella per sanzionare la Fratellanza musulmana inserendola nella lista delle organizzazioni terroristiche straniere. Ci aveva già provato durante il suo primo mandato, nel 2019, quando tentò di mettere all’indice l’intero movimento islamista, senza distinguere fra le tante anime in cui è diviso e sparse per il medio oriente. Se all’epoca la mossa destò molte riserve, anche fra i repubblicani, a distanza di sei anni sanzionare gli ikhwan – i “fratelli” in arabo – non è più un tabù. Così, il provvedimento ora fa attenzione a menzionare solamente i gruppi affiliati in Libano, Egitto e Giordania – accusati di “finanziare e sostenere Hamas e Hezbollah” – e incarica il segretario di stato Marco Rubio e quello al Tesoro, Scott Bessent, di fornire le loro raccomandazioni entro 45 giorni. Poi spetterà al Congresso dare il via libera. Il sostegno però monta e la settimana scorsa il governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, con una mossa controversa, ha designato i Fratelli musulmani gruppo terroristico assieme ai membri della Commissione per le relazioni tra americani e islamici, il principale gruppo di advocacy del mondo musulmano negli Stati Uniti. 

 

 

Il movimento islamista sunnita, fondato nel 1928 in Egitto e diventato con le primavere arabe l’occasione per l’islam politico di cimentarsi – fallendo – nell’arte del governo, è diviso in tanti gruppi diversi sparsi nella regione. Si va da quelli più moderati – come per esempio in Turchia, dove il partito islamista del presidente Racep Tayyip Erdogan si ispira alla Fratellanza – a quelli terroristi in senso stretto, come Hamas a Gaza. 

Quando nel 2019 Trump ventilò l’ipotesi di sanzionare tutti, indistintamente, molti nel Congresso e nei think tank americani fecero notare come una cosa fosse inserire nella lista qualche migliaio di combattenti di al Qaida e un’altra pensare di fare lo stesso con milioni di musulmani, inclusi elettori di partiti politici in contesti (più o meno) democratici. Le sanzioni prevedono il congelamento dei fondi finanziari detenuti negli Stati Uniti e il divieto di viaggio nel paese, misure difficili da applicare per numeri di persone così elevati. Ma al di là delle difficoltà operative c’era poi un rischio politico, quello di incrinare i rapporti con governi alleati degli Stati Uniti che avevano adottato una politica di tolleranza nei confronti dei Fratelli musulmani, come nel caso della Tunisia o della Giordania. 

Dopo il 7 ottobre lo scenario è cambiato radicalmente. Pur condannando la dura reazione di Israele, le leadership del mondo arabo hanno preso le distanze da Hamas, generando però un effetto collaterale. Agli occhi di parte dell’opinione pubblica, solo i partiti islamisti legati o ispirati alla Fratellanza sono veri difensori della causa palestinese. La conseguenza è che oggi l’establishment di paesi chiave come l’Egitto e la Giordania non si sente più del tutto al riparo da eventuali ondate di protesta. Fino all’inizio di quest’anno, re Abdallah di Giordania aveva tentato la strada dell’inclusione nelle istituzioni del movimento islamista. Lo scopo era quello di attuare una politica conciliante, mettendo però sotto gli occhi di tutti anche l’inadeguatezza politica dei partiti più radicali. L’esperimento è naufragato lo scorso aprile, quando la Fratellanza è stata bandita dalla Giordania dopo che un gruppo di 16 persone addestrate in Libano e affiliate agli ikhwan era stato scoperto prima di portare a termine una serie di attentati con missili e droni. 

 

 

Altrove, come in Egitto, l’ostilità contro la Fratellanza è invece storia nota dalle origini, sin dal colpo di stato che nel 2013 depose l’unico vero esperimento politico che portò un esponente della Fratellanza, Mohammed Morsi, al governo di un grande paese. Da allora, il presidente Abdel Fattah al Sisi è diventato il principale portavoce alla Casa Bianca della necessità di sanzionare gli islamisti. Così come in Tunisia, dove il presidente Kais Saied è in guerra aperta con Ennahda, il partito di riferimento dei Fratelli musulmani che, nel 2016, almeno nominalmente, aveva scollegato il proprio nome da quello della Fratellanza autodefinendosi “democratici musulmani”. Poco sensibile al rebranding, due anni fa Saied, in una delle sue purghe contro l’opposizione, ha ordinato l’arresto del loro leader, Rached Ghannouchi, che è stato condannato a 14 anni di reclusione con l’accusa di “cospirare contro la sicurezza nazionale” insieme ad altre decine di esponenti del partito.

I paesi arabi che hanno promesso il loro sostegno al piano di pace americano a Gaza passano alla riscossione delle contropartite. Oltre a Giordania ed Egitto c’è il Golfo, dove Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita spingono da anni per sanzionare la Fratellanza. Lunedì, il consigliere di Trump per il medio oriente, Massad Boulos, è atterrato ad Abu Dhabi per incontrare il ministro degli Esteri, Abdullah bin Zayed. Si è parlato soprattutto del Sudan e della tregua umanitaria imposta unilateralmente dalle Forze di supporto rapido (Rsf), alleate degli Emirati. Il dossier sudanese però è strettamente legato a quello delle sanzioni ai Fratelli musulmani, perché il paese del Golfo fa pressioni da tempo affinché gli americani sanzionino anche il principale rivale delle Rsf, il generale Abdel Fattah al Burhan accusato di essere un uomo vicino alla Fratellanza. La mossa avrebbe conseguenze enormi perché indebolirebbe colui che finora è stato l’unico argine agli eccidi di massa perpetrati dalle Rsf in Darfur. Boulos – così come l’Amministrazione Trump in generale – ha dimostrato a più riprese di non essere insensibile alle pressioni degli Emirati. In una intervista recente al quotidiano saudita Al Sharq al Awsat, ha detto che “i Fratelli musulmani sono la nostra linea rossa” e che i suoi sostenitori non torneranno al potere in Sudan. Probabilmente, neppure altrove. 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.