L'editoriale del direttore
L'Ucraina e l'errore fatale di un'Europa in modalità Chamberlain
Assecondare il piano Trump? La favola dell’occidente unito a tutti i costi è ormai insostenibile. E una pace fondata sulla capitolazione di Kyiv esporrà alle incursioni future della Russia non solo l’Ucraina ma tutta l’Europa. La lezione di Mattarella
Siamo ottimisti, lo sapete, cerchiamo sempre di osservare il bicchiere mezzo pieno, anche quando il bicchiere tende a essere inesorabilmente mezzo vuoto, ed essere ottimisti oggi e guardare all’Ucraina è un sentimento complesso, anche se ancora necessario, che costringe a dividere in due la nostra mente e i nostri pensieri. Fino a oggi, l’Ucraina, almeno per tutti coloro che in questi anni hanno osservato la difesa dell’Ucraina per quello che è, ovvero una difesa non solo dei confini di un paese sovrano ma anche una difesa dei confini di qualcosa di ancora più prezioso, che riguarda la nostra democrazia, è stata il simbolo di tutto ciò che l’Europa non può dimenticarsi di essere. In poche parole: un presidio di libertà, un argine contro gli estremismi, un muro contro le autocrazie. In questi quasi quattro anni dall’inizio della guerra, l’Europa ha fatto tutto ciò che poteva fare per difendere i suoi valori non negoziabili.
Si è emancipata dal cappio del gas russo, ha votato infiniti pacchetti di sanzioni contro la Russia, ha finanziato la resistenza ucraina in un volume maggiore rispetto a quanto fatto in questi anni dagli Stati Uniti, ha sfidato i pacifisti al soldo morale del putinismo, ha inviato armi all’esercito ucraino, ha aumentato la spesa militare per difendere la propria sicurezza e ha fatto della difesa ucraina il primo vero embrione della difesa europea. E ha fatto tutto questo nonostante – in democrazia funziona così – la presenza di numerosi partiti all’interno dell’Europa che da quattro anni cercano in tutti i modi di trovare pretesti per sostenere che i veri nemici della pace in Europa sono gli ucraini che si difendono, non i russi che attaccano. Osservare il bicchiere mezzo pieno, oggi, rispetto a tutto ciò che riguarda l’Ucraina, significa osservare tutto questo. Significa riconoscere che il successo dell’Ucraina, quando si dovrà fare un bilancio di ciò che è stata questa guerra, non si può misurare solo in metri quadrati di territorio ma si dovrà misurare anche nella capacità eroica di resistenza che in questi anni ha avuto un piccolo esercito contro uno degli eserciti più grandi del mondo. Ma osservare il bicchiere mezzo pieno, quando si parla di Ucraina, non può farci dimenticare cosa sta accadendo nel bicchiere mezzo vuoto, cioè in chi sta cercando ogni giorno di prosciugare il serbatoio della resistenza dell’Ucraina. E per evitare dunque che il bicchiere mezzo vuoto possa prendere il sopravvento su quello mezzo pieno vale la pena non solo auspicare, chiedere, scongiurare che l’Europa sappia resistere al ricatto trumpiano, alla propaganda putiniana, trovando il coraggio di evitare che l’Ucraina venga indotta alla resa verso cui punta il famoso piano Trump (che ieri abbiamo scoperto in verità essere più un piano russo che un piano americano, come ha ammesso il segretario di Stato Marco Rubio, salvo poi smentire nuovamente a fine serata la smentita), che impone all’Ucraina una scelta drastica: accettare un elenco rigido di concessioni territoriali e politiche alla Russia, congelare la guerra alle condizioni di Mosca, rinunciare a parte della propria sovranità, con limiti sul riarmo e sospensione degli aiuti se Kyiv non obbedisce ai punti.
Ma vale la pena, in queste ore, non buie ma tetre sì, anche tentare un’altra operazione: provare a fare uno sforzo e chiamare le cose con il loro nome. Chiamare le cose con il loro nome non è solo uno sterile esercizio retorico, ma è un modo per fotografare la realtà attorno a noi e per capire esattamente cosa c’è in ballo oggi quando si parla di difesa dell’Ucraina. Chiamare le cose con il loro nome significa riconoscere che chi oggi tifa per la resa è un nemico di tutto ciò che difende l’Ucraina e anche l’Europa. Chiamare le cose con il loro nome significa riconoscere che la favola dell’occidente che deve restare unito a tutti i costi è una favola divenuta ormai insostenibile perché l’Europa, per difendere sé stessa in una stagione in cui l’America è governata da un nemico dell’Europa, deve imparare a fare da sola anche a costo di allontanarsi dall’America trumpiana. Chiamare le cose con il loro nome significa riconoscere che chi oggi sceglie di trasformare la difesa dell’Ucraina in un principio negoziabile non sta solo scegliendo di sacrificare sull’altare della demagogia pacifista una causa giusta, ma sta scegliendo di sacrificare tutto ciò che una democrazia dovrebbe avere a cuore: sovranità, libertà, democrazia, stato di diritto, pace futura. Chiamare le cose con il loro nome, in queste ore, significa ricordare che una pace non giusta, fondata cioè sulla capitolazione dell’Ucraina, è una pace non duratura che espone alle incursioni future della Russia non solo l’Ucraina ma tutta l’Europa, e solo chi non vuole vedere può far finta di non capire quanto per l’Europa possa essere pericoloso dimostrare che i suoi confini sono negoziabili, che la sua sovranità è limitata, che la sua libertà è barattabile. Ed è incredibile come i sovranisti europei, quelli più tonti, siano diventati, rispetto alla difesa dell’Ucraina, più difensori della sovranità russa che della sovranità europea (d’altronde un vecchio amico di Putin, di nome Matteo, ha sostenuto in passato più volte di sentirsi a suo agio più a Mosca che a Bruxelles, e si vede).
Chi in questi anni ha chiamato le cose con il loro nome, senza paura, senza infingimenti, senza ipocrisie, è stato il capo dello stato, Sergio Mattarella, che con forza, in più occasioni, ha indicato i rischi che avrebbe corso l’Europa ad accettare una pace non giusta per Kyiv. Il 24 luglio del 2024, Mattarella, durante il discorso del Ventaglio, ha ragionato attorno alla fatica che si registra nelle pubbliche opinioni sull’impegno per l’indipendenza dell’Ucraina. In quel contesto, il capo dello stato ha fatto un paragone importante, ricordando le parole che pronunciò Neville Chamberlain, primo ministro britannico, a Londra, al ritorno dalla conferenza di Monaco nel 1938: “Sono tornato dalla Germania con la pace per il nostro tempo”. Come tutti ricordiamo, ha detto Mattarella, “Hitler pretendeva di annettere al Reich la parte della Cecoslovacchia che confinava con la Germania – i Sudeti – dove viveva anche una minoranza di lingua tedesca. La Cecoslovacchia – che aveva fortificato quel confine temendo aggressioni – ovviamente rifiutava. Le cosiddette potenze europee del tempo – Gran Bretagna, Francia, Italia – anziché difendere il diritto internazionale e sostenere la Cecoslovacchia, a Monaco, senza neppure consultarla, diedero a Hitler via libera. La Germania nazista occupò i Sudeti. Dopo neppure sei mesi occupò l’intera Cecoslovacchia. E, visto che il gioco non incontrava ostacoli, dopo altri sei mesi provò con la Polonia (previo accordo con Stalin). Ma, a quel punto, scoppiò la tragedia dei tanti anni della Seconda guerra mondiale. Che, verosimilmente, non sarebbe scoppiata senza quel cedimento per i Sudeti. Historia magistra vitae”. Conclusione: “L’Italia, i suoi alleati, i suoi partner dell’Unione, sostenendo l’Ucraina, difendono la pace, affinché si eviti un succedersi di aggressioni sui vicini più deboli. Perché questo – anche in questo secolo – condurrebbe a un’esplosione di guerra globale”. Scegliere se riempire il bicchiere dell’ottimismo o svuotarlo – e scegliere, anche per l’Italia, di non giocare il ruolo vittimista del “non ci vogliono coinvolgere”, ma il ruolo attivo del “faremo di tutto per fermare Trump” – in fondo non dovrebbe essere una scelta così difficile da fare. Più l’Europa accetterà di far prevalere la modalità Chamberlain, sull’Ucraina, cosa che per fortuna ieri non si è intravista con i 24 durissimi punti proposti nel contro piano europeo, più l’Europa sarà esposta a una guerra futura e alle scorribande di un macellaio criminale di nome Vladimir e di cognome Putin.
L'editoriale dell'elefantino