Un'immagine dell'incontro tra Volodymyr Zelensky e Joseph Keith Kellogg a Kyiv il 14 giugno del 2025 (foto Ap, via LaPresse)
Il sipario
Prima gli ucraini. La missione tormentata del generale Kellogg
Da inviato dimezzato l'ex militare ha cercato di non far spezzare il filo che unisce gli ucraini e i trumpiani
Quando Donald Trump nominò, a gennaio, Keith Kellogg come inviato speciale per l’Ucraina e la Russia, ci fu un sussulto di preoccupazione. L’ottantunenne generale Kellogg, che cominciò la sua carriera militare in Vietnam e la lasciò nel 2003, era l’autore, assieme a Fred Fleitz, di un paper pubblicato dall’America First Policy Institute (centro studi che contende il cuore trumpiano all’Heritage Foundation) nell’aprile del 2024, dal titolo “America First, Russia and Ukraine”, che nelle prime righe diceva che la guerra russa contro gli ucraini era “evitabile” ma le “politiche incompetenti” dell’Amministrazione Biden avevano “invischiato” l’America in un conflitto “senza fine”.
Buona parte dello studio era dedicata a criticare Joe Biden che aveva messo a rischio l’interesse nazionale americano perché si rifiutava di avvalorare la dottrina “America first”, perché aveva impedito qualsiasi rapporto diretto con la Russia – indispensabile, secondo gli autori, per porre fine alla guerra con un negoziato – e perché non aveva compreso le ragioni di Vladimir Putin. L'ultima parte era invece dedicata a quel che l’Ucraina avrebbe dovuto fare – accettare un cessate il fuoco – se voleva continuare ad avere il sostegno militare e finanziario degli Stati Uniti.
All’esordio del secondo mandato di Trump, quel realismo cinico pareva indigeribile, ma ancora non sapevamo nulla di quel che sarebbe accaduto dopo – dell’imboscata a Volodymyr Zelensky, presidente ucraino, nello Studio ovale, delle pressioni anti ucraine del vicepresidente J. D. Vance, dell’arrivo disastroso di Steve Witkoff come inviato tuttofare, tra medio oriente e Russia.
Tra febbraio e marzo si è consumata la trasformazione del rapporto tra l’America e l’Ucraina (rapporto viziato dal fatto che la seconda dipende per la sua sopravvivenza dalla prima), e Kellogg aveva cercato di mettere in guardia Zelensky. Era stato a Kyiv prima dell’incontro tragico del 28 febbraio nello Studio ovale e gli aveva detto che era assolutamente necessario un accordo sulle terre rare, altrimenti il suo rapporto con Trump si sarebbe compromesso. Zelensky era arrivato pronto alla firma, ma poi era andato tutto storto e nei giorni successivi, quando l’America aveva deciso di sospendere la collaborazione con gli ucraini sull’intelligence – una collaborazione vitale – Kellogg aveva detto una frase antipatica che gli ucraini si erano segnati: è come colpire sul naso un asino recalcitrante per ammansirlo. Se la sono un po’ cercata, gli ucraini, aveva detto l’inviato, ma la sospensione della collaborazione non è per sempre: è un segnale.
Il segnale arrivò in realtà ai russi, che da quel momento in poi hanno intensificato gli attacchi sull’Ucraina – a ottobre, il numero di droni e missili lanciati dalla Russia è tre volte quello dello stesso periodo nel 2024 – e hanno modellato la loro offensiva diplomatica su un presidente americano sensibile più ai suoi ritorni economici e d’immagine che alla salvezza dell’Ucraina, dell’occidente e della democrazia.
Kellogg se n’è accorto, ad aprile ha detto che un attacco russo più feroce degli altri (poi ne sono venuti di peggiori) era “oltre la decenza” e che era necessario fare pressioni più su Putin che su Zelensky se si voleva arrivare a un cessate il fuoco. Così Trump lo ha demansionato, senza le crudeli fanfare che riserva a chi lo delude, ma escludendolo da tutto quel che aveva a che fare con la costruzione di un rapporto – questo sì deludentissimo – diretto con la Russia, scegliendo come inviato mansueto Witkoff, l’amico palazzinaro, che si è messo a scodinzolare attorno ai russi, tornando da ogni sua visita a Mosca con informazioni e condizioni che poi si sono rivelate o mal tradotte o mal capite (anche perché le condizioni di Mosca sono sempre le stesse: la capitolazione dell’Ucraina).
C’è stato qualche scontro tra Kellogg e Witkoff, ma poi il generale in pensione ha capito che il suo momento era finito e ha passato il resto dell’anno a far capire agli ucraini che bisognava adattarsi a un’altra mentalità e a un altro approccio in cui al centro c’è il rapporto tra l’America e la Russia, non tra l’America e l’Ucraina. Per quanto la figlia di Kellogg, Meaghan Mobbs, che lavora per una fondazione pro ucraina, abbia spesso detto risentita che gli ucraini non hanno compreso il sostegno leale del padre, i consigli del generale sono stati elaborati, e la leadership di Kyiv ha cambiato tono, approccio, strategia militare, per mostrare a Trump che certo l’Ucraina non è una superpotenza, ma la superpotenza russa non è né forte né affidabile come il presidente americano ha creduto.
Secondo uno scoop della Reuters, Kellogg lascerà il suo incarico a gennaio: la nomina di inviato deve essere confermata dopo 360 giorni dal Senato. Forse Trump non sentirà la sua mancanza, gli europei e gli ucraini tantissimo.