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le dimissioni

Fight Club Maga. L'antisemitismo lacera la destra americana

Andrea Venanzoni

Robert P. George, costituzionalista e studioso di filosofia, si è dimesso dal suo incarico nel cda della conservatrice Heritage Foundation dopo che il leader del think tank, Kevin Roberts, ha pubblicato un video in difesa dell'intervista di Tucker Carlson al simpatizzante nazista Nick Fuentes

Alcune dimissioni, più di altre, fanno rumore e lasciano un segno. Tra queste certamente rientrano quelle rassegnate da Robert P. George dal board della Heritage Foundation. Per George, stimato costituzionalista e studioso di filosofia del diritto a Princeton, cattolico, nome nobile del conservatorismo politico-culturale statunitense dopo un passato nel Partito democratico terminato agli inizi degli anni ottanta e membro di lungo corso della Heritage, la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’assai controverso discorso con cui Kevin Roberts, presidente del prestigioso think tank, a fine ottobre ha difeso Tucker Carlson e la sua decisione di ospitare nel suo show il simpatizzante nazista e capo dei groyper Nick Fuentes. Nonostante Roberts abbia definito “abominevoli” le posizioni di Fuentes, ha poi non solo difeso la libertà di Carlson di ospitare chi meglio crede ma ha anche frontalmente attaccato i suoi critici, definendoli una “coalizione tossica”. Troppo per molti appartenenti alla Heritage e conservatori legati ad altri organismi, istituti di cultura e think tank che si sono sentiti chiamati in causa e hanno letto nel discorso di Roberts una rievocazione del canone no enemy on the right che storicamente ha prodotto non poche frizioni all’interno dello schieramento conservatore. “Nessun nemico a destra”, è un paradigma piuttosto caro all’attuale Vicepresidente J. D. Vance, che lo ha mutuato proprio da una parte della Heritage e da Peter Thiel, come ricorda il biografo di Thiel Max Chafkin. Peraltro uno dei figli di Carlson lavora proprio nello staff di Vance. Aspetti che lasciano intendere come Vance sia, in potenza, molto più radicale di Trump.

 

Il problema, ha rilevato George, è che se non si distingue nemmeno tra posizioni di conservatorismo radicale e antisemitismo puro e semplice, quale quello di Fuentes e secondo molti altri commentatori anche di Carlson che con Fuentes è stato assai accomodante, non si sta più nemmeno parlando di destra. Vecchia e spinosa questione, nella destra americana: cosa farsene della Alt right o prima ancora della vasta galassia di suprematisti bianchi e nazionalisti cristiani? Nomi storici del conservatorismo americano, da William Buckley Jr. a Frank Meyer, hanno sempre chiuso bruscamente le porte in faccia a gruppi come la John Birch Society o al controverso governatore segregazionista dell’Alabama George Wallace, esponente del Partito democratico ma culturalmente reazionario e che la fazione della New Right repubblicana, da cui origina la stessa Heritage, sostenne proprio contro l’emersione dei diritti civili. Vecchie ferite, vecchissime ruggini che sembrano riemergere dal passato. Una riedizione in salsa Maga di ciò che è stato definito “Fight Club straussiano”, ovvero le lotte intestine al mondo conservatore partendo dalle teorie del filosofo Leo Strauss.

Il vero punto di caduta, oggi come allora, sono i rapporti con Israele. Elemento questo che aveva già duramente opposto l’ala paleoconservatrice di Pat Buchanan, conservatori culturali come Russell Kirk e dall’altro lato della barricata i neoconservatori che in Israele non leggevano solo un alleato strategico ma una emanazione messianica degli Usa. D’altronde Russell Kirk nel 1988 tenne proprio alla Heritage un lungo e controverso discorso nel quale accusò i neocon di aver scambiato Tel Aviv per la capitale degli Usa. Non per caso, Kevin Roberts cita spesso Pat Buchanan, il cui isolazionismo in politica estera presentava connotazioni assai simili a quelle di Kirk. E nonostante Roberts sia tornato, parzialmente, sui suoi passi scusandosi per l’espressione “coalizione tossica”, non ha comunque preso le distanze da Carlson. Proprio questo aspetto ha conciliato la irrevocabilità della decisione di George, primo membro di vertice del think tank a lasciare, dopo che altri collaboratori se ne erano già andati. Da parte sua, l’istituto non si è scomposto e ha salutato George, augurandogli fortuna e auspicando nuove collaborazioni in futuro.

La Heritage d’altronde non è certamente antisemita, come dimostra il suo Project Esther, seguito da Trump per tagliare fondi a università che non abbiano combattuto l’antisemitismo, ma di certo risente delle sue radici di conservatorismo popolare e localistico: nella sua prospettiva, Israele rimane uno stato straniero che deve aiutarsi da solo senza contare sull’acritico sostegno americano, e sulle tasse dei cittadini statunitensi.

  


 

Andrea Venanzoni ha pubblicato quest’anno “La destra americana contemporanea. Dalla New Right repubblicana a Trump” (Giubilei Regnani)