Donald Trump con Mohammed bin Salman (foto Epa, via Ansa)

MbS a Washington

Patti, investimenti, alleanze, caccia e la vaghezza necessaria, Mohammed bin Salman va da Trump

Sharon Nizza

Il voto al Consiglio di sicurezza, Gaza, le paure di Israele. La visita storica del saudita a Washington. A questo bilaterale si legano diversi dossier che potrebbero dettare la linea sul futuro della regione, a partire dall’evoluzione della  tregua in vigore a Gaza

Gerusalemme.  C’è attesa trepidante in Israele per l’incontro di oggi a Washington fra Trump e l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman. A questo bilaterale si legano diversi dossier che potrebbero dettare la linea sul futuro della regione, a partire dall’evoluzione della  tregua in vigore a Gaza da poco più di un mese. Non a caso, la visita avviene in concomitanza con il voto al Consiglio di sicurezza dell’Onu sulla risoluzione americana –  che ha incassato il sostegno dell’Autorità nazionale palestinese, mentre è osteggiata da Hamas – volta a ratificare nel consesso internazionale il piano di Trump. Si parla quindi del “Board of Peace”, un organo di transizione che dovrebbe supervisionare la ricostruzione di Gaza e della “Forza internazionale di stabilizzazione”, che  dovrebbe occuparsi dell’implementazione della fase due del piano di Trump, ossia il disarmo di Hamas, con delega fino al 2027. Ma il punto più simbolico della risoluzione, quello che è volto a strizzare l’occhio all’ospite reale che si accinge a varcare la soglia della Casa Bianca per la prima volta dal 2017, riguarda la prospettiva di un “percorso credibile verso l’autodeterminazione e la statualità palestinese”, una volta che l’Autorità nazionale palestinese avrà implementato un programma di riforme, che sono proprio i sauditi a monitorare dietro le quinte. Su questa vaga formulazione – che sostituisce quella tradizionale di “uno stato palestinese con capitale a Gerusalemme est” – si è lavorato a lungo tra Gerusalemme e Riad con la mediazione del genero di Trump Jared Kushner e del braccio destro di Netanyahu, Ron Dermer. Quanto a lungo? Le tracce portano indietro fino a gennaio 2020, quando Trump propose nell’ambito del suo “Accordo del Secolo” una mappa di stato palestinese molto lontana dalla linea verde. “Il Regno apprezza gli sforzi dell’Amministrazione Trump volti a sviluppare un piano di pace globale tra le parti”, fu allora la dichiarazione del ministro degli Esteri saudita, uno dei pochi leader mondiali a non rigettare in tronco quella proposta totalmente anomala per gli standard Onu.

   

Quindi, mentre MbS  – l’acronimo con cui è noto il leader de facto del Regno Saudita – arriva a stringere la mano a Trump, era molto importante inserire il connubio di parole “statualità palestinese” nel testo che farà da cornice al futuro dei negoziati. Un connubio insostenibile per l’ala oltranzista del governo Netanyahu, ma che il premier israeliano sa essere parte imprescindibile del do ut des volto a non chiudere alla prospettiva di una normalizzazione con i sauditi – il premio che forse, ancora più di Bibi e MbS, vuole incassare il presidente americano  entro la fine del suo mandato.

 

Ma c’è un altro acronimo fondamentale che aleggia nell’aria di questo summit: Qme – qualitative military edge, ossia il cardine dell’alleanza strategica israelo-americana a partire dalla Guerra dei Sei giorni, con l’allora vendita dei primi jet Phantom allo stato ebraico. Gli Stati Uniti sono votati per legge alla superiorità tecnologico-qualitativa dell’Idf rispetto ai propri rivali regionali. 

 

MbS arriva a Washington con al seguito una delegazione di ben mille membri, secondo il quotidiano saudita Al Arabiya, e con una promessa di oltre 600 miliardi di dollari di investimenti in innumerevoli settori di interesse per gli Stati Uniti: minerali, terre rare, intelligenza artificiale con Humain, il neonato fiore all’occhiello del fondo sovrano Pif che ha già attirato investimenti miliardari di Nvidia e Amazon. Tutti questi settori saranno al centro del Business Forum che si terrà a Washington a margine dell’incontro alla Casa Bianca e che replicherà il modello di quanto avvenuto a Riad a maggio, quando Trump prestò ai sauditi l’onore della prima visita estera del suo nuovo mandato.

 

Ma nello Studio ovale ci sono altri dossier delicati sul tavolo e riguardano il tentativo dei sauditi di acquistare gli F-35, i caccia stealth che costituiscono uno degli elementi di supremazia militare israeliana nel panorama mediorientale. In Israele in questi giorni il panico è diffuso a mezzo stampa: normalizzazione non solo in cambio della statualità palestinese, ma anche di perdita del Qme? Inaccettabile. Tuttavia, come spiega Amos Yadlin, già a capo dell’intelligence militare dell’Idf, “la superiorità di Israele non è nel velivolo di per sé, ma è in altri campi, è nel sistema stesso, nella modalità in cui questo viene utilizzato”, senza contare che gli Adir israeliani che hanno colpito l’Iran a giugno sono dotati di elementi sviluppati dall’industria militare domestica che costituiscono di per sé un vantaggio irraggiungibile. Ma non solo: questo film si è già visto nel 2020. Anche all’epoca della normalizzazione con gli Emirati Arabi Uniti, si sostenne che il prezzo da pagare fu la vendita degli F35 ambita dagli emiratini. Eppure, sono passati cinque anni, e l’acquisizione non è mai stata completata perché i requisiti posti dagli americani per evitare fughe di tecnologie ai cinesi sono severissimi.

  

Il vantaggio qualitativo in discussione in realtà riguarda un’altra competizione, e questa è una delle letture che va data alla missione di MbS a Washington: chi è il migliore alleato dell’attuale inquilino della Casa Bianca tra gli stati sunniti mediorientali? Per misurare questo parametro, ci sono in discussione altri due dossier: MbS vorrebbe raggiungere un accordo con Washington per lo sviluppo di un programma nucleare civile, come parte del suo sforzo di diversificazione dalle risorse petrolifere nell’ambito della “Vision 2030”. Qui la competizione è con i fratelli emiratini, che hanno già un proprio programma, e ovviamente con i rivali iraniani.

 

Il secondo dossier riguarda invece il patto di difesa che i sauditi ambiscono a stipulare con Washington. Questo è quello più semplice fra tutti, e anche la vetrina più trasparente tramite cui valutare la questione della competizione regionale. Dopo l’attacco israeliano a Doha del 9 settembre, Trump ha emesso un ordine esecutivo che impegna gli Stati Uniti  a considerare qualsiasi attacco contro il Qatar come una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale. Doha l’ha ottenuto al telefono. Mbs non arriva fino a Washington per qualcosa di meno. Qualcosa di più potrebbe essere ottenere garanzie più concrete in un accordo bilaterale di difesa che impedirebbe a un futuro presidente degli Stati Uniti di revocarlo, come invece potrebbe essere fatto con un semplice ordine esecutivo. Questo significherebbe passare al vaglio del Congresso, cosa che nel caso di Doha non è avvenuto né sarebbe mai stato approvato. Cosa accadrà nel caso dei sauditi? Secondo l’ex ambasciatore americano in Arabia Saudita, Michael Ratney “l’ordine esecutivo che i sauditi vorranno è qualcosa di più permanente, qualcosa che non sia vincolato da una specifica amministrazione”.

 

Sono quindi diversi i settori su cui si gioca la partita di MbS a Washington. Le sue ripercussioni mediorientali sono ovviamente legate a quanto i sauditi siano disposti a scendere a compromessi per uscire allo scoperto con il processo di normalizzazione con Israele. E’ pensabile che il leader del paese custode dei due principali luoghi santi per l’Islam possa a stretto giro stringere la mano a Netanyahu, o è necessario che questa foto storica veda una figura meno identificata con la guerra più sanguinosa per i palestinesi in questo conflitto secolare? E forse è per questo che Trump si attiva così tanto per fare ottenere la grazia al premier israeliano, quasi a indicargli una via di uscita dignitosa dalla vita politica che non interferisca con il suo piano verso il Premio Nobel? Attualmente, e soprattutto in attesa di capire se e come Hamas abbandonerà le armi nella Striscia di Gaza (un prerequisito posto dai sauditi stessi), è più probabile che l’avvicinamento fra Riad a Gerusalemme passi per altri canali: un impegno più pubblico e tangibile dei sauditi come testa di ponte dell’alleanza anti Fratelli Musulmani che si sta costituendo in medio oriente, che veda un impegno concreto nella ricostruzione di Gaza che possa mettere in secondo piano il ruolo del Qatar e della Turchia. A livello simbolico, un primo atto concreto potrebbe passare invece dagli arabi israeliani e dai cieli, con una linea di voli diretti tra Tel Aviv e La Mecca in vista del prossimo Hajj, il pellegrinaggio principale per l’Islam.

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