Elettori di Zohran Mamdani (foto Epa, via Ansa)
Un'indagine
La metamorfosi delle metropoli e la sfida delle città plurali
Nella New York del sindaco musulmano Mamdani gli abitanti di origine europea oggi sono meno di uno su tre. Crisi demografica, invecchiamento e bisogno di immigrati hanno cambiato le metropoli del vecchio mondo bianco. Perché è necessario vivere con la differenza e imparare a governarla
Si è molto discusso del significato delle elezioni a New York e delle ragioni e delle conseguenze della vittoria di Zohran Mamdani. Sono state sottolineate la vulnerabilità di Trump, confermata dalle elezioni in Virginia e New Jersey; la non trasferibilità automatica di quanto è successo al caso italiano; e la spaccatura di un Partito democratico che contiene due partiti. Il primo, che costituisce il suo baricentro dai tempi di Kennedy e Johnson, è stato privato del programma che lo aveva portato al successo dalla realizzazione di un welfare che ne formava il nucleo e dall’emergere delle sue contraddizioni. L’altro – quello socialista – ne ha invece ancora uno che è in realtà un articolo di fede, ma che riesce proprio per questo a resistere alle innumerevoli e tragiche smentite della sua bontà fornite dal XX secolo.
Provo qui però a prendere spunto da quel che è successo a New York per richiamate l’attenzione su – e discutere di – un fenomeno almeno altrettanto, se non più importante che scuote in modo diverso le grandi città di un “mondo bianco” che ha dominato il pianeta fino a circa mezzo secolo fa. La speranza è che vederlo con chiarezza contribuisca a mostrarne e spiegarne i problemi, ma anche a far intravedere vie e modi per risolverli. Mi riferisco al grande e veloce mutamento della composizione della popolazione di quelle che sono state a lungo le più importanti “metropoli” del mondo, ma che non lo sono più, almeno dal punto di vista quantitativo.
La più grande tra esse è appunto New York (8 milioni di abitanti ma 23 se si conta l’area metropolitana), che però bianca non è più, seguita da Mosca (13 e 18); Londra (7 e quasi 10); Parigi (2,2 e quasi 10); Madrid (3,3 e 6,5); Berlino (3,6 e 4,7) e Varsavia (1,8 e 3,3). Roma ne ha invece 2,74 milioni (e 4,2 la sua area metropolitana) e Milano 1,3 (ma 3,3 la sua area metropolitana e 7,4 la conurbazione che la circonda). Sono numeri impressionanti, ma ormai solo New York figura tra le dieci città più grandi del mondo, che vedono ai primi posti Shanghai, Tokyo e Giacarta con 41, 39 e 35 milioni di abitanti, seguite da Chongqing, Dehli, Manila e Mumbai, che ne ha 27.
New York City, che è oggi la città di Mamdani, aveva nel 1980 7,1 milioni di abitanti, per il 52 per cento bianchi di origine europea. Nel 2020 gli abitanti erano saliti a 8,8 milioni ma i bianchi di origine europea erano crollati al 31 per cento (restando però il 59 per cento degli abitanti degli Stati Uniti). Roma era ancora nel 1990 una città quasi completamente omogenea, con stranieri che formavano meno del 2 per cento dei residenti. Oggi quella percentuale è salita “solo” al 12-13 per cento. L’Europa centro-orientale è ancora vicina alla situazione italiana o spagnola degli anni Novanta
Queste megalopoli sono ancora popolate da locali, ancorché provenienti dai vari angoli dei rispettivi paesi, come lo erano fino a circa 50 anni fa quasi tutte le capitali europee. Ma come lo erano anche le città statunitensi se consideriamo tutti gli europei come il loro bacino “nazionale”, come di fatto è stato fino agli anni Sessanta del Novecento, vale a dire fino al mondo in cui sono cresciuto.
Da allora le metropoli del vecchio mondo bianco sono però entrate o stanno entrando, in modi e con tempi diversi, in un universo differente. Per capire meglio ho provato a mettere insieme un po’ di dati con l’aiuto di un’intelligenza artificiale davvero benedetta, anche se possibile fonte di qualche errore che spero però di aver ridotto usando quella umana. Ho scelto appunto New York, e poi Londra, Parigi, Madrid, Berlino, Roma e Milano, Varsavia e Mosca, prendendo come termini di confronto la situazione pre 1989-91 (quando la crisi della natalità era già cominciata) e quella odierna e ho condensato il più possibile i dati, malgrado il loro straordinario interesse per capire tendenze comuni, difformità solo temporali tra chi è più o meno avanti su una strada simile e difformità invece strutturali, legate al passato, al tipo di immigrazione o alle politiche adottate.
New York City, che è oggi la città di Mamdani, aveva nel 1980 7,1 milioni di abitanti, per il 52 per cento bianchi di origine europea che con quelli di origine ispanica arrivavano al 61 per cento. C’era poi un 25 per cento di neri, ancora in maggioranza discendenti di schiavi arrivati a New York dal sud, un rilevante numero di portoricani, un 3 per cento di asiatici quasi tutti cinesi e un 10 per cento di persone non ben definibili. Nel 2020 gli abitanti erano saliti a 8,8 milioni ma i bianchi di origine europea erano crollati al 31 per cento (restando però il 59 per cento degli abitanti degli Stati Uniti), gli ispanici, bianchi compresi, erano al 28 per cento, i neri al 20 (e molti di loro venivano ora dall’africa o dai Caraibi) e gli asiatici erano balzati al 16 per cento (cinesi, ma ora anche indiani, pakistani, filippini, ecc.).
I dati di Londra – che ha anch’essa un sindaco musulmano originario dell’Asia meridionale – sono ancora più impressionanti. Nel 1980 la città aveva meno di sette milioni di abitanti, per l’87 per cento bianchi, con un 6,3 per cento di asiatici e un 2,6 per cento di neri. Nel 2021 i bianchi erano scesi al 53,8 per cento della popolazione (ma quelli di origine inglese erano meno del 37 per cento), gli asiatici erano saliti a più del 20 e i neri al 14 per cento, con un 6 per cento circa che si riconosceva come di origine mista.
Poiché la Francia rifiuta di tener conto delle differenze tra cittadini che sono in quanto tali per definizione uguali, i dati relativi a Parigi sono più incerti. Sembra di capire che la popolazione della città vera e propria, cioè i venti arrondissments, sia in qualche modo più controllata. Nell’Île-de-France la percentuale dei nati all’estero, l’unico dato ad essere ufficialmente registrato, è rimasta relativamente stabile intorno al 20 per cento, anche perché essa era già salita considerevolmente dopo il crollo dell’impero e i “rimpatri” ad esso successivi. Questo vuol dire però che se si sommassero ai primi arrivati i loro figli nati in Francia nei decenni seguenti, quella percentuale salirebbe in modo considerevole. E in ogni caso il censimento del 2020 ha accertato che solo il 30 per cento dei residenti a Parigi era nato in città, un altro 30 per cento in Francia e circa il 25 per cento all’estero, con magrebini e asiatici i gruppi più numerosi. Sappiamo inoltre che nel 2008 più del 40 per cento degli abitanti tra i 18 e i 50 anni dell’Île-de-France erano immigrati o figli di immigrati (il 32 per cento di non europei e il 10 per cento di europei) e sembra che circa il 40 per cento di tutti gli immigrati in Francia viva in questa regione.
Nel 1990 Berlino, est e ovest, aveva invece circa 3,5 milioni di abitanti, per il 90 per cento ancora tedeschi, con un 10 per cento di stranieri in maggioranza turchi, jugoslavi e polacchi. Oggi si ritiene che quasi il 40 per cento dei residenti della città abbia almeno un genitore nato all’estero e che il 20-25 per cento dei suoi abitanti abbia una cittadinanza straniera (turca, est-europea, medio-orientale, africana), il che fa di Berlino una delle città che sono cambiate più velocemente negli ultimi decenni, un dato da ricordare quando si discute della situazione politica tedesca. Anche Madrid, pur partendo da un grado di omogeneità ancora più elevato, è cambiata in modo radicale. Nel 1990 gli immigrati costituivano meno dell’1 per cento della popolazione spagnola, e anche la capitale, che qualche anno dopo contava un 7 per cento di immigrati (molti dei quali erano però ispanici provenienti dall’America Latina) tra i suoi abitanti, era una città quasi esclusivamente spagnola. Oggi il 25 per cento della popolazione madrilena è nato all’estero, ma a eccezione dei rumeni e dei marocchini, che formano i due gruppi più numerosi, si tratta in generale di venezuelani, colombiani, peruviani ecc. (senza contare i latinoamericani che hanno preso la cittadinanza italiana grazie alla legge del 1992 e si sono poi trasferiti in Spagna a lavorare come italiani).
Come Madrid, Roma era ancora nel 1990 una città quasi completamente omogenea, con stranieri che formavano meno del 2 per cento dei residenti e una “differenza” che aveva quasi esclusivamente basi regionali. Oggi quella percentuale è salita “solo” al 12-13 per cento, che comunque vuol dire di un fattore sei, una percentuale ancora nettamente inferiore a quella delle altre capitali occidentali ma che – forse per l’alto grado della precedente “italianità” – sta già avendo un significativo impatto politico e psicologico. Sempre nel 1990 a Milano gli stranieri erano in percentuale già il doppio che a Roma, ma comunque solo il 4 per cento dei residenti. Dieci anni dopo essi erano raddoppiati al 9 per cento e si calcola che oggi siano quasi il 20 per cento, senza contare naturalizzati e figli di naturalizzati, con forti gruppi di asiatici, africani e latino-americani (egiziani, cinesi e filippini sono i più numerosi) oltre che di est-europei.
L’Europa centro-orientale è ancora vicina alla situazione italiana o spagnola degli anni Novanta, anche perché il socialismo aveva costruito un sistema fortemente discriminatorio e gerarchizzato, che aveva tenuto una percentuale più alta della popolazione nelle campagne, anche come riflesso di una modernizzazione meno riuscita e di una mobilità sociale stagnante. Benché afflitti da una crisi demografica più grave di quella occidentale, ciò ha permesso a questi paesi non solo di alimentare una forte emigrazione da quelle campagne verso occidente, ma anche di continuare a nutrire per qualche anno le loro città con “contadini” locali, come era accaduto in Italia fino agli anni Settanta. Varsavia per esempio era etnicamente polacca per quasi il 99 per cento negli anni Novanta e lo era ancora al 96,5 per cento nel 2021, anche se oggi il numero dei lavoratori stranieri in Polonia supera il milione e l’invasione russa dell’Ucraina ha causato un forte aumento dei profughi da quel paese.
Il caso russo: i consistenti arrivi a Mosca dal Caucaso e dall’Asia centrale. I precedenti storici: le città “plurali” che in Europa erano anche grandi e fecondi centri di ibridazione culturale e vitalità economica. Oggi siamo di fronte una fonte fortissima di tensioni, contraddizioni e malessere, che richiede buon governo
La forte reazione politica, culturale e ideologica a cambiamenti ancora tanto contenuti lascia pensare che, come in Italia, pesi la vecchia abitudine a vivere in un paese esclusivamente polacco, considerato come la norma ma che era in realtà il frutto recente delle guerre, degli stermini e dei trasferimenti di popolazione del 1914-1948 (prolungato nel 1968 dalla cacciata di gran parte degli ultimi ebrei da parte del nazionalcomunista Gomulka).
Il caso russo è diverso, non perché vi sia una crisi demografica minore, anzi, o perché come in Polonia le miserabili campagne ex sovietiche non abbiano continuato almeno per qualche anno a nutrire le grandi città russe. Esso è stato piuttosto complicato dal rientro dopo il 1991 di milioni di russi etnici dalle ex repubbliche sovietiche, dall’emigrazione massiccia degli ebrei e dalla rarefazione degli immigrati ucraini, che hanno mostrato anche così la loro preferenza per le società europee, nonché dall’arrivo di emigrati dall’Asia centrale e dal Caucaso. Comunque nel 1989 la popolazione di Mosca, strettamente controllata grazie ai passaporti interni, era al 90 per cento composta da russi etnici e per un 10 per cento da altri slavi, con gli ucraini al primo posto, o da cittadini di altre repubbliche sovietiche. Nel 2021 i russi etnici erano scesi a meno del 70 per cento di abitanti cresciuti grazie a consistenti arrivi dal Caucaso e dall’Asia centrale, oltre che dai villaggi russi. Mosca quindi somiglia più delle altre capitali dell’Europa centro-orientale al modello occidentale per quanto attiene ai risultati, anche se se ne differenzia per il modo in cui essi sono stati ottenuti, nonché per il peso relativamente minore di un invecchiamento contenuto da una speranza di vita notevolmente inferiore a quella occidentale (un uomo russo vive in media 14 anni di meno di un italiano, il che fa per esempio sì che la Russia non conosca il problema delle pensioni o il peso della non autosufficienza).
Insomma il vecchio mondo bianco, occidentale o meno, si dispone su un gradiente determinato da forze simili – la crisi demografica, l’invecchiamento e il bisogno di immigrati almeno fin quando ve ne sarà la disponibilità – che agiscono tuttavia in contesti diversi, determinati anche da passati diversi. Ovunque però, una popolazione invecchiata e che ha toccato o sognato l’omogeneità (a suo modo anche nel melting pot americano, simboleggiato dal Frank Sinatra di My Way) reagisce in modo difforme ma acuto a condizioni che richiedono e producono diversità, una diversità destinata probabilmente a raggiungere il suo culmine nei decenni dominati dall’Africa (decenni che si stanno avvicinando: ricordiamo che secondo le stime attendibili più recenti, la popolazione umana comincerà a diminuire in termini assoluti tra meno di 60 anni e forse anche prima, mentre quella africana continuerà ad aumentare fino a fine secolo).
Questa situazione ha precedenti storici rilevanti, anche in Europa, di cui è importante rendersi conto per capire problemi e pericoli. Questi precedenti consistono nella formazione di vasti territori che si possono definire misti o plurali, causata in passato da invasioni, movimenti di popolazioni e incapacità dei centri urbani di riprodursi fino alla comparsa dell’igiene e della medicina moderni. In Europa essi sono stati a lungo caratteristici delle sue regioni centro-orientali, più esposti alle invasioni, ma anche Irlanda e penisola Iberica (e andando più indietro in Sicilia) hanno a lungo avuto città che parlavano lingue e praticavano religioni diverse da quelle delle aree che le circondavano: inglese e protestantesimo in un’Irlanda ancora gaelica e cattolica; tedesco, ungherese, polacco, russo, veneziano e turco in un centro-est dove città spesso in buona parte protestanti, cattoliche, ebraiche e islamiche erano disseminate in campagne di lingue, culture, religioni o confessioni diverse.
Almeno in Europa, i sommovimenti demografici, economici e politici del XVIII-XX secolo hanno poi alterato radicalmente questo quadro, producendo una fortissima spinta all’omogeneizzazione etno-linguistica e sociale segnata da una “riconquista” di città sentite come aliene e ostili fatta di migrazioni più o meno volontarie, espulsioni e deportazioni forzate, sostituzioni di intere popolazioni cittadine e anche massacri di massa. Questi ultimi hanno raggiunto il loro picco con la liquidazione dei ghetti e delle cittadine ebraiche, ma hanno toccato anche le popolazioni urbane greche e armene dell’Anatolia, la gran parte di quelle islamiche dei Balcani, quelle tedesche della Slesia o della Boemia, quelle italiane di Istria e Dalmazia e persino – anche se con meno violenza – quelle inglesi di Dublino. L’Europa ha distrutto così in circa due secoli le sue città “plurali”, che erano anche grandi e fecondi centri di ibridazione culturale e vitalità economica.
E’ una storia che va ricordata perché testimonia delle tensioni che la presenza di città avvertite come estranee può scatenare, specie in presenza di “avanguardie” politiche o religiose radicali capaci di mobilitare risentimenti identitari che non sono però solo il frutto dei loro disegni malvagi: come si è capito da 150 anni, “l’etnocentrismo” è piuttosto parte integrante della condizione e della sensibilità umane, una parte che può essere certo mobilitata in modi diversi, e anche governata con la politica e la cultura, ma che esiste e non può essere semplicemente negata, come dimostra il continuo rifiorire di politiche “identitarie” alla destra come alla sinistra dello spettro politico.
Le condizioni sono oggi per fortuna almeno in parte diverse, perché le stesse dinamiche demografiche rendono impossibile a qualunque persona razionale pensare che l’Europa possa sopravvivere a lungo come insieme di paesi omogenei e continente “bianco”. Questo però non vuol dire che una forte reazione a un processo che sta da mezzo secolo, e in modo accelerato, riportando i territori misti in Europa (ma anche cambiando quelli degli Stati Uniti, del Canada e dell’Australia) non si stia già manifestando in modo forte e chiaro, come dimostrano le elezioni e i sondaggi statunitensi, inglesi, olandesi, tedeschi, italiani, polacchi, ungheresi ecc. Dai primi anni Settanta del Novecento l’Europa e la parte europea degli Stati Uniti non sono infatti più in grado di riprodursi e sono costretti a “importare” per sviluppare o almeno mantenere il loro tenore di vita un numero crescente di immigrati. E se per esempio in Italia per lunghi decenni questi immigrati sono venuti dalle nostre campagne (e negli Stati Uniti dall’Europa), e dopo il 1991 essi sono venuti per qualche anno da un’Europa orientale comunque bianca e cristiana, e quindi più “vicina” e più facilmente integrabile, dall’inizio del nuovo millennio essi vengono sempre di più da paesi sempre più lontani, anche culturalmente, portando in quello che era una volta l’Occidente e soprattutto nelle sue metropoli diversità crescenti in termini di cultura, lingua, religione e colore.
Il processo è naturalmente variegato, alcuni paesi sono più avanti di altri, e il fenomeno sta investendo, benché ancora in maniera più “ideologica” che reale, anche l’Europa centro-orientale, e in maniera sostanziale ancorché diversa la Russia. In generale, però, il vecchio mondo bianco si è già trasformato o si va trasformano in un insieme di largely migratory democracies (almeno quelle che sono riuscite a conservarsi tali, ma è possibile intravedere una tendenza a “autoritarismi migratori”), per usare la definizione che Alfred Zimmern, un grande intellettuale britannico di origine ebraica, diede nel 1919 degli Stati Uniti e della Londra in cui viveva, abitati già allora da gruppi di origine sempre più diversa.
Tutto ciò non vuol dire che sia probabile una ripetizione dei terribili conflitti che hanno lacerato i territori misti nell’Europa del XIX e del XX secolo, e soprattutto le loro città. E’ sicuro però che siamo di fronte a una fonte fortissima di tensioni, contraddizioni e malessere, che richiede buon governo, anche perché – date le tendenze demografiche – senza immigrazione la qualità della vita europea peggiorerebbe velocemente e considerevolmente. Queste tensioni si manifestano già come conflitto tra queste città diverse e dinamiche e regioni e strati sociali che invecchiano e sono legati a un recente passato, rimpianto anche perché davvero buono. Ma le prime non vivono fuori dalle seconde, e le seconde senza di esse affonderebbero velocemente. Al contrario che nel periodo precedente, quando era possibile pensare di sostituire gli “indesiderati”, c’è oggi insomma un oggettivo interesse a una convivenza che però – per ragioni legate a una natura umana che è fatta di reazione oltre che di attrazione al diverso – non è né facile né immediata.
Data la fragilità delle nostre società invecchiate, battersi per far comprendere la convenienza generale di questa convivenza è indispensabile, ma questo vuol dire imparare – anche come individui oltre che come “politica” – a vivere con la differenza e a governarla, anche perché occorre sempre ricordare che l’immigrazione è un privilegio temporaneo. Se le cose non cambiano, la diffusione della denatalità la ridurrà drasticamente nel giro di meno di un secolo, e chi riuscirà a sfruttarla per guadagnare il tempo necessario a ribaltare le mentalità e gli interessi che alimentano la denatalità potrà contare su un futuro molto migliore di chi non lo saprà fare. I paesi la cui politica e la cui cultura si lasceranno invece dominare – come è ahimè in parte naturale – dall’ostilità per la differenza, rischieranno di perdere rapidamente i grandi centri che nutrono quel che resta della loro vitalità.
Il problema è insomma costruire un discorso capace di spiegare e far capire perché della differenza non si può fare a meno, e che essa è anche ricchezza, materiale e culturale, ma capace altresì di parlare alle legittime preoccupazioni e paure di popolazioni invecchiate e in cui anche la parte più debole della gioventù teme non iragionevolmente il cambiamento. Gli argomenti e gli strumenti ci sarebbero: politiche coerenti, attive e sensate di immigrazione, capaci anche di rassicurare; ristrutturazione ragionata del sistema scolastico; raccolta sistematica dei dati necessari al buon governo (oggi in Italia l’Istat non tiene nemmeno conto delle seconde generazioni degli immigrati); e destinazione della maggior parte delle risorse possibili alla ricerca e all’Università, che sono l’altra grande (e per fortuna meno conflittuale) gamba che può sorreggere il nostro futuro. E forse si potrebbe partire dalla costruzione di un’Agenzia italiana dell’immigrazione, lottando al contempo per la nascita di un’Agenzia europea, che diventi il luogo naturale di discorsi maturi su temi centrali e fortemente conflittuali.