Le operazioni di spoglio dei voti in Iraq (foto Getty)
un paese al voto
In Iraq promettevano una democrazia diversa. Ora i seggi sono vuoti
Un paese disilluso da una classe politica corrotta ha disertato le urne. Inizia la partita per la formazione del governo, che potrebbe durare a lungo mentre il paese oscilla tra Stati Uniti e Iran
Se c’è qualcuno che guarda con preoccupazione ai risultati delle elezioni in Iraq sono i Guardiani della rivoluzione islamica di Teheran. Per l’Iran, i risultati delle urne nel paese vicino sono un po’ la cartina al tornasole dello stato in cui versa il potere dei pasdaran nella regione. Dopo lo sfaldamento dell’Asse della resistenza, la guerra dei Dodici giorni contro gli americani e il cessate il fuoco a Gaza, all’Iran restano solo le milizie irachene e i partiti dell’alleanza sciita, da tempo dominatori indiscussi della politica irachena. Intanto, martedì sera a poche ore dalla chiusura dei seggi, sono arrivati i dati sull’affluenza, forse i più attesi visto che l’Iraq soffre di una ormai cronica disaffezione alla pratica democratica. La commissione elettorale ha detto che a votare è stato il 55 per cento degli iscritti ai registri elettorali, ma se si guarda al dato relativo a tutti gli aventi diritto il numero dei votanti crolla al 37,5 per cento, poco più di 12 milioni di persone su 32 totali. Sebbene ci sia un leggero miglioramento rispetto all’ultima tornata del 2021, l’astensionismo è altissimo e indica che qualsiasi risultato arriverà dalle urne non terrà conto di un terzo della popolazione.
“Dopo la guerra del 2003, era stato spiegato agli iracheni che le elezioni significano democrazia perché i cittadini hanno la possibilità di scegliere i governi e di cambiarli, se non sono soddisfatti”, dice al Foglio Renad Mansour, esperto di Iraq della Chatham House di Londra. “Nel 2003 l’afflusso alle urne era stato dell’80 per cento, ma da allora a oggi, attraverso sei diverse tornate elettorali, gli iracheni si sono accorti che chi governa sono sempre gli stessi. Cambiano le alleanze, ma la medesima classe politica corrotta si spartisce il potere fra gli stessi partiti. La voce delle persone è andata perduta”.
In attesa dei risultati, la formazione del governo impiegherà probabilmente mesi, in linea con quanto è accaduto in tutti questi anni. Dopo le elezioni del 2021 sono serviti quasi 400 giorni perché i partiti si accordassero sulla formazione del nuovo esecutivo. L’attenzione generale è quindi rivolta ora al lungo periodo che si sta aprendo e che vedrà il paese in un limbo. Secondo Mansour, è questo il momento più critico per Baghdad: “Bisognerà vedere se il paese riuscirà a non finire coinvolto nelle forze destabilizzanti della regione, prime fra tutte quelle che arrivano dall’Iran”. Il premier Mohammed Shia al Sudani, che difficilmente riuscirà a riconfermare la sua carica, in questi anni si è barcamenato nella missione impossibile di tenere il paese in bilico fra Stati Uniti e Iran. Dal 7 ottobre a oggi si è sbriciolata l’intera architettura strategica messa in piedi da Qassem Suleimani, il comandante delle forze iraniane al Quds. Il suo piano di creare una galassia di milizie per logorare i nemici nella regione con una guerra a bassa intensità ha mostrato le prime crepe subito dopo l’uccisione del generale iraniano a Baghdad e del suo uomo in Iraq, Abu Mahdi al Muhandis, nel gennaio 2020, quando alla Casa Bianca c’era Donald Trump al suo primo mandato. Da allora, il successore Esmail Qaani non ha mostrato le stesse abilità.
“L’Iran però continua a usare gruppi armati come Kataib Hezbollah per raggiungere i propri scopi in Iraq, anche minacciando le Forze armate e i cittadini americani”, spiega Seth Frantzman, della Foundation for Defense of Democracies, un centro di ricerca basato a Washington. Dopo anni di pressioni esercitate dalle milizie filoiraniane delle Unità di mobilitazione popolare e dai partiti loro affiliati affinché Sudani cacciasse gli americani dall’Iraq, il ritorno di Trump alla Casa Bianca sembra avere cambiato gli scenari. Il ritiro delle forze anti Isis degli Stati Uniti resta fissato per il prossimo anno, ma all’interno dell’alleanza dei partiti sciiti compaiono le prime divisioni su dove dirigere la bussola delle alleanze irachene tra Washington e Teheran. “E sebbene anche i gruppi armati filo iraniani rispondano sempre ai pasdaran, anche loro hanno abbassato i toni anti americani di recente”, spiega Frantzman. “Sembra che l’Iraq voglia relazioni più strette con gli Stati Uniti perché è preoccupato da possibili reazioni da parte di Trump”.
Gli obiettivi di Washington in Iraq dopo le elezioni restano due, spiega Mansour: “Avere un governo che si mantenga aperto agli investimenti americani, permettendo a compagnie petrolifere come Exxon e Chevron di continuare a operare nel paese, e poi integrare le milizie nelle forze regolari”. Entrambi obiettivi che spaventano Teheran, ma resta da vedere se i pasdaran avranno le forze per opporsi.