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Alla Casa bianca
Sharaa vede Trump. Da terrorista a primo presidente siriano alla Casa Bianca. “Voglio liberarmi del passato”
Per gli Stati Uniti è il simbolo di una nuova stagione per il medio oriente. Sharaa promette che il suo paese aderirà alla coalizione anti Isis e intanto incassa la proroga del blocco delle sanzioni
Un imprenditore siriano della diaspora ha raccontato un aneddoto. Era a Washington ad assistere a un intervento del presidente Ahmed al Sharaa alla Syrian American Alliance, la comunità siriana emigrata negli Stati Uniti, quando per scherzo si è rivolto ad al Asad al Shaibani, il ministro degli Esteri seduto qualche sedia più in là. “Ehi, Abu Aisha!”, ha esclamato chiamandolo con il suo nome di battaglia quando militava nel gruppo terroristico Hayat Tahrir al Sham. Il ministro si è girato e ha sorriso, così l’imprenditore ha scherzato ancora: “Noi vogliamo bene anche ad Abu Muhammad!”, citando il nome di battaglia di quando Sharaa, da jihadista, si faceva chiamare Julani. L’episodio è emblematico dello spirito con cui Washington e Damasco cercano di mettere una pietra sul passato. Perché è questo il senso della visita storica che ha portato Sharaa alla Casa Bianca. (Gambardella segue nell’inserto I)
Intanto prevale la cautela e il vertice di oggi si è svolto senza la stampa, con Sharaa accolto all’ingresso secondario, senza fanfare né bandiere siriane. Cautele dovute, ma resta il fatto che da un ex terrorista con una taglia da 10 milioni di dollari sulla testa è diventato il primo presidente nella storia della Siria indipendente a essere ricevuto alla Casa Bianca.
Per Trump, Sharaa è il simbolo di una nuova fase per l’intera regione. Mentre Gaza è in macerie, l’Iraq va al voto sotto la minaccia dell’Iran, che è ferito ma ancora incontrollabile, gli houthi chiudono il Mar Rosso e l’Egitto affronta una grave crisi economica, ecco un leader arabo che si fa riprendere mentre gioca a basket sorridente con gli stessi generali americani che fino a qualche mese fa avevano appuntato il suo nome in cima alla lista dei cattivi.
Sharaa ha incontrato il comandante del Centcom, Brad Cooper, e Kevin Lambert, capo della coalizione anti Isis. Prima di scambiare due tiri a pallacanestro, il presidente gli ha promesso che la Siria si unirà alla coalizione anti Isis – conferma che è arrivata dopo il vertice con Trump – e ha portato in dote uno scoop di Reuters, che ha dato notizia di due attentati pianificati dal gruppo jihadista ai suoi danni ma falliti. Minacce che sono medaglie sul petto di Sharaa, che ha presentato un altro biglietto da visita niente male: un’operazione anti terrorismo preventiva contro cellule dell’Isis dai numeri senza precedenti: 71 persone arrestate in ben 61 raid condotti quasi in simultanea. Gli americani hanno anche affrontato il tema delle relazioni con Israele, uno dei capitoli più controversi. Sharaa è disposto a non accumulare armi pesanti nel sud della Siria come richiesto dallo stato ebraico ma vuole garanzie sul rispetto della linea del cessate il fuoco del 1974.
Nell’attesa di scoprire se l’idillio tra Damasco e Washington durerà, il presente dice che Sharaa negozia con tutti e secondo alcuni non è casuale che proprio oggi, a Washington, fosse presente anche il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan, il main sponsor del presidente siriano. Sharaa non sembra abile solamente a basket, ma anche a scacchi, perché a Washington ha collezionato tanti incontri strategici per raggiungere i due obiettivi più importanti del viaggio: l’apertura dell’ambasciata siriana a Washington e la cancellazione definitiva delle sanzioni americane. Il segretario di stato, Marco Rubio, ha prolungato di altri sei mesi la sospensione del Caesar Act, che imponeva misure restrittive decise al tempo di Bashar el Assad. Sharaa punta alla cancellazione definitiva ma al Congresso c’è ancora chi nutre dubbi. Tra questi c’è il presidente della Commissione Affari esteri, il repubblicano Brian Mast, il reduce che perse le gambe in Afghanistan. Serve il suo consenso per cancellare il Caesar Act e così la diaspora siriana negli Stati Uniti si è messa in moto perché la priorità è quella di tornare a investire in patria. Fra i mediatori più attivi c’è Tareq Naemo, un imprenditore curdo-siriano che ha investito nel settore della sicurezza nel Regno Unito. Appena Sharaa è sbarcato a Washington, Tareq e sua moglie Jasmine hanno organizzato un incontro tra il presidente siriano e Mast per convincere il deputato a rivedere la sua posizione a proposito delle sanzioni. Fonti del Foglio riferiscono che Sharaa abbia fatto passi avanti per convincere Mast, che però resta cauto: “Siamo entrambi ex combattenti ed ex nemici. Gli ho chiesto: perché non siamo più nemici? Mi ha risposto che vuole ‘liberarsi del passato’ e che vuole ‘diventare un grande alleato degli Stati Uniti’”, ha detto Mast.
Se la diaspora intercede per Sharaa, il motivo sono soprattutto le opportunità economiche. “Se non sono i siriani a investire in Siria, allora nemmeno gli stranieri lo faranno”, chiarisce al Foglio Ayman Abdel Nour, politico dell’opposizione negli Stati Uniti. “Sono stati gli imprenditori siriani in America a riportare Mastercard in Siria e a convincere Google e Facebook a rimuovere i blocchi alle pubblicità nel paese”, dice. “Chiunque nel settore privato ripete che il Caesar Act è il principale ostacolo per investire in Siria”, spiega Vittorio Maresca, esperto di sanzioni alla società di consulenza Karam Shaar Ltd. “Il motivo è che impongono delle sanzioni secondarie che impediscono di investire in Siria anche alle imprese di altri paesi. Rimuoverlo avrebbe un effetto notevole, anche se non definitivo, per risollevare l’economia”. I siriani attendono per voltare pagina definitivamente con il passato, come dice di voler fare Sharaa.