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Il caso Tsurkov e il ricatto delle milizie filoiraniane. In Iraq il premier Sudani rischia alle urne

Luca Gambardella

La liberazione della ricercatrice russo-israeliana dimostra che Baghdad resta schiava dei gruppi armati filoiraniani. Le pressioni americane per integrarli nell'esercito e le incognite del voto di martedì

La prima intervista rilasciata da Elizabeth Tsurkov martedì scorso al New York Times, liberata a settembre dopo due anni e mezzo di prigionia trascorsi nelle mani di una milizia filo iraniana, non avrebbe potuto avere un tempismo peggiore per il premier iracheno, Mohammed Shia al Sudani. Con le elezioni parlamentari irachene ormai imminenti, la ricercatrice dal doppio passaporto russo e israeliano non ha mancato di puntualizzare al quotidiano americano quanto già tutti sapevano, ovvero che i responsabili della sua cattura e della sua prigionia sono stati gli uomini di Kataib Hezbollah (KH), la più importante milizia sciita del paese designata dagli Stati Uniti tra i gruppi terroristici. Sin dalle dichiarazioni ufficiali fornite al momento del rilascio della Tsurkov, il governo iracheno si era invece guardato bene anche solo dal menzionare il gruppo armato e le sue responsabilità nell’intera vicenda. L’evidenza era però ampiamente nota al resto del mondo, tanto che per tutta la durata della prigionia si erano moltiplicati gli appelli della società civile e della diplomazia internazionale affinché Sudani convincesse KH a rilasciare la donna. 

Non che per il premier iracheno si trattasse di un compito semplice. Il suo rapporto con la milizia è sempre stato complesso e articolato, se non apertamente conflittuale. Appena un mese prima della liberazione della Tsurkov sembrava si fosse raggiunto il punto più basso. Dopo gli scontri tra la milizia e la polizia avvenuti a luglio nel distretto di Karkh, a Baghdad, che avevano causato la morte di tre persone, Sudani aveva trovato la forza di rimuovere i comandanti di due brigate di KH, come punizione. Un gesto di coraggio isolato perché il premier è sempre stato subalterno alla milizia filoiraniana. In alcune zone periferiche dell’Iraq comandano le Forze sciite per la mobilitazione popolare, in arabo al Hashd al Shaabi, di cui KH è la punta di diamante. Questi gruppi  sono nati dopo la fatwa del 2014 del principale leader religioso sciita, l’ayatollah Ali al Sistani, che invitò tutti a imbracciare le armi per combattere lo Stato islamico. Da allora, il potere delle milizie è fuggito a qualsiasi forma di controllo e  ha cominciato a muoversi al di fuori della legge. Ciclicamente si combattono fra loro, talvolta si alleano, se non decidono invece di partecipare ad altre guerre nei paesi limitrofi – è successo in Libano al fianco di Hezbollah e in Siria a sostegno di Bashar el Assad. Il paradosso è che questi gruppi armati sono stipendiati da Baghdad ma seguono l’agenda dell’Iran. KH è la più forte e conta anche su un partito politico, l’Hoquq,  animato da una forte ispirazione anti americana. 

Il caso della Tsurkov è stato l’ennesimo campanello d’allarme per  gli Stati Uniti, coscienti dell’incapacità di Sudani di gestire le milizie. Lunedì scorso, il premier ha detto che convincere i gruppi paramilitari a deporre le armi sarà possibile solo quando i soldati americani lasceranno il paese. “L’Isis non c’è più. Sicurezza e stabilità? Ci sono pure, quindi datemi un motivo perché debba restare una coalizione militare di 86 paesi”, ha detto Sudani. La data limite per il ritiro c’è già, settembre 2026, ed entro quel giorno gli americani si augurano che l’Iraq non finisca completamente tra le mani di Teheran. I raid anglo-americani dei mesi scorsi  e la guerra dei dodici giorni fra Stati Uniti e Iran hanno indebolito le capacità degli ayatollah di influenzare le milizie in Iraq. Ma non basta e Washington spinge perché siano riassorbite nelle forze regolari, con una legge che però è ferma in Parlamento, sotto il ricatto dei partiti che vogliono in cambio la certezza del ritiro americano. Il clima è  teso e il mese scorso le milizie sciite hanno ucciso uno dei candidati sunniti, Safaa al Mashhadani, che chiedeva il loro disarmo.

Di certo, il caso della ricercatrice russo-israeliana non ha fatto guadagnare punti a Sudani agli occhi degli Stati Uniti. Se è stata rilasciata gran parte dei meriti è della Casa Bianca, non certo di Baghdad. L’entourage di Trump ha creato una rete di trattative attraverso Adam Boehler, inviato speciale per la liberazione degli ostaggi, e Mark Savaya, un uomo d’affari  amico del presidente americano che lo ha nominato da poco inviato speciale per l’Iraq. Sudani, insomma, avrebbe subìto gli eventi dall’inizio alla fine della vicenda Tsurkov, prima assistendo impotente al suo rapimento e poi assistendo alla sua liberazione. 

Intanto le possibilità di una sua riconferma alla guida del governo si assottigliano. La coalizione dei partiti sciiti è divisa e resta da vedere quale impatto avrà invece  Moqtada al Sadr, il leader religioso che in questi anni ha spinto per il boicottaggio delle elezioni per delegittimare Sudani. Al Sadr ha un seguito ampio nel sud dell’Iraq, oltre a potere contare sul tacito sostegno di al Sistani, che da Najaf non ha mai lanciato esortazioni troppo accorate per recarsi alle urne.

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.