Osama Njeem Almasri
rilasciato da noi, catturato da loro
Il ghigno di Almasri, in manette a Tripoli. Ma il suo futuro è tutto da scrivere
L'arresto del Capo della polizia penitenziaria e i precedenti di Bija e Bahroun. Perché non c'è da fidarsi della giustizia libica. L'Italia invece rischia la figuraccia al Consiglio di Sicurezza dell'Onu
Roma. “Rideva”, racconta al Foglio un testimone che ha assistito alla scena dell’arresto di Osama Njeem Almasri, avvenuto ieri a Tripoli. Il capo della Polizia penitenziaria, la stessa che controlla una delle carceri degli orrori libici, quella di Mitiga, è stato sottoposto a fermo su ordine della procura della capitale libica, guidata da Sadiq al Sour. L’ipotesi di reato è tortura e violenze degradanti nei confronti di almeno dieci detenuti di Mitiga, uno dei quali è morto per le violenze subite per mano dello stesso Almasri.
Dal 21 gennaio scorso, il giorno del rilascio controverso con cui l’Italia ha permesso al generale libico arrestato a Torino di sfuggire al mandato d’arresto della Corte penale internazionale, sono successe molte cose, che rendono ora imprevedibile il futuro. Se Almasri sarà giudicato in Libia o se sarà estradato all’Aia, è tutto da vedere. Il sistema di potere corrotto e criminale che prevale in Libia lascia ancora ampi dubbi sulle possibilità che Almasri possa andare incontro a un processo e a una giusta sentenza. Per lui parlano i precedenti di altri capi milizia – dall’ex capo della Guardia costiera libica Abd al-Rahman al Milad, aka Bija, a Mohammed Bahroun, detto al Far, “il topo” – prima arrestati per omicidi e crimini gravi e poi rilasciati o talvolta persino inquadrati in cariche istituzionali.