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L'editoriale dell'elefantino
Furbo, nascosto per principio e cattivo come la pece, ogni azione di Cheney era il tutto elettrizzante della politica
Se l'11 settembre non conobbe un 12 settembre, se al Qaida fu spazzata via in tutto il mondo e se in medio oriente si aprì una prospettiva che solo ora si rivede in carne e ossa dopo il 7 ottobre e la carneficina di Gaza in guerra, molto lo si deve a Cheney e ai suoi consiglieri legali
Furbo di tre cotte, molto intelligente, abile ed esperto, cattivo come la pece nera, rigoroso e fuggitivo davanti alle apparenze, anzi nascosto per principio, Dick Cheney (1941-2025) fu un grande politico americano, mondiale negli effetti del suo operato a fianco, al di sotto, dietro e al di sopra di George W. Bush, ex peggiore presidente di tutti i tempi secondo la vulgata ex liberal, in particolare ma non solo dopo l’11 settembre. Barton Gellman del Washington Post lo chiamò “the Angler”, un po’ il pescatore che fa abboccare all’amo, un po’ la rana pescatrice che usa la conformazione della sua testa per attrarre le prede, un animale machiavelliano, metà lione e metà golpe, nel senso di volpe. Alla Convention del 2004, prima della fatale seconda vittoria di Bush e Compagnia, a New York, intervenne dal podio e il redattore dell’Economist, come sempre cleverish, lo paragonò a Yuri Andropov, l’incolore ma immenso ex capo del Kgb.
Un discorso di Cheney era zero assoluto più noia assicurata, ma le sue azioni erano il tutto elettrizzante della politica, specie in compagnia di Donald Rumsfeld, il segretario alla Difesa, un altro mezzo filosofo e mezzo politico di spietato realismo. Era stato il capo di gabinetto di Gerald Ford, successore di Nixon, e poi il capo del Pentagono sotto Bush Sr., prima guerra del Golfo, con l’Onu, la coalizione larga, i pozzi bruciati, Saddam contenuto e in ritirata dal Kuwait invaso a tradimento. Il figliolo di George H. W. Bush, il nostro W., Dubya, gli diede l’incarico di scegliere, vetting, il vicepresidente, e Cheney dopo un giro abbastanza corto gli disse che sarebbe stato lui il vice migliore dell’ultimo della grande dinastia post Reagan cresciuta tra il Maine e il Texas. Affare fatto, e per fortuna. Se l’11 settembre non conobbe un 12 settembre, se tutto si fermò lì, se il nucleare sporco fu disinnescato, se al Qaida fu spazzata via in tutto il mondo, con interrogatori autorizzati dal Patriot Act, roba legalizzata ma nondimeno di un patriottismo molto severo e disumanizzante, come si dice adesso, se l’Afghanistan ebbe vent’anni di libertà, l’Iraq si liberò della tirannia, se Saddam finì sulla forca, se in medio oriente si aprì una prospettiva che solo ora si rivede in carne e ossa dopo il 7 ottobre e la carneficina di Gaza in guerra, molto lo si deve a Cheney e ai suoi consiglieri legali.
Ne sbagliarono tante, si macchiarono la coscienza e si sporcarono le mani, come succede non di rado nella gestione degli affari di stato di fronte alle offensive terroristiche, ma protessero popolo e istituzioni della più grande e potente democrazia del mondo, lasciarono la piazza a Obama, re della speranza che fa premio sull’esperienza, e alla lunga scia di guai che seguì la sua idea opaca e solo in apparenza illuminata di guidare da dietro la politica internazionale degli Stati Uniti, leading from behind, beninteso salvando Guantánamo Bay, altra creatura necessaria e patologica di Dick Cheney.
Era buon amico del grande giurista conservatore, ma universalmente rispettato, Antonin Scalia, con il quale andava a caccia senza complessi nel Wyoming, sparacchiando e talvolta padellando l’animale e ferendo il compagno di giochi. (segue a pagina tre) Con sua figlia Liz, ultramoderna per cultura e standing politico, si è battuto senza successo per evitare la distruzione dell’establishment repubblicano (e democratico) da parte di Donald Trump, che un normotipo di straordinaria felicità creativa in politica, uno come lui, considerava francamente eccessivo. Era sempre tra la Casa Bianca, ancora priva di Ballroom, e un ospedale, salute di ferro insidiata dai fatti, finché una polmonite con le sue complicazioni l’ha portato via ai suoi pochi ma ferventi ammiratori e ai suoi molti denigratori a buon prezzo.