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Come si è arrivati in America allo shutdown più lungo della storia
Da trentacinque giorni il governo federale è paralizzato. Nessuna trattativa tra repubblicani e democratici, voli cancellati, stipendi bloccati e tensioni sociali in aumento. Ma forte del consenso della sua base Trump non sembra intenzionato a riaprire. E il conto economico cresce
Con trentacinque giorni di durata, lo shutdown statunitense entrato nel vivo il 4 novembre è ormai il più lungo della storia. Senza trattative in corso tra democratici e repubblicani, la paralisi del governo federale non mostra segni di soluzione. Il primo ottobre, senza un accordo tra le parti, Washington ha esaurito i fondi per far funzionare la macchina pubblica. In base a una legge degli anni Settanta, l’amministrazione può operare solo con risorse approvate dal Congresso. Al Senato, i democratici hanno fatto valere i loro poteri di ostruzionismo: per approvare un provvedimento servono sessanta voti su cento, e ai repubblicani ne mancano quattro. Solo tre dem — guidati dal senatore della Pennsylvania John Fetterman, da tempo in rotta col partito — hanno rotto le righe. Cinquantasei voti in tutto: troppo pochi.
Durante gli shutdown precedenti, compreso quello del 2018-2019 sotto il primo mandato di Donald Trump, delegazioni dei due partiti trattavano dietro le quinte per riaprire i servizi federali. Stavolta no. Per volontà dello stesso Trump, che lo ha detto apertamente in un’intervista alla Cbs, la linea è di non cedere: i democratici, ha spiegato, “devono arrendersi”. La strategia di reclutare sette senatori ribelli non funziona. E non aiuta la gestione social della Casa Bianca, piena di sfottò e bufale sui dem “che vorrebbero finanziare le cure sanitarie per i migranti illegali”.
Nemmeno il ricatto dei tagli draconiani annunciati dal presidente e dal suo braccio destro economico, Russell Vought, sta dando risultati: un tribunale distrettuale ha bloccato i quattromila licenziamenti previsti. Per ora l’azzardo democratico sembra pagare: i sondaggi assegnano la colpa della crisi a Trump e ai repubblicani, sempre più compatti e servili, con lo speaker della Camera Mike Johnson che si rifiuta di convocare l’aula e di far giurare la deputata neoeletta Adelina Grijalva, vincitrice in Arizona il 23 settembre.
Alcuni sindacati, però, iniziano a mostrare inquietudine, chiedendo di riaprire il governo per contenere i rincari delle assicurazioni sanitarie voluti dai repubblicani. Intanto, la polizia di frontiera e gli agenti dell’Ice lavorano regolarmente, così come il personale ospedaliero. In teoria dovrebbero farlo anche gli addetti alla sicurezza aeroportuale, ma molti voli vengono cancellati per mancanza di personale. Le Forze armate hanno evitato la sospensione della paga solo grazie a un assegno da 130 milioni di dollari firmato dal miliardario Timothy Mellon, storico sostenitore di Trump. Il mese prossimo, però, nessuno sa come si farà.
Un’ingiunzione federale ha sbloccato i fondi d’emergenza per il programma Snap, che assicura assistenza alimentare alle fasce più deboli. Funziona ancora la Social Security, che continua a versare pensioni e sussidi, anche se le nuove richieste restano ferme. Chiusi invece parchi nazionali e monumenti, per evitare il caos del 2018 quando furono lasciati aperti senza sorveglianza. Sospesi anche i report economici su crescita e occupazione, aumentando il rischio di decisioni politiche alla cieca. Ogni settimana di stallo costa circa lo 0,2 per cento di Pil.
La speranza, per i democratici, è che i disservizi nei voli costringano Trump a trattare come accadde nel 2019. Ma oggi il presidente è un altro: senza più i consiglieri adulti del vecchio Partito repubblicano, non ha nessuno disposto a fermarlo prima di un altro scontro frontale.