Il sogno di Donald

Perché Trump parla di un terzo mandato e cosa dice la legge (e la storia) americana

Matteo Muzio

Dai due mandati di Washington al record di Roosevelt, fino all’emendamento del 1947: il sogno di Trump di restare al potere si scontra con due secoli di limiti costituzionali. Quanto è davvero possibile e quanto è solo propaganda

Donald Trump ci sta giocando da tempo con l’idea, che di sicuro lo alletta molto, di fare un terzo mandato alla Casa Bianca dopo le elezioni presidenziali del 2028. Un tema che il suo alleato Steve Bannon, che già ha servito per meno di un anno come “capo stratega” della Casa Bianca all’inizio del suo primo mandato, ha dato come assodato, nel suo stile roboante. I cittadini dovranno “farselo andare bene”. Come spesso accade con le dichiarazioni di Bannon, bisogna filtrare la spessa coltre di propaganda. Al di là delle sparate, una via sia pur stretta c’è. Andiamo con ordine: il limite dei due mandati, per gran parte della storia americana non è stato un obbligo costituzionale, ma soltanto una prassi. Il primo presidente George Washington aveva dichiarato che mal si confaceva alla Costituzione repubblicana una presidenza troppo lunga e senza limiti: per lui due mandati erano sufficienti. E consigliava ai suoi successori di attenersi a questo consiglio. Per molti anni è bastato. E del resto, dopo il ciclo iniziale di presidenti proveniente dalle fila dell’aristocrazia fondiaria della Virginia e dall’élite intellettuale, la carica nei primi decenni era assolutamente difficile da mantenere.

 

Soltanto Andrew Jackson e Ulysses Grant, dopo gli anni iniziali, sono riusciti a ottenere due mandati pieni. E proprio quest’ultimo, nel 1880, durante una tumultuosa convention repubblicana, ha tentato di mandare avanti la sua candidatura. Violando i sacri desiderata del Padre fondatore. Tentazione che ha colpito anche Teddy Roosevelt, che nel 1901 era subentrato all’assassinato presidente William McKinley ed era stato rieletto nel 1904. Nel 1912 avrebbe tentato nuovamente sotto le bandiere di nuovo partito, quello progressista, arrivando secondo. Soltanto un suo parente lontano, il dem Franklin Delano Roosevelt, avrebbe rotto l’incantesimo nel 1940 e nel 1944, prima di morire improvvisamente nel 1945. In questo caso sono stati i venti della Seconda guerra mondiale ad aver favorito questa svolta. Nel 1947 il Congresso a maggioranza repubblicana impone al presidente Harry Truman il ventiduesimo emendamento, piuttosto chiaro: ogni presidente può servire al massimo due mandati a vita. Non importa se non consecutivi, come all’epoca era già successo con il dem Grover Cleveland a fine Ottocento. L’avversione dei democratici segregazionisti al presidente ha fornito i voti necessari per ottenere i voti dei due terzi del Congresso e della maggioranza degli stati nel 1951. Consentita solo un’eccezione: per quei vicepresidenti subentrati dopo metà mandato. In quel caso sono possibili dieci anni in carica. Stando così lo scenario, cosa può fare Trump? Può tentare di fare un nuovo emendamento che superi il ventiduesimo. Strada impervia, quasi impossibile. Serve un impossibile collaborazione con l’opposizione, che Trump non dà segno di voler cercare. 

 

Difficile anche che passi la legge proposta dal deputato Andy Ogles per dare la possibilità al tycoon di farlo passi. Non ci sono i tempi tecnici. Ci può essere un colpo di mano fatto mediante decreto esecutivo che definisca l’emendamento “nullo” per un qualsiasi motivo. Difficile che la Corte suprema in quel caso faccia finta di nulla. A quel punto cosa resta? C’è solo un ricorso alla Corte suprema che prenda le mosse da una sentenza vecchia di trent’anni, la US Term Limits v. Thornton del 1995, che analizzava i limiti di mandato al Congresso posti da ventitré stati. Il ricorrente, il deputato dem dell’Arkansas Ray Thornton, sostenne che solo gli elettori potevano decidere il destino di deputati e senatori. La maggioranza progressista decise, con maggioranza di cinque giudici contro quattro, di dare ragione a Thornton. A opporsi allora, con un dissenso scritto, fu il giudice Clarence Thomas, ancora oggi presente. In caso di ricorso però, in ossequio al principio del precedente, potrebbe sostenere che il ventiduesimo emendamento sarebbe iniquo nei confronti dei poteri del presidente. Sarebbe l’ennesima torsione ideologica, ma l’attuale Corte suprema a maggioranza trumpizzata ci ha abituato a questo. Ed è possibile che questo avvenga di nuovo.

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