Ansa

L'analisi

L'Europa deve ripensare la sua sicurezza: sostenere Kyiv è solo l'inizio

Nona Mikhelidze

L’Ucraina deve essere trattata non come beneficiaria di aiuti, ma come alleato, la cui esperienza, tecnologia e personale possono contribuire a riformare la pianificazione della difesa europea. La sua integrazione in questo nuovo quadro rappresenta al tempo stesso una sfida e un’opportunità

Nonostante tutte le discussioni sui possibili negoziati tra Donald Trump e Vladimir Putin, tutte le nuove sanzioni introdotte dall’Amministrazione americana, tutti gli sforzi europei e ucraini di proporre nuovi piani di pace, la verità difficile da accettare resta che, al momento, nulla di tutto questo conta davvero. La Russia non sta cercando una via d’uscita: si sta preparando a una guerra lunga. Ogni iniziativa diplomatica si scontra con la stessa realtà – la determinazione di Mosca a proseguire l’aggressione finché non avrà ridefinito l’ordine di sicurezza europeo secondo i propri termini. In questo contesto, la domanda per l’Europa non è quando finirà la guerra, ma come l’Europa la comprende, e cosa questa comprensione significhi per la propria sicurezza.

 

Uno dei più gravi ostacoli a una risposta europea efficace in materia di sicurezza risiede in un malinteso persistente: l’Europa non ha ancora riconosciuto pienamente che la guerra russa in Ucraina è una guerra contro l’Europa. Troppo spesso, il conflitto è ancora descritto come un confronto tra Mosca e Kyiv, e non come la linea del fronte della sicurezza europea. Questa interpretazione può sembrare analitica, ma comporta conseguenze politiche profonde. Rafforza l’idea che il ruolo dell’Europa sia soltanto quello di “aiutare” l’Ucraina, invece di difendere il proprio spazio strategico. Finché questa percezione perdura, gli sforzi militari e industriali continueranno a essere considerati come interventi temporanei di assistenza, anziché come adeguamenti strutturali a un ordine di sicurezza ormai trasformato. Ciò spiega perché in molti paesi il dibattito nazionale ruota ancora attorno alla durata del sostegno a Kyiv, invece che alla sua sostenibilità. Eppure, le implicazioni di una vittoria russa – o anche solo di un conflitto congelato secondo i termini di Mosca – andrebbero ben oltre i confini ucraini. Significherebbero la creazione di una vasta zona militarizzata ai margini dell’Unione europea, la normalizzazione dell’aggressione come strumento di politica estera e l’erosione della deterrenza in tutto il continente. Finché l’Europa non comprenderà che la difesa dell’Ucraina è inseparabile dalla propria, continuerà a reagire in modo tardivo e disorganizzato. Perciò riconoscere la guerra come un problema europeo non è un gesto simbolico: è l’unico punto di partenza realistico per pianificare la sicurezza continentale nel prossimo decennio.

 

Un altro fraintendimento che alimenta la passività europea riguarda la falsa interpretazione della debolezza o della forza della Russia. Molti ritengono che le difficoltà militari di Mosca dimostrino la sua incapacità di costituire una seria minaccia per l’Europa. L’argomento è seducente: se la Russia non è riuscita a vincere contro l’Ucraina in quasi quattro anni, come potrebbe affrontare la Nato? Ma questo ragionamento è pericolosamente fuorviante. La guerra ha rivelato le debolezze delle forze armate russe, ma anche la loro capacità di adattamento. L’economia russa è oggi in gran parte mobilitata per la guerra, la sua industria bellica ha ampliato la produzione, riorganizzato la logistica e trovato nuove catene di approvvigionamento.

 

Inoltre, la Russia non ha bisogno di invadere l’Europa con i carri armati per minacciarla. Può farlo con i droni e con strumenti ibridi: operazioni cibernetiche, disinformazione, attività per procura, e pressione sulle rotte energetiche e migratorie. Queste tattiche sono già state sperimentate sul teatro ucraino. Credere che la Russia sia “troppo debole per essere pericolosa” significa rischiare di ripetere la stessa cecità strategica che precedette l’invasione del 2022, quando avvertimenti credibili furono liquidati come allarmismo. La vera lezione è che la Russia, pur essendo più debole di prima, è diventata più propensa al rischio, più esperta di guerra e meno vincolata – una combinazione che la rende imprevedibile nelle sue decisioni contro l’Europa, non innocua. Questa rivalutazione deve anche tener conto di un profondo mutamento nelle dinamiche transatlantiche. Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, hanno chiarito di non considerarsi più il garante automatico della sicurezza europea. Mettendo in discussione gli impegni della Nato, Washington ha segnalato che il proprio coinvolgimento sarà sempre più selettivo, transazionale e condizionato. Si tratta non di un disaccordo momentaneo, ma di un’evoluzione strutturale nella strategia americana.

 

Per l’Europa, le implicazioni sono nette. Deve prepararsi alla possibilità che l’assistenza militare statunitense all’Ucraina diventi subordinata a concessioni politiche e finanziarie – uno scenario già visibile nella retorica di Washington. La deterrenza europea non può più basarsi sull’assunzione di una protezione americana incondizionata. La credibilità del fianco orientale della Nato dipende ora dalle capacità e dalla coesione dell’Europa stessa. Ma questa transizione mette in luce anche i limiti persistenti del continente – industriali, logistici e politici – nel raggiungere una vera autonomia strategica. L’èra della dipendenza è finita, che l’Europa lo voglia o no. Se gli Stati Uniti fanno un passo indietro, l’Europa deve farne uno avanti, non imitando la potenza americana, ma organizzando la propria capacità di agire e di proteggere i propri confini. Se si collegano questi elementi – la percezione errata della guerra, l’illusione della debolezza russa e l’incertezza crescente nei rapporti transatlantici – emerge un’unica conclusione. L’Europa non può più permettersi di considerare la difesa dell’Ucraina, la minaccia russa e il disimpegno americano come questioni separate. Fanno parte di un’unica trasformazione dell’ordine di sicurezza europeo. Ciò di cui l’Europa ha bisogno non è un nuovo elenco di iniziative, ma un cambiamento radicale di mentalità: considerare il sostegno all’Ucraina come un investimento nella propria sicurezza; prepararsi a un confronto di lunga durata con una Russia militarizzata; e agire collettivamente nella pianificazione e nella produzione della difesa.

 

Al centro di questa trasformazione si trova l’Ucraina stessa. Il paese non è più soltanto un partner bisognoso di sostegno: è oggi l’attore di sicurezza più esperto d’Europa. Negli ultimi quattro anni ha imparato a combattere una guerra su larga scala e ad alta intensità con risorse limitate. Ha sviluppato cicli rapidi di innovazione, adattato tecnologie civili a scopi militari e coordinato settore pubblico e privato con una flessibilità che molti sistemi europei ancora non possiedono. Il compito dell’Europa non è semplicemente integrare l’Ucraina nei propri programmi o armonizzare standard tecnici, ma imparare dalla sua cultura operativa – dalla rapidità, dall’improvvisazione e dall’iniziativa decentrata che si sono rivelate vitali alla sopravvivenza. Queste lezioni dovrebbero orientare il pensiero europeo in materia di approvvigionamento, prontezza, resilienza e integrazione tra settori civili e militari. L’Ucraina deve essere trattata non come beneficiaria di aiuti, ma come partner di sicurezza, la cui esperienza, tecnologia e personale possono contribuire a riformare la pianificazione della difesa europea. L’integrazione dell’Ucraina in questo nuovo quadro rappresenta al tempo stesso una sfida e un’opportunità: la sfida della guerra e l’opportunità di costruire un’Europa più capace, coordinata e resiliente.

Di più su questi argomenti: