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l'analisi

Come ridare senso all'Europa e all'Unione

Andrea Graziosi

L’Unione solo come mercato. Il peccato originale del diritto di veto. Gli errori commessi  negli anni, la guerra in Ucraina. Sarebbe il momento  di pensare a un gruppo più agile di paesi pronti a fare scelte anche in tema di difesa e politica estera

Anche se ora pare che non si incontreranno, Putin e Trump si erano parlati e avevano deciso di incontrarsi a Budapest, cioè in quello che sarebbe territorio dell’Unione europea dove quindi Putin non potrebbe recarsi se essa fosse davvero un’Unione e non un’altra cosa. La stessa Unione non è stata tenuta al corrente delle conversazioni tra i due presidenti né a quanto sappiamo lo sono stati i maggiori paesi europei. E in medio oriente essi hanno giocano un ruolo al massimo di rincalzo e l’Unione nessuno. 

Al di là delle proprie preferenze personali e di fondati motivi di un’indignazione che serve però a poco, è quindi utile provare a chiedersi in che condizioni siano e soprattutto cosa sono oggi l’Europa, l’Unione europea e i paesi europei, anche per sgombrare il campo da una retorica che usa parole false e ingannevoli e quindi ostacola, più che aiutare, quel che ancora forse si può fare. Bisognerebbe per esempio sempre ricordare che dell’Europa fanno parte da secoli anche Londra e Mosca, e con un ruolo che dire centrale è poco; e che l’Unione europea non è un’Unione ma un’associazione di stati che hanno delegato ad essa meno poteri di quanti la legge ne assegni a condominii che possono decidere alcune cose a maggioranza e in cui nessun condomino gode del diritto di veto.

Come ha di recente ricordato con onestà von der Leyen, l’Unione è quindi in realtà un mercato che cerca, con abbastanza successo, di imporre regole comuni che aiutino i suoi membri a prosperare ed è così perché, pur facendo ampie concessioni alla retorica e ai discorsi, questi stessi membri hanno sempre voluto che così fosse.

Il trionfo nei fatti della visione gaullista di un’Europa delle nazioni che molti hanno sottovalutato e persino deriso è testimoniato da un diritto di veto voluto da tutti sin dall’inizio, quando i partecipanti erano sei, e confermato di volta in volta, con piccolissimi brontolii, a ogni allargamento, sicché oggi ne godono in ventisette. Ed è noto che benché sia possibile fare “unioni” basate sul libero veto e che queste simil-unioni prosperino in tempi tranquilli, se sottoposte alla pressione di epoche più dure esse cedono prima di stati più solidi, come dimostra la storia polacca del Settecento. 

Per capire qual è invece la posizione degli stati europei si può partire dal fatto che ancora negli anni Sessanta del Novecento la soluzione del mercato unico (peraltro correttamente chiamata col suo nome) era da non pochi punti di vista accettabile e realistica anche se sarebbe stato preferibile fare già allora di più, e non solo col senno di poi. Quel mercato unico e quelle istituzioni comunitarie davano infatti frutti abbondanti; in sei (abbastanza simili) paesi era oggettivamente più facile trovare un accordo malgrado il veto; almeno i più grandi degli stati europei erano ancora tra i più importanti del mondo e spesso al centro di proprie, grandi aree di influenza; per la difesa c’erano degli Stati Uniti ancora in larga parte europei (in quel decennio era di origine europea, e spesso recente, quasi il 90 per cento dei loro abitanti); e c’era un nemico comune, situato per di più nel nostro continente.
In questa prospettiva, la prima occasione dove alcune scelte giuste e importanti sono state accompagnate da scelte sbagliate di pari rilevanza è rappresentata dal tornante del 1989-91, quando si decise coraggiosamente di aprire a est e di allargare progressivamente le istituzioni comunitarie. Il diritto di veto fu però mantenuto e si diede alla relativamente nuova creatura un nome ingannatore, scelto anche perché confortava speranze che erano però anche per questo illusioni, malgrado il successo dell’euro sembrasse presto confermarne la sostanza. 
A questo doppio grande errore se ne accoppiò uno che lo era altrettanto, frutto anch’esso di illusioni accoppiate però nel suo caso alla convenienza. Penso alla decisione di non ripensare radicalmente una North Atlantic Treaty Organization (uso il nome completo perché basta a far capire quanto essa appartenesse già a un mondo scomparso) che aveva perso la sua ragione e la sua missione e non era più adatta alla nuova scala globale che il mondo andava evidentemente acquistando. Soprattutto, quella decisione di non procedere a ripensamenti e quindi a riforme radicali, anche delle scelte europee, si fondava sul presupposto semplicemente assurdo dal punto di vista storico dell’eternità di un Occidente nato nel 1945 dall’Unione di Stati Uniti e sei paesi dell’Europa occidentale, due corpi che si stavano già allontanando a causa della tripla spinta esercitata dall’allargamento a est dell’Europa; dalla scomparsa del nemico comune; e dalle nuove grandi correnti migratorie da tutto il mondo che sostituivano quelle, ormai seccate, provenienti dall’Europa che avevano alimentato per 300 anni il “Nuovo mondo”. La convenienza era rappresentata, semplicemente, dal fatto – che sembrava ovvio – che gli Stati Uniti avrebbero così continuato a sovvenzionare un’Europa i cui paesi avrebbero potuto continuare a non spendere per la loro difesa, come se ciò fosse possibile sul lungo periodo (ma si sa che tutti o quasi decidiamo sempre o quasi, e spesso non irrazionalmente, in base a considerazioni di breve periodo).


Gli errori del tornante  1989-91, il mancato ripensamento della Nato, le scelte sbagliate prese nel 2008-12 e poi nel 2014, quando la crisi avviò uno stravolgimento dei rapporti di forza economici, tecnologici e scientifici tra paesi europei e Stati Uniti. Nessun dibattito sulla demografia e le politiche migratorie 


Nuove scelte questa volta quasi tutte strategicamente sbagliate furono prese nel 2008-12 e poi nel 2014, quando la crisi avviò uno stravolgimento dei rapporti di forza economici, tecnologici e scientifici tra paesi europei e Stati Uniti (oltre che col resto del mondo) cui non si riuscì a porre rimedio se non dal punto di vista finanziario. Si imboccò allora anche la strada di una politica “ecologica” opportuna ma rovinata da ideologismo e radicalismo, anche discorsivo, e si badò più alla regolazione che a provvedimenti a favore della ricerca scientifica, anche applicata, per esempio nel campo dell’intelligenza artificiale o dei calcolatori, mentre i cellulari europei venivano spazzati via perché non si riuscivano a trasformare in computer. 
Anche su una questione cruciale come quella della demografia e delle politiche migratorie non vi fu nemmeno un dibattito all’altezza del tema, e come confermano le memorie della Merkel, di fronte alle parole – chiare – di Putin a Monaco nel 2007 e poi alle sue azioni aggressive del 2008 in Georgia e del 2014 in Crimea e nel Donbas si preferì nascondere la testa nella sabbia e procedere come se nulla fosse. Come se fosse possibile preservare un mondo che comprensibilmente non si voleva perdere, perché piaceva, facendo finta di niente.
La catastrofe del 2022 e quelli che sono ormai quasi quattro anni di una guerra europea che ha già fatto più di un milione di morti e feriti imporrebbero un cambiamento radicale, la cui necessità è confermata da una presidenza Trump che, al di là di qualunque giudizio politico o ideale se ne dia, persegue attivamente e aggressivamente interessi statunitensi e non più “occidentali”. La strada da imboccare sembra abbastanza chiara. Si tratta di affiancare a istituzioni comunitarie preziose ma handicappate dal veto un gruppo più agile ma formalizzato di paesi pronti a fare scelte anche nel campo della difesa, della politica estera e magari della demografia e dell’immigrazione, mantenendo la più stretta vicinanza possibile con Washington ma assumendo un ruolo attivo e propositivo anche su temi come quello della trasformazione della Nato in uno strumento globale delle liberaldemocrazie.
I cosiddetti “volenterosi” che sembravano il seme da cui ciò poteva germogliare sono stati però bloccati – spero non soffocati – sul nascere, prima che potessero dotarsi di una qualsivoglia struttura, dalle gravissime difficoltà politiche di Macron, strettamente intrecciate a un tema simbolico, quello delle pensioni, che meriterebbe un’analisi separata, nonché dalla comprensibile decisione di un Regno Unito uscito dalla Ue (un altro indicatore di crisi cui non si diede il giusto peso), di tornare a sottolineare la special relationship con Washington.
La paralisi francese è particolarmente grave perché rende difficilissimo affrontare il problema di un ombrello nucleare europeo, unica base di indipendenza possibile nel mondo che si va delineando. Tra l’altro, affrontare il problema dal punto di vista del nucleare era sì politicamente complesso, ma tecnicamente più facile e “redditizio” rispetto a un riarmo affidato di fatto, malgrado il ruolo di una buona volontà in cui è lecito in parte sperare, ai singoli paesi, una scelta che ha confermato – se mai ce ne fosse bisogno – la natura dell’“Unione”. 


I cosiddetti “volenterosi” bloccati prima che potessero dotarsi di una qualsivoglia struttura dalle gravissime difficoltà politiche di Macron. Il problema di un ombrello nucleare europeo. La passione cieca della sinistra italiana che ha spinto a parlare tantissimo di un’Europa che non esiste. Gli interessi nazionali in gioco



La situazione è inoltre complicata dall’oggettiva convergenza degli interessi di Washington e Mosca a che non nasca un autonomo polo europeo, anche se alleato nel caso della prima e nemico in quello della seconda. Lo dico senza dimenticare il bene fattoci dagli Stati Uniti e il male provocato dall’Unione sovietica, ma che le cose stiano così sembra evidente. Lo dimostrano le pressioni, le provocazioni e i droni usati da Mosca per intimorire e sovvertire i paesi europei, ma anche la politica di una Washington che li corteggia singolarmente per impedire che quel polo veda la luce. Ne ha dato proprio in questi giorni una piccola dimostrazione il positivo commento personale di Trump a una agenzia di informazioni americana secondo cui Meloni starebbe pensando di allentare il sostegno italiano all’Ucraina e di trovare un accordo speciale con gli Stati Uniti, una prospettiva che Trump lascia pendere come un’esca davanti a tutte le capitali europee e in specie a quelle più importanti. 
L’attenzione per l’Italia non deriva quindi probabilmente dalla consapevolezza delle fragilità del nostro paese rispetto alla questione europea, che ha assunto da noi aspetti paradossali, ma queste fragilità esistono. A lungo fieramente osteggiato dalla sinistra, il processo di costruzione dell’“Europa” è poi, e per fortuna, col tempo diventato una sua bandiera, ma con un entusiasmo – legato al venir meno di altri simboli – che ha spinto a parlare tantissimo di un’Europa che non esiste e a non vedere la realtà di un’Unione nel cui nome andava fatto questo o quello perché era lei, che non c’era, a chiedercelo. L’ultima espressione di questa passione per una cosa che non c’è – ma che ci si è guardati bene dal provare a rafforzare, per esempio lottando contro il veto quando si è a lungo detenuto il potere in Italia – è stata forse la manifestazione “convocata” recentemente da Michele Serra e Repubblica (cui ho partecipato anch’io). Ma proprio questa passione cieca, che impedisce di vedere la realtà e si nutre di retorica, è una delle sorgenti della debolezza del nostro europeismo che anche per questo non riesce a far fronte come dovrebbe a sovranismi filorussi e filoamericani alimentati anche dall’insofferenza per quella retorica. 

La cosa colpisce, tanto più perché non vi sono oggi contraddizioni sostanziali tra il perseguire l’obiettivo – difficile ma possibile – della costruzione di un polo autonomo europeo e i nostri interessi nazionali. Il 2022 ha posto infatti tutti i paesi europei – compresa paradossalmente la Russia chiamata a decidere se è parte o no dell’Europa – di fronte a una scelta di nuovo tipo, e molto più netta delle precedenti, una scelta i cui tempi potrebbero presto chiudersi con la soluzione che sarà data al problema causato dall’aggressione all’Ucraina. 

Se si guardano le cose con realismo, le opzioni immaginabili sono molte e ve ne sono di certo altre che non riesco a vedere. La prima è quella di una semplice presa d’atto della realtà nata negli anni Sessanta: non c’è un’Unione, c’è una semplice – ancorché preziosa – associazione di stati sovrani che dura finché assicura vantaggi ai suoi membri. Data la nuova configurazione del mondo e la scala delle sue nuova grandi potenze, questa opzione avrebbe però un significato depressivo, di accettazione di un ruolo subordinato e di uno status di emarginazione, che non aveva sessant’anni fa. Non è tra l’altro detto che questa semplice ma benefica associazione riesca a reggere nel nuovo mondo che si va delineando. Questa opzione rende quindi necessaria la più grande attenzione a che quegli stati sovrani siano governati e amministrati dai loro gruppi dirigenti nel modo migliore possibile, una necessità che sarebbe acuita da un futuro status di minorità a livello internazionale. Un parallelo possibile è quello con l’Italia del Cinquecento, sconfitta e subordinata alle nuove grandi potenze di allora, dove però per esempio il Granducato di Toscana riuscì nell’opera di cui parliamo, assicurando ai suoi abitanti un futuro migliore di quello garantito da altri stati della penisola.
C’è poi la prospettiva, che preferisco perché mi sembra la migliore per il nostro futuro, della costruzione di un polo autonomo europeo, con una sua élite dalla visione più larga e uno status ben maggiore nel mondo. Non è un obiettivo facile: vi si oppongono pressioni internazionali, debolezza culturale, illusioni ma anche il peso della vecchiaia in un continente dove i giovani contano poco, la qualità dell’università e della ricerca e dell’industria è quindi a rischio, e dominano aspettative decrescenti e quindi un’insoddisfazione alimentata anche da un’immigrazione che i nostri stessi comportamenti nel campo della procreazione rendono necessaria. Ma non è nemmeno un obiettivo impossibile: delle forze ci sono, quel che bisognerebbe fare è abbastanza evidente, e si può sperare che un’élite politica europea – oggi probabilmente a base tedesca date le difficoltà della Francia – vi si impegni.

Ma non è difficile immaginare anche altre possibilità. Le tensioni del mondo potrebbero per esempio provocare non solo gravi difficoltà a una “Unione” che non è tale, ma anche spingere alcune sue parti a cercare nuove alternative. Si ha talvolta l’impressione che questa sia una delle strade che considera la Spagna, che ha nel mondo ispanofono una grande risorsa che altri paesi europei non hanno. Ma questa potrebbe anche essere una soluzione capace di attirare una Germania che vede di nuovo emergere una Mitteleuropa più larga e diversa da quella sognata all’inizio del XX secolo perché include Scandinavia, Baltico e una parte significativa dell’Europa centrale e orientale, una grande regione i cui confini sono oggi posti in discussione dalla politica di Mosca. All’Italia, che non ha Americhe latine e spazi cui guardare (quello del Mediterraneo è un’illusione che sarebbe meglio abbandonare in quanto tale, assegnandogli il suo giusto peso), restano mi sembra due opzioni, per fortuna non conflittuali: fare di tutto per essere comunque il meglio che può essere, e spingere per una soluzione più alta, il cui successo dipende dalla qualità delle idee e dell’iniziativa politica, e dalla capacità di vedere come stanno le cose. 

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